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02/04/2001
di V&S
Il problema più delicato in materia di class actions è rappresentato dalla organizzazione degli azionisti che, lamentandosi di un danno subito (particolarmente in caso di violazione dei cd. fiduciary duties da parte del gruppo di comando), decidono di associarsi per promuovere un'azione giudiziaria.
Negli Stati Uniti il problema è risolto con l'individuazione del cd. leading plaintiff, ovvero del soggetto, in posizione di attore, cui è attribuito il diritto/dovere di promuovere l'azione giudiziaria anche per conto della "classe" che rappresenta. A lui compete, tra l'altro, la decisione dell'avvocato cui affidare la difesa, la costituzione in giudizio, la partecipazione alla fase di discovery, la comparizione alle udienze, nonché il potere di transigere la lite.
Tuttavia, anche negli Stati Uniti le regole per l'individuazione di tale soggetto non sono assolutamente chiare.
In Italia, spesso si sovrappone ad un'organizzazione di azionisti (che spesso non raggiunge le percentuali previste dal Tuf per l'esercizio dei cd. diritti della minoranza) una serie di incarichi giudiziari paralleli di ciascun azionista (non necessariamente componente dell'associazione) allo stesso avvocato o talvolta anche ad avvocati diversi, con la conseguenza che spesso, oltre a dover riunire i processi sorti in tempi diversi o con modalità diverse, sorge il problema di evitare contrasti all'interno degli stessi clienti, che spesso hanno interessi diversi se non addirittura contrastanti, in merito alla trattazione della causa.
A ciò si aggiunge che mentre negli Stati Uniti ha particolare diffusione il cd. patto di quota lite, quest'ultimo in Italia è vietato, per cui al professionista spetta comunque il compenso, anche indipendentemente dal risultato raggiunto, mentre è illecito ogni patto relativo ai "beni" che formano oggetto di controversia.