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I ricchi padroni della finanza internazionale


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All’ora di pranzo il ristorante San Pietro, a due passi dal Rockefeller Center, nel cuore di Manhattan, accoglie decine di finanzieri che si concedono un "break", una sosta, per chiacchierare con amiche di passaggio, per una intervista al "Financial Times" e soprattutto per assaggiare i garganelli alla ruchetta o il gelato di crema al tartufo bianco. Ma in questi giorni il ritmo dei pasti al San Pietro assomiglia a quello di una catena di fast food. Nessuno ha tempo da perdere. L’andamento tempestoso dei mercati, infatti, costringe i "principi del denaro" a tornare rapidamente alla tolda di comando.
Nei piani alti dei loro grattacieli newyorkesi, gestori di fondi, maghi degli hedge funds e traders di commodities arrivano prima del solito, all’alba, e restano fino a notte fonda. Seguono con nervosismo gli indici delle borse mondiali, si interrogano sulle sorti del dollaro, cercano di indovinare la traiettoria dello zinco o dell’oro. E sperano che la bufera iniziata l’11 maggio, subito dopo il rialzo dei tassi Usa (quando il Dow Jones era alla soglia di un nuovo record storico), passi al più presto: non solo perché il crollo dei mercati incide sul loro business, con notevoli rischi per il futuro, ma anche perché si rendono conto della ostilità crescente dell’opinione pubblica nei confronti dell’aristocrazia finanziaria e della "hedgemony", come la chiama il "NewYorker", cioè del potere egemonico degli hedge funds.
Vari fattori contribuiscono alle recenti incertezze e alla accresciuta fluttuazione ("volatilità") dei mercati: dollaro, rallentamento economico, sfiducia per George W. Bush, pressioni protezionistiche, inflazione. E alla Fed c’è un nuovo presidente, Ben Bernanke, che deve ancora dimostrare di essere un degno successore di Alan Greenpsan, specie dopo l’"incidente" con la giornalista italoamericana della Cnbc Maria Bartiromo (Bernanke si era lamentato con lei che i mercati non avevano interpretato bene le sue parole sui tassi e il giorno dopo a Wall Street c’è stato uno scivolone).
Di fronte a un quadro del genere, "Mister Mercato" (così Benjamin Graham, il "maestro" di Warren Buffett, chiamava il protagonista collettivo e metaforico della finanza) ha molte ragioni per essere ansioso. E in questa atmosfera così confusa gli hedge fund finiscono spesso sul banco degli imputati.
Sono loro – si sente dire da uomini politici, industriali e persino dal ministro saudita del petrolio, Ali Naimi – che hanno manipolato i prezzi dell’energia e delle materie prime, facendoli triplicare e mandando in orbita gli indici di borsa, senza alcun rapporto con la realtà. Sempre loro a fiutare il pericolo prima di altri e mettere in salvo i loro capitali, lasciando i piccoli risparmiatori con in mano il cerino acceso.
Ma è veramente così? Sono loro i colpevoli? Alan Greenspan risponde di no.
Parlando dieci giorni fa a New York, l’expresidente della Fed ha sostenuto che gli hedge funds sono un fattore positivo per il sistema finanziario "perché ne accrescono l’efficienza". Certo, hanno reagito velocemente ai primi segnali di pericolo finanziario, scaricando miliardi di dollari sul mercato, e accentuando così il fenomeno; ma non sono una associazione a delinquere.
Le ultime vicende hanno comunque evidenziato i mutamenti avvenuti nel mondo degli hedge funds. Fino a quindici anni erano istituzioni di nicchia, adatte solo ai superricchi, mentre adesso il loro appeal è più "democratico" e hanno sicuramente conquistato un posto di primo piano nella finanza globale. E il loro numero è esploso.
Nel settembre 1992, quando Soros diede l’assalto alla Banca d’Inghilterra assieme al suo partner nel Quantum Fund Jim Rogers (guadagnando in pochi giorni 1,1 miliardi di dollari), gli hedge funds erano pochissimi. Adesso sono 8500 ("Troppi", ammonisce Greenspan) e gestiscono 1.130 miliardi di dollari, una somma superiore al pil della Spagna e il doppio dei loro "assets" di tre anni fa (secondo una ricerca del TowerGroup la cifra crescerà del 15 per cento fino al 2008).
Accanto allo strumento tradizionale introdotto nel 1949 dal capostipite Alfred Winslow Jones vendere azioni allo scoperto comprandone al tempo stesso di altre, in modo da bilanciare i rischi –gli hedge funds si servono ora di prodotti derivati, arbitraggio, options e altre sofisticate leve finanziarie. E i guadagni dei gestori sono astronomici: il che, ovviamente, acuisce la diffidenza dei media e dei piccoli risparmiatori.
Secondo la rivista "Institutional Investor", nel 2004 Edward Lampert della ESL Investments ha incassato 1,02 miliardi di dollari. L’anno scorso, grazie ai favorevoli trend dei mercati, i 26 manager più pagati hanno percepito in media 363 milioni di dollari a testa. La hit parade è guidata da James Simon della Renaissance Technology con 1,5 miliardi: che rappresenta il guadagno personale, non quello del fondo. Al secondo posto c’è T. Boone Pickens a quota 1,4 miliardi, poi sempre Soros con 840 milioni, Steven Cohen con 600 milioni e Paul Tudor Jones con 500.
A dispetto della loro diffusione, il mondo degli hedge funds è ancora misterioso.
Lampert, Michael Steinhardt o Stanley Druckenmiller non dicono nulla ai telespettori di "Mad Money", il programma di finanzaspettacolo condotto da Jim Cramer: eppure sono grandi gestori. Lo stesso dicasi per BP Capital Management Investment o Everest Capital. Forse ciò è dovuto al modo silenzioso, riservato, lontano dalle telecamere, con cui gli hedge funds hanno sempre condotto gli affari. Ma di sicuro la loro presenza non passa inosservata, specie alla Fed, dove è ancora vivo il ricordo del Long Term Capital Management, il cui crac del 1998 mise in pericolo la stabilità dei mercati e richiese una operazione di salvataggio di 2,6 miliardi di dollari.
Potrebbe accadere di nuovo? C’è forse il rischio che la tempesta in corso faccia affondare un altro hedgefund con contraccolpi sistemici? Ben Bernanke scuote la testa. E mentre chiede che vengano scrutate attentamente le loro attività, non ritiene opportuno di assoggettarli a norme e regolamenti, come se fossero istituti di credito o fondi di investimento.
 
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