crepuscolari

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watson

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Crepuscolari furono definiti dal critico Giuseppe Antonio Borgese quei poeti che avvertirono la crisi spirituale del tempo come un crepuscolo nell’imminenza del tramonto, che non vollero e non seppero allacciare alcun rapporto concreto e costruttivo con la realtà sociale, che rifiutarono ogni aggancio con la tradizione culturale. Questi poeti si ripiegarono su se stessi a compiangersi d’esser nati e, in attesa della morte, cantarono gli aspetti più banali e insignificanti del quotidiano, avvolgendo uomini e cose in una nuvola di malinconia. Privi di fede e di speranza, i crepuscolari si rifugiarono nel grigiore delle cose comuni, quasi col pudore di chi vuol nascondersi agli occhi degli altri per non farsi veder piangere. Tra di loro annoveriamo Marino Moretti, Corrado Govoni, Fausto Maria Martini, ma le voci più autentiche e significative sono quelle di Sergio Corazzini e Guido Gozzano.
 
Scritto da watson
ma le voci più autentiche e significative sono quelle di Sergio Corazzini e Guido Gozzano.



grande sig.na, quella di Gozzano!!...Corazzini, peccato, è andato via troppo presto...
 
S. Corazzini nacque a Roma nel febbraio del 1886 da padre romano e da madre cremonese, una famiglia benestante che presto, per errori economici commessi dal padre, si trovò in una situazione di necessità. Dopo le scuole elementari infatti Sergio fu mandato a studiare presso il Collegio nazionale di Spoleto ma per ragioni economiche dovette interrompere quegli studi. Tornò così a Roma e si impiegò presso una compagnia di Assicurazioni. Nella Capitale egli ebbe modo di fare importanti conoscenze, divenne amico prima di F. M. Martini, con il quale trascorse le più belle serate nei caffè ritrovo di artisti e di letterati, poi con C. Govoni, al quale dedicò anche dei versi. Visse alcun tempo spensieratamente, atteggiandosi a poeta maledetto, frequentando il caffè Aragno, facendo vita notturna, ricercando luoghi solitari e chiesette periferiche abbandonate. Fu molto amato dai suoi amici poeti e tutti lo hanno affettuosamente ricordato. Colpito dalla tubercolosi, per curarsi in un primo momento si trasferì a Nocera, poi si ricoverò presso il sanatorio di Nettuno. Vista però l’inefficacia delle terapie alle quali si sottoponeva, tornò a Roma dove morì nel 1907 all’età di soli ventun anni.
 
L’attività letteraria del poeta cominciò assai presto con la pubblicazione di isolate poesie sul Rugantino e sul Marforio, due giornali dialettali romani, poi su altri giornali, ma, si comprenderà, si svolse in un arco strettissimo di anni, e cioè dal 1903 alla morte. Pubblicò per proprio conto una prima raccolta di liriche intitolata "Dolcezze" nel 1904, poi una seconda dal titolo "L’amaro calice", ed infine nel 1905 una terza, "Le aureole", oggi tutte riunite nel volume dal titolo generico di "Liriche".

La formazione culturale di Corazzini, nonostante la giovane età, appare abbastanza vasta, egli lesse infatti ed assimilò non solo poeti italiani di un certo rilievo come Pascoli e D’Annunzio, ma anche stranieri quali Keats, Rodenbach, Samain ed altri.

Da Pascoli soprattutto derivò la tendenza a ripiegarsi sulle piccole cose, il porsi con pudore puerile di fronte alla realtà, mentre da D’Annunzio ereditò gli atteggiamenti del Poema Paradisiaco.

Ciò nonostante si può dire che Corazzini sia stato il più autentico di tutti i poeti crepuscolari, oltre ad essere stato colui che segnò la strada della nuova poetica ponendosi come caposcuola.
 
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la malattia e la morte costituiscono i temi più insistenti della sua poesia, spesso strettamente congiunti. La malattia, che candidamente dichiara quando scrive: "...io sono veramente malato / e muoio, un poco / ogni giorno...", che osserva crescere in lui e che lo fa sentire "come un albero sottile / cui cadono le foglie e che le vede / cader senza poterle richiamare", anche se queste ultime espressioni possono essere lette anche come metafora dei giorni che irrimediabilmente si consumano, trascorrono e passano, senza che il poeta riesca e riempirli, a viverli nella loro pienezza, per cui nasce una volontà vana di ricuperarli. La malattia poi detta certe immagini forti come questa: "Il mio cuore è una rossa / macchia di sangue dove / io bagno senza possa / la penna" e da essa nasce un desiderio di vita che poi diviene nostalgia per un’infanzia perduta: "Mamma, questa è la vita? Allor la santa / felicità infantile non perdura?". Ma alla malattia è soprattutto associata la morte, morte che cammina e che "ha fretta", che egli continuamente avverte incombere su di lui sia che dichiari: "Questa disperazione è l’avvisaglia / che Tànatos già batte nostre strade", sia che scriva "Io mi sento morire". Ed alla fine questa morte è ormai accettata e quasi desiderata: "Oggi io penso a morire...sono un fanciullo triste che ha voglia di morire" ( da Piccolo libro inutile).
 
Ovviamente il sentire imminente la morte porta il poeta a ripensare la sua breve vita, a fare un bilancio, e allora confessa: "Uomini, io venni al mondo per amare / e tutti ho amato! Ho pianto tutti i pianti / vostri e ho cantato tutti i vostri canti! / Io fui lo specchio immenso come il mare. // Ma l’amor onde il cuor morto si gela / fu vano e ignoto sempre, ignoto e vano! / come un’antenna fu il mio cuore umano, / antenna che non seppe mai la vela" (da L’amaro calice). Da una parte la sua partecipazione alla vita di tutti gli altri uomini, dall’altra il suo desiderio non soddisfatto d’amore, esperienza quest’ultima che accomuna il nostro poeta a Leopardi, a lui simile anche per la presenza di una malattia.
 
Non mancano poi nei suoi versi elementi di poetica e la rappresentazione di sé come artista: "Perché tu mi dici: poeta? / io non sono un poeta. / io non sono che un piccolo fanciullo che piange", "un dolce e pensoso fanciullo"; espressioni queste che necessariamente richiamano alla memoria il fanciullino pascoliano, ma che in realtà poco hanno in comune con esso. Per comprendere questa dichiarata condizione fanciullesca giova allora ricordare un altro luogo della poesia di Corazzini, in cui leggiamo: "Questa notte ho dormito con le mani in croce. / Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo / dimenticato da tutti gli umani, / povera tenera preda del primo venuto...". Il nostro poeta dunque non si fa fanciullo "per poter vedere" ciò che gli occhi di un adulto non vedono, per percepire ciò che è al di là della parvenza delle cose, come avveniva in Pascoli, ma si sente e sogna di essere fanciullo perché si sente in balia di una forza superiore, una volontà non sua, dipendente da altri che di lui possono fare ciò che vogliono, e questi altri si identificano nel suo destino.
 
Ora quasi tutti questi temi li ritroveremo per altro sparsi nelle poesie degli altri poeti crepuscolari, tutti tranne uno, quello della fede. Occorre sottolineare infatti che Corazzini fu credente e che nonostante il crudelissimo destino che gli toccò, non perse la fede, anzi questa divenne in lui ancora più forte. Così ci è dato di leggere qua e là esplicite dichiarazioni di fede, come quando scrive: "Ho avuto sempre fede / in questo Dio che mi fa spasimare!".
 
Thread interessante, come molti altri tuoi; se mi concedi la critica, manca però spesso un riferimento all'epoca storica in cui si colloca il movimento, e manca un quadro d'insieme storico-sociale. :)

se non ricordo male, i crepuscolari non furono un vero e proprio movimento culturale, fu rappresentato da pochi autori isolati.

di già che ci sei...
:p :p

:D
 
accidenti,mi costringi ad andare a comprare altra colla.
 
Il termine «crepuscolare» fu usato per la prima volta il 10 settembre 1910, quando Giuseppe Antonio Borgese pubblicò sul quotidiano "La Stampa" un articolo, intitolato Poesia crepuscolare, nel quale recensiva tre raccolte poetiche uscite in quell’anno: le Poesie scritte col lapis di Marino Moretti, le Poesie provinciali di Fausto Maria Martini e Sogno e ironia di Carlo Chiaves. L’aggettivo "crepuscolare" alludeva ad una presunta insufficienza della loro poesia, che chiudeva in tono sbiadito la grande stagione della tradizione ottocentesca, quella dannunziana e pascoliana. Borgese scrive:

"Poiché son giunti al levar delle mense, devono contentarsi delle briciole. Che c’è da far dopo le «Odi barbare» di Carducci, dopo l’«Otre», dopo «La morte del cervo», dopo quella dozzina di liriche dannunziane, nelle quali la nostra lingua mostrò veramente tutto il suo potere? Dovranno passare molti anni prima che quell’eco si spenga o dovrà sorgere un altro temperamento di quella forza."
 
Oggi definiamo «crepuscolare», senza alcuna intenzione negativa, un modo particolare di sentire la vita e di scrivere poesia. La definizione di Borgese ebbe fortuna, ma non fu mai accettata dai poeti a cui si riferì, poiché essi non costituirono mai un gruppo o una corrente, rimanendo ciascuno isolato nella propria individualità. Il termine «crepuscolare» servì piuttosto a indicare uno stato d'animo di ripiegamento e di abbandono ed una lirica dai toni languidi e malinconici che registrava fatti e volti della realtà quotidiana, anche la più comune e banale. Alle antiche gerarchie di valori, ormai venute meno, i poeti «crepuscolari» sostituiscono una visione malinconica della vita, spesso autoironica, che tende a mettere in crisi ogni certezza. La poesia crepuscolare è piena di cose, avvenimenti, personaggi modesti, di «buone cose di pessimo gusto» come le definì Gozzano, «povere piccole cose» come le chiamò Corazzini (corsie di ospedali, monachelle, fiori finti, animali imbalsamati, amori adolescenziali).

L'assenza di un programma poetico unico spiega la diversità degli atteggiamenti dell'uno e dell'altro dei crepuscolari (Sergio Corazzini, Giudo Gozzano, Marino Moretti, Carlo Chiaves, Corrado Govoni, Aldo Palazzesci...) e il passaggio di alcuni di essi ad esperienze d'arte di altro tipo, per esempio al futurismo o all'ermetismo. Le loro composizioni sono accomunate da un tenue pessimismo, da una malinconia senza scosse e senza ribellioni, da una stanchezza di vivere che in alcuni, come Corazzini e Gozzano, è connessa con malattie fisiche
 
La poesia crepuscolare afferma che la vita non è un’opera da plasmare con il gesto eroico, è uno spazio ristretto, angusto, da superare con l’arte, da far rivivere attraverso la mediazione della letteratura, cui l’esistenza comunica le sue tonalità, voci basse, gesti quotidiani e sommesse ironie.

I crepuscolari negano alla poesia ogni ruolo sociale e civile, rifiutano il concetto di poeta vate, promotore del progresso della storia e considerano la tradizione e il Classicismo, cui si ispirarono in modi diversi Carducci, Pascoli e D’Annunzio, un’esperienza completamente conclusa.

I poeti sono accomunati da una malinconica inquietudine che nasce dalla totale sfiducia in ogni ideale religioso, politico e sociale.

Il silenzio dei crepuscolari se ha un significato non è quello di un rifiuto sdegnoso, ma piuttosto di un concreto appartarsi, fatto più di rinuncia e anche un po’ di pigra incomprensione, che di motivato giudizio morale e storico.
 
Il repertorio crepuscolare utilizzò, a livello spaziale, i viali solitari, i giardini incolti, le piazze vuote, i giardini polverosi, le cianfrusaglie delle soffitte, luoghi in cui si celebrava il rito della noia di domeniche sempre uguali e della prosaicità del quotidiano e dello squallore.
 
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