Franceschiello
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Ragazzi, salve.
Devo prendere una decisione per la mia vita perché gli anni passano e oramai si avvicina il momento in cui i rimpianti potrebbero cominciare a divorarmi.
Ho 35 anni e una brillante formazione scolastica e accademica.
Dopo aver svolto diversi lavori precari, da alcuni anni sono finito nella morsa della pubblica amministrazione. Dopo la prima laurea mi ero infatti messo a sostenere concorsi quasi per gioco perché non ci credevo più di tanto. Tuttavia li ho vinti quasi tutti, sbaragliando centinaia di candidati, per ritrovarmi in men non si dica mi sono ritrovato con un posto a tempo indeterminato.
Il problema è che a me questo lavoro non piace e proprio non riesco a farmelo piacere. I motivi sono diversi, ma ‒ diciamocelo chiaramente ‒ la ragione principale dell'insoddisfazione è la paga, che è ridicola. Sono al livello più elevato previsto dal mio comparto (carriera direttiva), corrispondente ai quadri del settore privato, ma percepisco uno stipendio che nel settore privato è pari se non inferiore a quello di un operaio specializzato.
Sono un manager e vengo pagato quanto un montatore della Fiat; senza ipocrisie vi dico che questo mi frustra e non poco e purtroppo impatta negativamente sulla mia vita privata.
I miei amici (quei pochi che sono rimasti) dicono che dovrei ritenermi fortunato perché oggi decine di giovani, e anche miei coetanei che non hanno mai lavorato, vorrebbero stare al mio posto. Inoltre non posso dire di svolgere una mansione non proporzionale al mio titolo di studio in quanto l'accesso alla mia categoria gerarchico-funzionale è riservato a laureati. Pur svolgendo una mansione non esattamente coerente a livello qualitativo con i miei studi ma quello è un altro discorso, legato al profilo di ruolo (comunque modificabile, anche se attualmente l'amministrazione non consente spostamenti interni e dunque, pur essendoci buchi di organico in strutture coerenti con la mia formazione, non posso andare a ricoprirli, perlomeno su domanda), essa è adeguata dal punto di vista quantitativo, poiché richiede obbligatoriamente un titolo accademico (quale, poi, è un altro discorso).
Non vi nascondo che francamente provo anche un senso di colpa nei confronti di chi è in situazioni peggiori della mia oppure, semplicemente, tira dritto senza lamentarsi (ci sono colleghi che con il mio stipendio hanno da tirar su due figli e magari devono far campare anche una moglie che non lavora. Anche mogli che campano i mariti!). Questo, unito alla paura di lasciare il certo per l'incerto e il noto per l'ignoto, mi frena dal rassegnare le dimissioni.
Purtroppo prospettive di carriera qui non esistono. Nel mio ente le progressioni economiche orizzontali sono bloccate da anni prima che io arrivassi dunque sono destinato a rimanere al livello retributivo iniziale per tutta la durata della carriera. Inoltre per il momento non è consentita la mobilità in uscita e pertanto non posso spostarmi. Potrei accedere alla qualifica dirigenziale, dopo che avrò maturato i necessari 5 anni di anzianità di servizio come funzionario, quando e se usciranno concorsi.
Ci sono altresì problemi di salute miei personali e dei miei genitori, con i quali non vivo ma che mi danno molta preoccupazione, che aggravano il mio già malmesso stato emotivo, per cui non riesco a essere sereno e a vedere un futuro roseo.
Per la cronaca, i miei genitori mi offendono in continuazione e oltretutto non si rendono neanche conto della loro incoerenza, visto che da un lato mi hanno cresciuto con fortissime ambizioni (ero continuamente sotto pressione psicologica perché dovevo sempre essere perfetto, il più bravo di tutti, e mi hanno sempre fatto pesare i piccoli insuccessi, che poi più che veri e propri insuccessi erano semplicemente avere reso poco meno del massimo) e dall'altro durante l'adolescenza e subito dopo mi hanno sempre tarpato le ali, semplicemente perché ho scelto percorsi formativi non convenzionali quando loro mi avrebbero voluto medico o ingegnere. Alla fine non ho studiato né quello che volevano loro né quello che volevo io ma ho optato per una soluzione di compromesso; i risultati sono stati molto positivi ma ho dovuto rinunciare a tutta una serie di opportunità perché loro sistematicamente mi frapponevano ostacoli che andavano dal ricatto morale all'impedimento fisico. Ad esempio durante il primo corso di studi ho avuto due proposte di lavoro molto interessanti (di cui una da una multinazionale) e per quieto vivere dovetti rinunciare a entrambe, visto che mia madre si fece venire una crisi isterica alla sola ipotesi che io potessi cominciare a lavorare prima di finire l'università. Successivamente ho avuto la possibilità di svolgere uno stage finalizzato all'assunzione in un'azienda molto interessante ma, pur essendo lo stage curriculare e dunque obbligatorio ai fini del conseguimento del titolo, i miei genitori mi misero i bastoni tra le ruote e fui costretto ad accontentarmi di un tirocinio poco più che formale sotto casa.
Quando ho smesso di dare retta a loro certe opportunità non mi si sono più presentate e a sono stato costretto ad accettare i classici lavori di ripiego in attesa di trovare di meglio, finché non mi sono trovato in questa situazione.
L'anno scorso deciso di proseguire ulteriormente la mia formazione universitaria volgendola verso un àmbito non esattamente confacente ai miei interessi con la speranza di avere una appetibilità sul mercato del lavoro privato. Studiare non mi pesa e costituisce per me un diversivo che mi tiene impegnato al di fuori del lavoro distraendomi dai pensieri negativi. Tuttavia mi sono poi dovuto scontrare con la dura realtà: un titolo di studio conseguito alla mia età nel privato serve poco o niente; è piuttosto sull'esperienza (che oramai è ultradecennale) che devo fare leva. D'altro canto, cerco tutti i giorni di interfacciarmi con realtà private per proporre la mia candidatura, ma mi imbatto sempre nel muro di gomma rappresentato dal fortissimo pregiudizio nei confronti di noi pubblici dipendenti, che rilevo perfino all'interno di grandi imprese derivanti dalla trasformazione, remota o più recente, di enti pubblici (gruppo Fsi, Poste italiane, Snam, Eni, Enel etc.).
Purtroppo anche al lavoro, malgrado io cerchi sempre di dare il massimo, si sono accorti che non sto bene. Ho parlato con il mio dirigente, che è una donna come del resto la stragrande maggioranza dei miei colleghi, e le ho detto di volere andare via. Da allora i nostri rapporti si sono assai incrinati.
Ora mi rendo conto che probabilmente l'unico modo per uscire da questa prigione è quello di avviare un'attività in proprio, ma secondo voi che cosa potrei fare? Diciamo che, tra risparmi smobilizzati e la vendita di una proprietà di famiglia, potrei investire 100mila euro.
In alternativa ho pensato di svolgere il praticantato di consulente del lavoro o di dottore commercialista, oppure di conseguire anche la laurea magistrale in Giurisprudenza (potrei iscrivermi al quarto anno con gli esami convalidati pari a oltre tre anni) e svolgere il praticantato di avvocato, ma in tutti e tre i casi devo dimettermi in quanto i praticantati non sono compatibili con il pubblico impiego, che richiede l'esclusività della prestazione (forse il praticantato di consulente del lavoro o quello di dottore commercialista si possono svolgere trasformando il contratto in part time; quello di avvocato sicuramente no perché l'incompatibilità è anche nelle norme che regolano la professione). Inoltre diciamo che vorrei pianificare un percorso di 'riconversione' più breve.
PS
In realtà ho pensato di entrare in società con qualcuno per un'attività già avviata, ma purtroppo a causa di limitazioni legali non posso essere amministratore né prestatore d'opera e non posso detenere partecipazioni rilevanti. Ora sul concetto di rilevanza mi devo informare, ma certamente non posso avere quote di maggioranza assoluta (e credo anche relativa). Non posso aprire partita IVA a titolo individuale (come libero professionista, imprenditore o altro).
Devo prendere una decisione per la mia vita perché gli anni passano e oramai si avvicina il momento in cui i rimpianti potrebbero cominciare a divorarmi.
Ho 35 anni e una brillante formazione scolastica e accademica.
Dopo aver svolto diversi lavori precari, da alcuni anni sono finito nella morsa della pubblica amministrazione. Dopo la prima laurea mi ero infatti messo a sostenere concorsi quasi per gioco perché non ci credevo più di tanto. Tuttavia li ho vinti quasi tutti, sbaragliando centinaia di candidati, per ritrovarmi in men non si dica mi sono ritrovato con un posto a tempo indeterminato.
Il problema è che a me questo lavoro non piace e proprio non riesco a farmelo piacere. I motivi sono diversi, ma ‒ diciamocelo chiaramente ‒ la ragione principale dell'insoddisfazione è la paga, che è ridicola. Sono al livello più elevato previsto dal mio comparto (carriera direttiva), corrispondente ai quadri del settore privato, ma percepisco uno stipendio che nel settore privato è pari se non inferiore a quello di un operaio specializzato.
Sono un manager e vengo pagato quanto un montatore della Fiat; senza ipocrisie vi dico che questo mi frustra e non poco e purtroppo impatta negativamente sulla mia vita privata.
I miei amici (quei pochi che sono rimasti) dicono che dovrei ritenermi fortunato perché oggi decine di giovani, e anche miei coetanei che non hanno mai lavorato, vorrebbero stare al mio posto. Inoltre non posso dire di svolgere una mansione non proporzionale al mio titolo di studio in quanto l'accesso alla mia categoria gerarchico-funzionale è riservato a laureati. Pur svolgendo una mansione non esattamente coerente a livello qualitativo con i miei studi ma quello è un altro discorso, legato al profilo di ruolo (comunque modificabile, anche se attualmente l'amministrazione non consente spostamenti interni e dunque, pur essendoci buchi di organico in strutture coerenti con la mia formazione, non posso andare a ricoprirli, perlomeno su domanda), essa è adeguata dal punto di vista quantitativo, poiché richiede obbligatoriamente un titolo accademico (quale, poi, è un altro discorso).
Non vi nascondo che francamente provo anche un senso di colpa nei confronti di chi è in situazioni peggiori della mia oppure, semplicemente, tira dritto senza lamentarsi (ci sono colleghi che con il mio stipendio hanno da tirar su due figli e magari devono far campare anche una moglie che non lavora. Anche mogli che campano i mariti!). Questo, unito alla paura di lasciare il certo per l'incerto e il noto per l'ignoto, mi frena dal rassegnare le dimissioni.
Purtroppo prospettive di carriera qui non esistono. Nel mio ente le progressioni economiche orizzontali sono bloccate da anni prima che io arrivassi dunque sono destinato a rimanere al livello retributivo iniziale per tutta la durata della carriera. Inoltre per il momento non è consentita la mobilità in uscita e pertanto non posso spostarmi. Potrei accedere alla qualifica dirigenziale, dopo che avrò maturato i necessari 5 anni di anzianità di servizio come funzionario, quando e se usciranno concorsi.
Ci sono altresì problemi di salute miei personali e dei miei genitori, con i quali non vivo ma che mi danno molta preoccupazione, che aggravano il mio già malmesso stato emotivo, per cui non riesco a essere sereno e a vedere un futuro roseo.
Per la cronaca, i miei genitori mi offendono in continuazione e oltretutto non si rendono neanche conto della loro incoerenza, visto che da un lato mi hanno cresciuto con fortissime ambizioni (ero continuamente sotto pressione psicologica perché dovevo sempre essere perfetto, il più bravo di tutti, e mi hanno sempre fatto pesare i piccoli insuccessi, che poi più che veri e propri insuccessi erano semplicemente avere reso poco meno del massimo) e dall'altro durante l'adolescenza e subito dopo mi hanno sempre tarpato le ali, semplicemente perché ho scelto percorsi formativi non convenzionali quando loro mi avrebbero voluto medico o ingegnere. Alla fine non ho studiato né quello che volevano loro né quello che volevo io ma ho optato per una soluzione di compromesso; i risultati sono stati molto positivi ma ho dovuto rinunciare a tutta una serie di opportunità perché loro sistematicamente mi frapponevano ostacoli che andavano dal ricatto morale all'impedimento fisico. Ad esempio durante il primo corso di studi ho avuto due proposte di lavoro molto interessanti (di cui una da una multinazionale) e per quieto vivere dovetti rinunciare a entrambe, visto che mia madre si fece venire una crisi isterica alla sola ipotesi che io potessi cominciare a lavorare prima di finire l'università. Successivamente ho avuto la possibilità di svolgere uno stage finalizzato all'assunzione in un'azienda molto interessante ma, pur essendo lo stage curriculare e dunque obbligatorio ai fini del conseguimento del titolo, i miei genitori mi misero i bastoni tra le ruote e fui costretto ad accontentarmi di un tirocinio poco più che formale sotto casa.
Quando ho smesso di dare retta a loro certe opportunità non mi si sono più presentate e a sono stato costretto ad accettare i classici lavori di ripiego in attesa di trovare di meglio, finché non mi sono trovato in questa situazione.
L'anno scorso deciso di proseguire ulteriormente la mia formazione universitaria volgendola verso un àmbito non esattamente confacente ai miei interessi con la speranza di avere una appetibilità sul mercato del lavoro privato. Studiare non mi pesa e costituisce per me un diversivo che mi tiene impegnato al di fuori del lavoro distraendomi dai pensieri negativi. Tuttavia mi sono poi dovuto scontrare con la dura realtà: un titolo di studio conseguito alla mia età nel privato serve poco o niente; è piuttosto sull'esperienza (che oramai è ultradecennale) che devo fare leva. D'altro canto, cerco tutti i giorni di interfacciarmi con realtà private per proporre la mia candidatura, ma mi imbatto sempre nel muro di gomma rappresentato dal fortissimo pregiudizio nei confronti di noi pubblici dipendenti, che rilevo perfino all'interno di grandi imprese derivanti dalla trasformazione, remota o più recente, di enti pubblici (gruppo Fsi, Poste italiane, Snam, Eni, Enel etc.).
Purtroppo anche al lavoro, malgrado io cerchi sempre di dare il massimo, si sono accorti che non sto bene. Ho parlato con il mio dirigente, che è una donna come del resto la stragrande maggioranza dei miei colleghi, e le ho detto di volere andare via. Da allora i nostri rapporti si sono assai incrinati.
Ora mi rendo conto che probabilmente l'unico modo per uscire da questa prigione è quello di avviare un'attività in proprio, ma secondo voi che cosa potrei fare? Diciamo che, tra risparmi smobilizzati e la vendita di una proprietà di famiglia, potrei investire 100mila euro.
In alternativa ho pensato di svolgere il praticantato di consulente del lavoro o di dottore commercialista, oppure di conseguire anche la laurea magistrale in Giurisprudenza (potrei iscrivermi al quarto anno con gli esami convalidati pari a oltre tre anni) e svolgere il praticantato di avvocato, ma in tutti e tre i casi devo dimettermi in quanto i praticantati non sono compatibili con il pubblico impiego, che richiede l'esclusività della prestazione (forse il praticantato di consulente del lavoro o quello di dottore commercialista si possono svolgere trasformando il contratto in part time; quello di avvocato sicuramente no perché l'incompatibilità è anche nelle norme che regolano la professione). Inoltre diciamo che vorrei pianificare un percorso di 'riconversione' più breve.
PS
In realtà ho pensato di entrare in società con qualcuno per un'attività già avviata, ma purtroppo a causa di limitazioni legali non posso essere amministratore né prestatore d'opera e non posso detenere partecipazioni rilevanti. Ora sul concetto di rilevanza mi devo informare, ma certamente non posso avere quote di maggioranza assoluta (e credo anche relativa). Non posso aprire partita IVA a titolo individuale (come libero professionista, imprenditore o altro).
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