aumento tassazione capital gain, news e suggerimenti

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pierrone

dov'è il cigno nero?
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ciao, vorrei usare questo thread per postare ogni notizia che trapela dall'Unione riguardo alle modalità di applicazione dell'aumento della tassazione dei proventi finanziari, nonchè per suggerimenti degli esperti per il migior modo per noi operatori per minimizzare l'esborso fiscale.

Diamo per scontato che l'Unione vinca le elezioni e che modificherà l'imposizione.


Il punto che non è chiaro è se semplicemente l'unione aumenterà l'aliquota lasciando inalterata la legge attuale, oppure se la legge verrà modificata e come.

Poi, altro problema: come verrà applicata la nuova imposta sulle posizioni in essere prima dell'entrata in vigore della riforma? Credo esista qualche norma costituzionale per la quale non sia possibile aumentare la tassazione per le operazioni già in essere, o mi sbaglio?


Io personalmente mi trovo ad avere una situazione così: enormi minusvalenze realizzate ed enorme plusvalenza sulle posizioni in essere, fortunatamente superiore alle minus realizzate. Come è meglio comportarsi?


ciao
Pier
 
pierrone ha scritto:
ciao, vorrei usare questo thread per postare ogni notizia che trapela dall'Unione riguardo alle modalità di applicazione dell'aumento della tassazione dei proventi finanziari, nonchè per suggerimenti degli esperti per il migior modo per noi operatori per minimizzare l'esborso fiscale.

Diamo per scontato che l'Unione vinca le elezioni e che modificherà l'imposizione.


Il punto che non è chiaro è se semplicemente l'unione aumenterà l'aliquota lasciando inalterata la legge attuale, oppure se la legge verrà modificata e come.

Poi, altro problema: come verrà applicata la nuova imposta sulle posizioni in essere prima dell'entrata in vigore della riforma? Credo esista qualche norma costituzionale per la quale non sia possibile aumentare la tassazione per le operazioni già in essere, o mi sbaglio?


Io personalmente mi trovo ad avere una situazione così: enormi minusvalenze realizzate ed enorme plusvalenza sulle posizioni in essere, fortunatamente superiore alle minus realizzate. Come è meglio comportarsi?


ciao
Pier

Ciao Pierrone, la realtà è che non ci sono soluzioni geniali.

Potresti monetizzare le plus in misura pari alle minus per azzerare il credito fiscale e restare con meno plusvalenze potenziali, ma non credo che tu non abbia già considerato la cosa.

Inoltre bisogna vedere se i costi di transazione e slippage rendono praticabile questa strada.

Purtroppo non sappiamo cosa ci aspetta di preciso e quindi non è possibile studiare contromosse adeguate.

Quanto all'appellarsi alla costituzione, credo che sia inutile, infatti anche il prelievo secco del 6 per mille sui depositi presentava profili di dubbia costituzionalità (posto che la dimensione del c/c è con tutta evidenza scarso indice di capacità contributiva - il povero ha, in proporzione, molta più liquidità sul conto del finanziere multimiliardario) eppure si andò avanti lo stesso.

:bye:
 
quella manovra di Amato fu però fatta in situazioni disperate per la situazione finanziaria di allora e non fu una manovra con effetti eccessivamente distorsivi (fu "solo" una lotteria del furto). La manovra che farà il governo Prodi ha effetti potenzialmente esremamente più distorsivi, basti pensare a cosa potrebbe significare il diverso trattamento delle operazioni chiuse a breve o a lungo o la eventuale fuga di capitali all'estero o verso investimenti meglio premiati dal fisco, mentre c'è meno fretta di allora, per cui il governo dovrebbe studiare bene la manovra, vista la sua importanza prospettica.

Siccome non dubito che il governo vorrà fare le cose "bene" (anche se considero profondamente sbagliata la manovra) ecco che mi piacerebbe che qualcuno interrogasse nel dettaglio gli esponenti dell'unione che dovrebbero occuparsi della stesura della legge.

Per esempio io se fossi un capo dell'unione abbandonerei l'idea di tassare di più le plusvalenze e porrei in essere una tassa propriamente patrimoniale (ad esempio dello 0,3% - 0,5% del capitale) che ha tra l'altro due pregi infinitivamente migliori rispetto alla schifezza di legge attuale:

1) dà stabilità alle entrate (perchè i patrimoni hanno meno volatilità dei redditi)
2) permette un ottimo controllo dell'evasione fiscale (perchè grosse variazioni "patrimoniali" da un anno all'altro possono spingere a fare controlli semplici e mirati)

da notare che la patrimoniale è presente in paesi evoluti come svizzera e francia, dove la gente le tasse le paga solitamente fino all'ultimo, purtroppo da noi è stata strumentalizzata dalla destra. Il fatto che si discuta poco nel merito della legge che vorrebbero fare mi fa perciò sperare che abbiano in testa proprio la patrimoniale, il che sarebbe (almeno per me ma penso per la gran parte dei traders) un ottima cosa rispetto all'aumento dell'imposta sul capital gain
 
Intanto aspettiamo il 9 aprile, non è detto proprio per niente che i "signori" della siniostra riescano mettere le mani nei risparmi degli italiani con l'ennesimo, assurdo, aumento delle tasse
 
27-03-2006
Tutto (o quasi) quello che vorreste sapere sulla tassazione delle attività finanziarie
Silvia Giannini

Maria Cecilia Guerra

In questi giorni vi sono state roventi polemiche sul futuro della tassazione delle attività finanziarie, ma spesso l’informazione è stata parziale o fuorviante. Proviamo a rispondere alle domande più frequenti e sfatare alcuni luoghi comuni.



I redditi di capitale sono tassati oggi in Italia? Come?




I redditi di capitale e diversi (interessi, dividendi e plusvalenze) percepiti da un normale risparmiatore (una persona fisica che non esercita attività di impresa) sono già oggi tassati nel nostro paese, ma con aliquote diverse. Sui depositi e conti correnti bancari e postali e sulle obbligazioni private con scadenza inferiore a diciotto mesi vi è una imposta sostitutiva dell’Irpef, prelevata alla fonte con l’aliquota del 27 per cento. Sugli interessi sui titoli del debito pubblico, sui buoni postali e sulle obbligazioni con scadenza superiore a diciotto mesi, l’aliquota è invece il 12,5 per cento. La stessa aliquota è applicata anche ai dividendi e a tutte le plusvalenze, purché, nel caso di dividendi e plusvalenze azionarie, l’azionista non detenga partecipazioni qualificate (in caso contrario una quota, pari al 40 per cento del loro valore è tassata in Irpef). L’aliquota del 12,5 per cento è applicata al risultato netto di gestione dei fondi comuni e delle gestioni patrimoniali.



Vi sono buoni motivi per cambiare la tassazione delle attività finanziarie?



La presenza di due aliquote non ha alcuna giustificazione razionale, né sotto il profilo dell’equità (perché chi ha interessi da depositi bancari o postali dovrebbe pagare di più di chi detiene obbligazioni?), né dal punto di vista dell’efficiente funzionamento del mercato (la tassazione non dovrebbe interferire sulle scelte finanziarie degli individui, che dovrebbero essere guidate solo dalla convenienza economica).

I motivi per unificare il tutto in un’unica aliquota non sono tanto quelli di recuperare gettito, quanto quelli di rendere più coerente e razionale il sistema di imposizione diretta dei redditi.



Quale sarebbe il livello ottimale per un’aliquota unica sui redditi finanziari?



Non vi è un livello ottimale. La scelta va fatta tenendo conto del tipo di sistema impositivo che si vuole adottare. Se si volesse adottare, ad esempio, un’imposizione non sul reddito ma sul consumo (“imposta sul reddito spesa”), tema spesso dibattuto nella letteratura economica, i redditi di capitale dovrebbero essere esentati. Nessun paese si è mosso però finora in questa direzione.

I redditi di capitale sono spesso tassati con regimi proporzionali, fuori dal regime progressivo che grava sui redditi di lavoro. Mediamente quindi sono meno tassati rispetto ai redditi di lavoro.

La scelta di una aliquota intermedia, fra le due attualmente esistenti (12,5% e 27%) è motivata dalla volontà di ridurre la distanza fra il prelievo sui redditi finanziari, da un lato, e quello sui redditi di lavoro (tassati con le aliquote Irpef dal 23 al 43 per cento) e delle società di capitali (tassati con l’Ires al 33 per cento e l’Irap al 4,25 per cento), dall’altro.



Come è la tassazione negli altri paesi europei?



Per quanto riguarda gli interessi il modello di tassazione prevalente nella Unione Europea non è più l’imposizione ordinaria (imposta personale e progressiva sul reddito), ma un insieme variegato di regimi sostitutivi e separati. Nell’Europa a 25, gli interessi rimangono assoggettati al regime ordinario di tassazione solo nel Regno Unito e Slovenia e, per opzione del contribuente, in Belgio, Francia e, in parte, in Germania.

I regimi di tassazione separata o sostitutiva prevedono generalmente una sola aliquota di tassazione (anche se in molti paesi, soprattutto fra i nuovi entranti, sono previste esenzioni per varie tipologie di interessi) il cui livello varia fra il 10 e il 35 per cento, ma è generalmente non inferiore al 15-20 per cento (ad esempio, 27 per cento in Francia, 31,65 per cento in Germania al di sopra di una soglia esente, dal 20 al 40 per cento nel Regno Unito, 28 per cento in Finlandia).

Nei paesi nordici, che applicano sistemi cosiddetti di dual income tax, l’aliquota sui redditi di capitale coincide con l’aliquota base dell’imposta personale progressiva sul reddito.



Fissare una aliquota superiore al 12,5 per cento può provocare una fuga di capitali?

L’enfasi posta su questa eventualità va sicuramente ridimensionata.
In primo luogo, perché l’aggravio medio per il contribuente sarebbe limitato, in quanto l’aliquota sui depositi bancari e postali si riduce corrispondentemente.
In secondo luogo, perché anche se si investe all’estero, occorre pagare le imposte in Italia, con le stesse aliquote applicate ai redditi di capitale interni. Se non lo si fa, è perché si evade. Ma vi sono strumenti crescenti di controllo e contrasto di questo tipo di evasione. Vi è un sistema di monitoraggio interno sui movimenti di capitale da e per l’estero. Dal luglio 2005 è poi in vigore una direttiva europea che prevede lo scambio di informazioni automatico fra paesi sul pagamento di interessi a contribuenti europei. I paesi che non vi hanno aderito, applicano una ritenuta alla fonte del 15 per cento, che aumenterà progressivamente fino al 35 per cento, con retrocessione del 75 per cento del gettito al paese di residenza del percettore. Anche importanti paesi, non appartenenti alla Unione, hanno aderito all’accordo e operano una ritenuta alla fonte ai livelli indicati (per esempio, Svizzera e Liechtenstein), o concorrono allo scambio di informazioni (come Monaco e San Marino). Certo, sfuggendo al monitoraggio e cioè utilizzando canali illegali, si può sempre andare alle Cayman o altro paradiso fiscale in cui la direttiva non si applica ma ci si va già adesso e, semmai, non solo per risparmiare il 12,5 per cento di imposta.



Se si aumentasse l’aliquota sugli interessi dei titoli pubblici non si correrebbe il rischio di un aumento dei rendimenti lordi che lo Stato deve garantire ai sottoscrittori, con il risultato che il Governo pagherebbe con la mano sinistra quello che ha raccolto con la mano destra?



I titoli del debito pubblico sono per lo più detenuti da soggetti esteri (55 per cento) e per il 20 per cento da banche e imprese. Per questi soggetti l’aumento dell’aliquota del 12,5 per cento non avrebbe alcun effetto. I risparmiatori (persone fisiche residenti) per i quali l’aumento dell’aliquota del 12,5 per cento ha effetto detengono meno del 16 per cento dei titoli pubblici (il restante 9 per cento è nelle mani dei fondi comuni). Difficilmente la loro domanda sarà in grado di influenzare le condizioni di offerta, e ciò a maggior ragione a seguito del progressivo allineamento dei tassi di interesse lordi fra paesi, reso possibile dall’adesione del nostro paese all’Unione monetaria europea. Non si creerebbe una convenienza a modificare la composizione del portafoglio, perché la nuova aliquota sarebbe applicata ai redditi di tutti i tipi di attività finanziaria.



È possibile che un’eventuale riforma delle aliquote si applichi in modo retroattivo?



No. Eventuali nuove aliquote si applicherebbero solo ai nuovi redditi di capitale. Dunque, l’imposta non sarebbe retroattiva. Anche per quanto riguarda le plusvalenze, come si è fatto in passato, per evitare la tassazione retroattiva si calcolano le plusvalenze maturate fino al momento dell’introduzione della nuova aliquota in modo da assoggettare al nuovo regime solo quelle maturate dopo tale data.



Che differenza c’è fra tassare anche i redditi futuri di titoli già oggi in circolazione o limitare la tassazione solo ai redditi derivanti da titoli emessi dopo una eventuale riforma?



Se si limitasse la nuova aliquota ai soli titoli emessi dopo l’entrata in vigore della riforma si creerebbero differenze di trattamento tra titoli di vecchia e di nuova emissione, facendo un bel regalo in conto capitale (e cioè nella valutazione dei titoli) a chi ha titoli più vecchi, come è puntualmente avvenuto nel 1986, al momento dell’introduzione della tassazione sui titoli pubblici. Alla differenza attuale per durata del titolo, se ne sostituirebbe un’altra per data di emissione. Inoltre questo periodo di transizione si protrarrebbe per circa un trentennio, creando segmentazioni sui mercati secondari. Diventerebbe più complessa anche la tassazione dei fondi comuni, tassati sul risultato di gestione. Per motivi di equità e di efficiente funzionamento dei mercati è dunque decisamente preferibile estendere la riforma anche ai titoli già in circolazione.



Aumentare la tassazione sui titoli pubblici significherebbe colpire i piccoli risparmiatori?



I titoli pubblici sono una componente minoritaria del risparmio delle famiglie; rappresentano secondo l’ultimo bollettino economico della Banca d’Italia solo il 5,6 per cento delle attività finanziarie detenute dalle famiglie. Per affrontare il problema dell’equità della riforma proposta occorre considerare l’insieme di queste attività.



Quali sono allora gli effetti redistributivi della riforma?



Per rispondere a questa domanda occorre tener presente che la ricchezza finanziaria è nel nostro paese molto concentrata. Sulla base dei dati ricavabili dall’ultima inchiesta della Banca d’Italia sui redditi e la ricchezza delle famiglie italiane, corretti per tener conto delle note sottostime che emergono in questo tipo di rilevazioni campionarie, si evince che il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede, da solo, il 40 per cento dello stock di attività finanziarie (con l’esclusione di riserve assicurative e fondi pensione) dell’insieme delle famiglie, contro il solo 1,2 per cento posseduto dal 10 per cento delle famiglie più povere. Uniformare le aliquote a un livello intermedio (ad esempio, il 19-20 per cento) avrebbe quindi sicuramente effetti redistributivi positivi.



Si può fissare una esenzione per i piccoli risparmi?




Generalmente l’esenzione ai piccoli risparmiatori viene concessa nell’ambito di una tassazione personale, non di una tassazione sostitutiva, come la nostra, perché richiede di conoscere i redditi finanziari complessivamente ricevuti dal singolo risparmiatore. È comunque possibile studiare forme di esenzione, attraverso meccanismi di opzione per la tassazione ordinaria o di certificazione dell’imposta pagata da parte degli intermediari.



Quanto sarebbe il gettito che si potrebbe ottenere da una riforma di questo tipo?



Le stime del gettito atteso vanno prese con molta cautela, in quanto in larga parte dipendono dalle ipotesi che si fanno circa la rilevanza delle plusvalenze, che sono però una componente con un andamento molto erratico. Vi è poi difficoltà a stimare la tassazione dei fondi comuni, i quali stanno ancora sfruttando, in compensazione, ingenti crediti di imposta maturati in passato, a seguito delle minusvalenze conseguite sui mercati azionari.

Si parla comunque di una cifra compresa fra i 2,5 e i 4,2 miliardi. Di questi, meno di 400 milioni arriverebbero dalla tassazione dei titoli pubblici.


Ma se la nuova aliquota fosse applicata in modo uniforme a tutti i redditi di capitale e diversi, inclusi dividendi e plusvalenze azionarie, non si avrebbe un fenomeno di doppia imposizione, posto che dividendi e plusvalenze azionarie possono avere già subito un primo livello di tassazione in capo alla società?



Già oggi vi è doppia imposizione, ma questa aumenterebbe se ci si limitasse ad aumentare l’aliquota del 12,5 per cento anche sui dividendi e sulle plusvalenze azionarie. Una volta il problema non si poneva, perché c’erano delle compensazioni, che riducevano la tassazione complessiva (societaria e personale) sugli utili di impresa: la dual income tax in capo alla società e il credito di imposta ai dividendi, in capo al socio. Oggi questi correttivi non ci sono più. Se si vuole evitare di penalizzare le società che si finanziano con capitale proprio sul mercato dei capitali, occorrerà una riforma più organica che coinvolga anche la tassazione del reddito delle società. E’ questo un aspetto spesso trascurato nel dibattito, che meriterebbe maggiore attenzione .

www.lavoce.info
 
miti e realtà sulla tassazione delle rendite
Silvia Giannini
Maria Cecilia Guerra

Il Governo è da tempo diviso sulla tassazione delle cosiddette "rendite finanziarie". Anche se un aumento dell’aliquota del 12,5 per cento, attualmente riservata agli interessi diversi da depositi bancari e postali, ai dividendi e plusvalenze su partecipazioni non qualificate e ai fondi comuni, è stato per ora escluso dalla Finanziaria, il dibattito continua. Vediamo di valutare i pro e i contro di una politica di questo tipo e soprattutto di mettere in evidenza come l’aumento di gettito non possa essere la sola finalità di un intervento di riforma in questo campo.

Alcune premesse

Nel nostro paese, i redditi delle attività finanziarie sono tassati con aliquote diverse: 12,5 per cento e 27 per cento. Questa differenziazione di aliquote non è giustificata, né sotto il profilo dell’equità, né sotto quello della neutralità del prelievo. La necessità di arrivare a un’aliquota uniforme è condivisa sia dal centrodestra che dal centrosinistra.
Molto diversa è stata però sino ad ora l’opinione circa il livello preferibile per tale aliquota.
Mentre il Governo di centrosinistra ipotizzava a suo tempo una convergenza verso un’aliquota del 19 per cento, intermedia fra le due esistenti, quello di centrodestra prevedeva, nella legge delega di riforma del sistema erariale (legge 80/2003), un’aliquota unica al più basso dei livelli attuali: il 12,5 per cento.

Timori infondati

I motivi a favore di una tassazione molto contenuta dei redditi finanziari, illustrati dall’attuale Governo nella relazione alla legge delega, e che ritornano periodicamente nel dibattito, sono fondamentalmente due.
Vi è innanzitutto il timore che l’aumento della tassazione sostitutiva del 12,5 per cento possa determinare una fuga di capitali verso gli altri paesi (che, come il nostro, non prelevano alcuna tassazione sui non residenti) rivelandosi un boomerang non solo per l’erario, ma anche per il paese nel suo complesso.
Questo timore sembra eccessivo. Infatti, la sensibilità della maggior parte dei sottoscrittori al differenziale di tassazione fra interessi interni ed esterni - anche in ragione dell’esistenza di misure quali le ritenute di ingresso e il monitoraggio dei flussi di capitali da e per l’estero - è meno marcata di quanto si tenda a fare apparire. Va poi ricordato che nel luglio 2005 è entrata in vigore una direttiva europea che ha la finalità di rendere possibile ai singoli Stati tassare i propri residenti per gli interessi percepiti all’estero. Questo risultato discende dalla previsione di un adeguato scambio di informazioni fra paesi membri. (1)
Nonostante i limiti della direttiva, è evidente che essa costituirà un disincentivo alle fughe di capitali.
Un altro timore, anch’esso largamente infondato, è che, a fronte di un aumento dell’imposta sui titoli pubblici, lo Stato si trovi costretto a corrispondere tassi di interesse più elevati per poter collocare la propria offerta di titoli. Anche in questo caso il provvedimento si rivelerebbe un boomerang: al maggior gettito dell’imposta corrisponderebbero maggiori spese per interessi.
Ci si dimentica però che i soggetti interessati dall’aumento della tassazione detengono meno di un quarto dei titoli in circolazione: difficilmente la loro domanda sarà in grado di influenzare le condizioni di offerta, e ciò a maggior ragione a seguito del progressivo allineamento dei tassi di interesse reso possibile dall’adesione del nostro paese all’Unione monetaria europea. Questi soggetti, inoltre, difficilmente troverebbero conveniente rivolgersi ad altri investimenti finanziari, posto che comunque la nuova aliquota sarebbe applicata uniformemente a tutti i tipi di reddito da attività finanziaria.

L’aumento del gettito non dovrebbe essere il principale obiettivo


Recentemente, la proposta di unificare la tassazione dei redditi finanziari a un livello sensibilmente più alto rispetto al 12,5 per cento, con la finalità principale di reperire gettito per la copertura delle più diverse esigenze, è comparsa ripetutamente anche nel dibattito all’interno della maggioranza.
L’aumento del gettito non può però essere il principale obiettivo cui finalizzare un intervento di riforma della tassazione dei redditi finanziari. Da un lato infatti, l’andamento ballerino dei mercati finanziari, in particolar modo per quanto riguarda le plusvalenze, rende arbitraria ogni previsione circa tale aumento. Dall’altro, la scelta del livello della aliquota non può essere il risultato di considerazioni estemporanee, ma deve dipendere dal sistema di imposizione societaria e più in generale diretta (sui redditi di capitale, impresa e lavoro) che si intende adottare.

La discussione che bisognerebbe fare


L’innalzamento dell’aliquota del 12,5 per cento sugli interessi sarebbe sicuramente auspicabile, per motivi di equità: la scala delle aliquote dell’imposta su tutti gli altri redditi parte da un’aliquota minima del 23 per cento.
I redditi finanziari tassati al 12,5 per cento includono però anche i dividendi e le plusvalenze. I dividendi sono utili che hanno già subito l’Ires in capo alla società. Lo stesso accade alle plusvalenze azionarie, nella misura in cui esse riflettono l’esistenza di utili accantonati a riserva. Diverso è il caso di plusvalenze di altra natura, che andrebbero pertanto tenute opportunamente distinte (come già accade nella tassazione delle plusvalenze per le società di persone). Con un’aliquota al 23 per cento, i redditi provenienti da investimenti, finanziati con capitale proprio e già tassati in capo alla società, sopporterebbero un’aliquota complessiva, senza contare l’Irap, del 48,41 per cento, addirittura più alta dell’aliquota massima che sosterrebbero gli azionisti che detengono quote rilevanti del capitale. (2)
Le società di capitali con azionariato diffuso sarebbero discriminate anche rispetto alle società di persone e alle imprese soggette a Irpef, i cui utili resterebbero tassati con aliquote che vanno dal 23 al 43 per cento. Non sarebbe certo una politica idonea ad allargare il ricorso al mercato da parte delle imprese, a diffondere il capitale azionario tra il pubblico dei risparmiatori, a rafforzare il sistema produttivo e stimolare la crescita dimensionale delle imprese.

C’è una soluzione?

La soluzione a questi problemi richiede di definire prioritariamente il modello di tassazione che si vuole adottare.
Ad esempio, nel programma del precedente Governo di centrosinistra, l’aliquota proposta per la tassazione, uniforme, dei redditi finanziari era pari all’allora aliquota base dell’Irpef (il 19 per cento) e, nell’ambito del prelievo societario, alla tassazione riservata al rendimento "normale" del capitale proprio, in virtù del meccanismo della Dit. Il sistema verso cui si tendeva era un sistema di tassazione duale, analogo a quello dei paesi nordici, in cui a tutti i redditi di capitale (finanziario e reale) è riservato un prelievo omogeneo, coordinato con quello a cui vengono assoggettati i redditi di lavoro. Si potrà concordare o meno con un sistema di questo tipo, ma certamente va riconosciuto che ha una sua ben precisa razionalità e coerenza.
Qualsiasi sia il sistema adottato, per non penalizzare gli investimenti in capitale di rischio, la riforma della tassazione delle rendite finanziarie dovrebbe uniformare, e aumentare in media, la tassazione degli interessi e di quelle plusvalenze che non sono il riflesso di utili trattenuti e già tassati presso l’impresa. Il "normale" rendimento del capitale proprio (il costo opportunità di investire nel capitale di rischio) andrebbe invece opportunamente detassato. In questo contesto di più ampia riforma, i recuperi di gettito attesi potrebbero facilmente rivelarsi un miraggio.


(1) Per gli interessi pagati in Belgio, Lussemburgo e Austria, che non hanno aderito subito allo scambio di informazioni e nei principali paesi terzi (primo fra tutti la Svizzera), è prevista l’applicazione di misure "equivalenti": una ritenuta alla fonte inizialmente pari al 15 per cento, ma destinata a crescere fino al 35 per cento, il cui gettito deve essere retrocesso, per il 75 per cento, al paese di residenza del percettore.

(2) Nel qual caso, tipico delle società a ristretta base azionaria, i dividendi vanno inclusi per il 40 per cento nell’imponibile dell’imposta personale e assoggettati a Irpef con aliquota massima del 43 per cento.
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