A world of love



Ciao Maf :),
vedo che da alcuni giorni non scrivi: va tutto bene?
Spero di si, ovunque tu sia.
Per te

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Grazie Diago per il messaggio premuroso e gentile.
Ora, comunque, va meglio:)

La cosa che più ti aiuta a guarire è il buon umore.
(Pindaro)


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“Ci vuole anche un pizzico di superfluo nella vita,
qualcosa di sgargiante e scintillante, un po’ di bellezza,
sia pure da quattro soldi"

SÁNDOR MÁRAI


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«Ecco ancora degli alberi, di cui conosco le rugosità, e dell’acqua, di cui sento il sapore.
E questi profumi d’erba e di stelle, la notte, in certe sere che il cuore si placa…»

Albert Camus (Il mito di Sisifo)


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Das einzig Wichtige im Leben sind die Spuren der Liebe, die wir hinterlassen, wenn wir gehen.

L’unica cosa importante nella vita sono le tracce dell’amore che lasciamo quando partiamo.

(Albert Schweitzer)


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“[…] scrivo per ricordare,
ricordo per non sparire,
per farmi nido in bilico sul ramo
e accogliere la solitudine delle cose
salvandole dal tempo, dal suo segreto
oscuro e doloroso, quasi disumano”

Franca Alaimo


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Perché chi ama

non sa mai ciò che ama

né sa perché ama

né cos’è amare.


Alberto Caeiro



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"Qualcosa si stava rompendo, qualcosa s’è rotto. Non ti senti più – come dire? – sorretto:
qualcosa che ti sembrava, e ti sembra, t’avesse finora confortato, scaldato il cuore,
restituito il sentimento della tua esistenza, quasi della tua stessa importanza, dandoti
l’impressione di aderire al mondo e di esservi come immerso, comincia ora a venir meno".

Georges Perec


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È in questo sostanziale malinteso che inciampano molte esistenze.
Nell’idea completamente sbagliata che tutto sia sotto controllo.
Che si possa scegliere di andare o stare, senza soffrire.

Josephine Hart, Il danno


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2 Novembre

La morte non è niente, di Henry Scott Holland


La morte non è niente.
Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto.
Io sono sempre io e tu sei sempre tu.
Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.
Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato. Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme. Prega, sorridi, pensami! Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza.
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista?
Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.
Rassicurati, va tutto bene.
Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata.
Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la mia pace
.


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“Era amante, madre e figlia…”.

Parigi. Un orfano inconsolabilei. Edgar Morin si definisce così, da quando è scomparsa sua moglie,
l’amatissima Edwige. Per il celebre intellettuale francese, quella donna era stata tutto.
Da tale straziante condizione è nato un libro bellissimo e struggente, attraversato dal dolore e dominato dall’amore:
Edwige, l’inséparable

“Eravamo inseparabili, radicati l’uno nell’altra, pur conservando ciascuno la propria personalità.
Vivevamo un amore intenso e necessario, fonte continua di gioia e poesia.
Con lei la vita quotidiana era un paradiso e la nostra casa un nido di felicità.
A dieci anni ho perso mia madre, so cosa significa essere orfano.
Alla morte di Edwige ho riprovato le stesse sensazioni, mi sono sentito orfano una seconda volta.
...Ho scritto il libro per far conoscere mia moglie, una persona segreta e quasi misteriosa. Volevo
mostrarne le qualità e la forza, pur senza nasconderne i difetti...Mentre scrivevo, piangevo e soffrivo,
ma continuavo a starle vicino. Era un modo per lottare contro la morte, facendo durare la sua memoria”
.
 

Allegati

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«Ho riconosciuto la felicità dal rumore che ha fatto andandosene».

Jacques Prevért


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"Fino alla morte di Sara non avevo mai fatto nulla senza allegria, come diceva di sé Montaigne. La tristezza era un
continente sconosciuto. È arrivata all’improvviso ed è stato un trauma. Ma ora fa parte di me, la riconosco non
appena mi sveglio al mattino... Gli amici spesso si comportano come se il dolore avesse una data di scadenza,
superata la quale si diventa un peso. E un sentimento comprensibile: tutti vogliamo essere circondati da persone
spensierate, le più generose verso gli altri. Mentre chi è prigioniero di un’assenza reclama costantemente attenzione.
“Accidenti, sei ancora così giù”, è una delle frasi che mi capita di sentire, che poi significa: ma quando la pianti con
queste lagne? C’è poi una sentenza-analgesico che mi fa impazzire: il tempo cura ogni cosa. Ma quando mai? Noi
vecchi sappiamo che è vero il contrario: il tempo non solo non aggiusta, ma semmai rende tutto più difficile...
L’amore per me è quando uno smette di vivere per qualcosa e comincia a vivere per qualcuno. Non si vive più peri soldi,
il potere o la fama, ma per la felicità dell’altro che è la tua. Anche nei momenti più difficili non ci ha mai abbandonato
la certezza di essere l’uno il destino dell’altro. Io mi sentivo felice quando da lei arrivavano segnali di approvazione:
per un mio scritto, un comportamento, un gesto. Come se il suo beneplacito valesse più di un Nobel... Il sesso è una cosa,
l’amore un’altra. Io ho vissuto avventure erotiche che non avevano niente a che vedere con il mio rapporto con lei.
In questo sono stato leale. »

Il filosofo spagnolo Fernando Savater ha scritto un libro per ricordare la moglie scomparsa dopo una malattia.
“Lei era forte, la sua assenza mi ha reso vulnerabile. A chi mi chiede di superare il lutto dico: il dolore non ha una data di scadenza”


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… La morte di un amore è come la morte d’una persona amata. Lascia lo stesso strazio, lo stesso vuoto, lo stesso rifiuto di rassegnarti a quel vuoto. Perfino se l’hai attesa, causata, voluta per autodifesa o buonsenso o bisogno di libertà, quando arriva ti senti invalido. Mutilato. Ti sembra d’essere rimasto con un occhio solo, un orecchio solo, un polmone solo, un braccio solo, una gamba sola, il cervello dimezzato, e non fai che invocare la metà perduta di te stesso: colui o colei con cui ti sentivi intero. Nel farlo non ricordi nemmeno le sue colpe, i tormenti che ti inflisse, le sofferenze che ti impose. Il rimpianto ti consegna la memoria d’una persona pregevole anzi straordinaria, d’un tesoro unico al mondo, nè serve a nulla dirsi che ciò è un’offesa alla logica, un insulto all’intelligenza, un masochismo. (In amore la logica non serve, l’intelligenza non giova e il masochismo raggiunge vette da psichiatria.)
Poi, un po’ per volta, ti passa. Magari senza che tu sia consapevole lo strazio si smorza, si dissolve, il vuoto diminuisce e il rifiuto di rassegnarti ad esso scompare. Ti rendi finalmente conto che l’oggetto del tuo amore morto non era nè una persona pregevole anzi straordinaria, nè un tesoro unico al mondo, lo sostituisci con un’altra metà o supposta metà di te stesso e per un certo periodo recuperi la tua interezza. Però sull’anima rimane uno sfregio che la imbruttisce, un livido nero che la deturpa e ti accorgi di non essere più quello o quella che eri prima del lutto. La tua energia si è infiacchita, la tua curiosità si è affievolita e la tua fiducia nel futuro s’è spenta perchè hai scoperto d’aver sprecato un pezzo d’esistenza che nessuno ti rimborserà. Ecco perchè, anche se un amore langue senza rimedio, lo curi e ti sforzi di guarirlo. Ecco perchè, anche se in stato di coma boccheggia, cerchi di rinviare l’istante in cui esalerà l’ultimo respiro: lo trattieni e in silenzio lo supplichi di vivere ancora un giorno, un’ora, un minuto. Ecco infine perchè, anche quando smette di respirare, esiti a seppellirlo o addirittura tenti di resuscitarlo. Alzati Lazzaro e cammina.

Oriana Fallaci



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Ciliegi in fiore sul far della sera
anche quest’oggi
è diventato ieri.

Kobayashi Issa
(1763-1827)


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Niente come il sinistro dondolio del lampadario, durante un terremoto,
ci ricorda che siamo fragili e inermi.

(Fabrizio Caramagna)


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6 maggio 1976 - Il terremoto devastò il Friuli

"Ero steso sul divano in cucina, leggevo un “Topolino”. Papà era già sulla porta con mio fratello più piccolo Stefano di 4 anni in braccio per portarlo su in camera. Una casa su due piani più solaio, se fosse salito sarebbero morti entrambi perché il solaio è crollato sulle camere.
Al boato non ho subito realizzato il terremoto, mio padre sì e ha urlato a tutti di uscire, di scappare.
Poi il finimondo, luci spente e sono fuggito verso nord, verso la parte delle montagne, in calzini e pigiama; papà con Stefano dall’altra parte verso l’aia per rifugiarsi negli orti, unico spazio aperto. Il boato è stato amplificato dalle montagne e dalle falde che sono molto vicine, hanno fatto da cassa di risonanza, tutto era amplificato. Altro ricordo forte la polvere e l’odore delle pietre macinate.
Poi la notte più lunga.
È stata da animali spaventati.
Ci hanno raggiunto altre famiglie, avevamo salvato delle coperte sistemandoci nel prato. Nessuno dormiva.

Eravamo completamente isolati in cima al colle. Sapevamo da quelli del borgo di sotto che c’erano stati crolli. Al di là del microcosmo di Chiusaforte non sapevamo nulla, anche se immaginavamo che l’evento era stato terribile. Come bambino sembrava di essere al centro della fine del mondo, come fosse stato un annuncio. In un certo senso era vero perché il ’76 ha rappresentato la fine di una società che era ancora contadina e artigianale, e anche l’economia poggiava su una fortissima emigrazione.

Pierluigi Cappello


Non aveva ancora compiuto nove anni il poeta Pierluigi Cappello quando, a Villanova di Chiusaforte, la sua vita cambiò una prima volta, alle 21.02 del 6 maggio 1976.

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Ultima modifica:
Quando ti sei trovato in mezzo a un terremoto, anche se ne esci senza un graffio,
sai che esso resta nel grembo della terra come un colpo al cuore, orribilmente potenziale,
sempre con la promessa di tornare.

(Salman Rushdie)


 
Il terremoto è un naufragio in terra. Le case diventano imbarcazioni scosse tra le onde e sbattute sugli scogli. Si perde tutto, si conserva la vita, lacera, attonita che conta gli scomparsi sul fondo delle macerie.
Si abita un suolo chiamato per errore terraferma. È terra scossa da singhiozzi abissali. Questi di stanotte sono partiti da oltre quattromila metri di profondità. Qualche giorno fa stavo agli antipodi, oltre quattromila metri sopra il mare. Quel monte delle Alpi non è un meteorite piovuto dal cielo, ma
il risultato di spinte e sollevamenti scatenati dal fondo del Mediterraneo. Forze gigantesche hanno modellato il nostro suolo con sconvolgimenti.

Si abita una terra precaria, ogni generazione cresce ascoltando storie di terremoti. Così, con le narrazioni, i vivi smaltiscono le perdite. Le macerie si spostano, si abita di nuovo lentamente, ma al loro posto restano le voci, le parole degli scaraventati all’aperto, a tetti scoperchiati. Ricordano, ammoniscono a non insuperbirsi di nessun possesso.

Arriva cieco di notte il terremoto e sconvolge i piccoli paesi. Ma i mezzi di soccorso sono di stanza nei grandi centri. Fosse un’invasione, quale generale accentrerebbe le sue forze lontano dai confini? Per il protettor civile questo ragionamento non vale. Ogni volta deve spostare le sue truppe con lento riflesso di reazione. Ai naufraghi nelle prime ore serve il conforto al cuore di un qualunque segnale di pubblica prontezza. Invece arriva prima un parente, un volontario, un giornalista. Il terremoto è anche un’invasione, contro la quale avere riserve piccole e pronte sparpagliate ovunque.

“Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie”. La frase di guerra di cent’anni fa del soldato Ungaretti Giuseppe racconta il sentimento di stare attaccati all’ albero della vita con un solo piccolo punto di congiunzione”

ERRI DE LUCA


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