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Il caso Silvia Romano e il declino dell'Italia

Buonanotte cucciolini dormite bene che domani arriverà la fatina che vi porterà una sorpresina.....:o:o:o

Tra le pieghe della polemica sulla conversione dell’ostaggio si nasconde una realtà molto più amara. La Turchia dopo averci scippato la Somalia si prepara a mettere le mani anche sull’ex colonia libica. E a buttarci fuori dal Mediterraneo. Con il consenso di un governo assente e imbelle.

Lasciamo perdere la vesta islamista di Silvia Romano e le immagini di una liberazione che ha fatto discutere. Interroghiamoci invece sulle verità rimaste tra le pieghe della polemica. La principale riguarda il ruolo dell’Italia in Africa e nel Mediterraneo. L’ammissione del governo sul ruolo svolto dai servizi segreti turchi mette a nudo una sconfitta desolante.

Fino a venti anni fa la Somalia era casa nostra. E non solo perché era un’ex-colonia rimasta sotto amministrazione fiduciaria italiana fino al 1960, ma anche per i 1500 e passa miliardi di vecchie lire riversati in quel paese dalla Cooperazione italiana tra il 1981 al 1990. Molti di quei miliardi andarono dilapidati in opere inutili o confluirono sui conti personali del dittatore Siad Barre e della sua corte. Ma contribuirono a garantirci influenza e commesse importanti. In Somalia si parlava e si studiava l’italiano. E anche chi fuggiva dalla dittatura di Siad Barre riparava in Italia. Anche dopo la caduta di Siad Barre l’Italia restò un attore chiave.

Durante la missione Onu che tra al fine del 1992 e l’aprile 1994 tentò d’impedire la dissoluzione del paese l’Italia non esitò a scontrarsi con l’alleato americano imponendogli, grazie alla presenza sul terreno e alla capacità dei nostri servizi d’intelligence, scelte determinanti. Purtroppo con quella missione terminò la nostra presenza.

Dopo il 1994 non c’è stato un solo governo pronto a riprendere le redini dei rapporti con la Somalia. E così nonostante il Codice di Procedura Penale somalo resti scritto in italiano e molti anziani somali parlino la nostra lingua l’Italia si ritrova fuori dai giochi.

Nel 2011 mentre contribuivamo a far fuori un alleato chiamato Muhammar Gheddafi l’ “amico” Erdogan iniziò una paziente opera di penetrazione. Alla sua prima visita in Somalia seguì una serie di una serie d’investimenti condotti con spregiudicatezza e lungimiranza. Oggi uno dei due ospedali di Mogadiscio, costruiti e pagati dai turchi, porta il nome di Erdogan, il porto e l’aeroporto sono gestiti da compagnie di Ankara e il più grande campo d’addestramento dell’esercito di Mogadiscio è gestito dai generali del Sultano. E infatti la Turchia è la favorita nella gara per l’assegnazione di 15 lotti di prospezioni petrolifere lungo le coste somale. Ma c’è poco da recriminare. Pur partecipando alla riorganizzazione del governo di Mogadiscio e alla missione di addestramento dell’esercito somalo condotta dall’Unione Europea l’Italia non conta più niente.

L’ambasciata, riaperta nel 2014 dopo lunghe esitazioni, resta una rappresentanza simbolica incapace persino di emettere visti. In questo desolante scenario di ritirata politica, economica e culturale i nostri servizi sono stati inevitabilmente costretti a chiedere l’aiuto di turchi. La debacle somala rispecchia, purtroppo, quella in corso in Libia. La Turchia a cui abbiamo chiesto aiuto a Mogadiscio è la stessa che ci sta mettendo fuori dai giochi a Tripoli. E’ la stessa che nel Mediterraneo manda le sue fregate a bloccare le navi dell’Eni impegnate nelle prospezioni per la ricerca di gas intorno a Cipro.

“L’Italia - ha dichiarato recentemente il vice presidente libico Ahmaed Maitig - non sa cosa vuole dalla Libia”.

I primi a non saperlo sono, in verità, il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Nonostante la Libia resti uno scenario cruciale per i nostri interessi energetici, per il controllo dei flussi migratori e per gli assetti strategici nel Mediterraneo gli ultimi segnali di attenzione concreta a quel quadrante risalgono allo scorso gennaio. In quel caso a risvegliare dall’oblio Conte e Di Maio fu il patto sui confini marittimi del Mediterraneo siglato lo scorso novembre dalla Turchia e dal governo di Fayez al Serraj. Un accordo capace di compromettere le attività dell’Eni nel Mediterraneo e di trasformarci da potenza di riferimento in Libia a partner di second’ordine.

Ma più che un risveglio fu il rialzarsi di due pugili suonati. Convinti che l’azione politica si misurasse con le miglia percorse i due prepararono la Conferenza di Berlino peregrinando ai quattro angoli di Africa, Medio Oriente ed Europa. Peccato che il nodo della conferenza fosse nelle mani di Vladimir Putin e di Recep Tayyp Erdogan. Con l’emergenza Covid premier e ministro sono tornati al consueto letargo.

Nel frattempo Mosca, interessata ad un’intesa con Ankara e ad un accordo complessivo su Siria e Libia, ha ridimensionato l’appoggio ad un Haftar che ormai conta solo sull’appoggio degli Emirati Arabi. Invece d’inserirsi in questa nuova fase l’Italia è rimasta a guardare. Nel frattempo Sabratha e altre città costiere strappate ad Haftar sono tornate nelle mani dei trafficanti di uomini schierati con il governo di Serraj e dei turchi. Resta da capire se personaggi come “Zio” Ahmed Dabbashi, il capobanda protagonista a suo tempo di un accordo con i nostri servizi segreti per il controllo dei migranti e Abd al-Rahman al-Milad, l’ex capo della guardia costiera di Zawiya sotto sanzioni Onu, riprenderanno le consuete attività o cercheranno di tornare a fruire delle sovvenzioni girate dal nostro governo attraverso Tripoli.

Ma per capirlo ci vorrebbe un governo capace di fornire la rotta. La rotta sembra, invece, la stessa seguita in Somalia. Ovvero l’abbandono delle posizioni e il benvenuto al Sultano. A cui fra poco dovremo inginocchiarci se vorremo arginare le partenze dei migranti dalle coste di Tripoli e continuare a sfruttare il gas e il petrolio delle concessioni Eni in Libia.

Il caso Silvia Romano e il declino dell’Italia - Sputnik Italia
 
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CIA, islamisti e la distruzione della Somalia

l’Alleanza nazionale di sinistra somala di Aidid – generale che nelle righe precedenti era definito nazionalista. Suona un controsenso dato che la sinistra combatte e detesta il nazionalismo….o forse è semplice logica “democratica” all’occidentale?

Il SIIL in Iraq è solo l’ultima versione della vecchia strategia MI6/CIA/Mossad volta a prendere le risorse tramite il terrorismo islamista, screditando i musulmani nel mondo. Una delle operazioni meno pubblicizzate si ebbe quando i servizi segreti occidentali usarono gli islamisti per dividere la Somalia in tre nazioni diverse.

Il 10 settembre 1992 gli Stati Uniti inviarono duemila marines e quattro navi da guerra, guidate dall’USS Tarawa, al largo della Somalia, nel Golfo di Aden che separa Somalia e Arabia Saudita. La Somalia era sempre stata riconosciuta possedimento altamente strategico. Il suo presidente Siad Barre si era appoggiato ai sovietici e agli statunitensi in momenti diversi, anche permettendo agli Stati Uniti di dislocarvi una base per le forze di reazione rapida. Nel 1982 il generale Alexander Haig, che brevemente agì da presidente autoimposto quando Ronald Reagan fu ferito da John Hinckley, sottolineò l’importanza strategica della Somalia per gli Stati Uniti dicendo che il Paese “sarebbe di vitale importanza per il nostro accesso al Golfo Persico”. Gli Stati Uniti avevano ridotto gli aiuti alla Somalia nel 1989 e ridotto il personale dell’ambasciata da 450 a 30. Nel gennaio 1991 Barre fu rovesciato dal suo ministro della Difesa, generale Muhammad Farrah Aidid. L’ambasciata USA fu rasa al suolo, i somali espressero il loro sdegno per i decenni di sostegno degli Stati Uniti al brutale Barre.
Il generale Aidid era un nazionalista e i falchi statunitensi cercarono un pretesto per intervenire.

L’editorialista William Neikirk articolò il nuovo atteggiamento interventista che prevalse nei circoli di politica estera degli Stati Uniti dopo la guerra del Golfo, quando scrisse il 6 dicembre 1992, “I poliziotti del mondo… dovrebbero pattugliare l’ambito internazionale ogni giorno, svolgendo un lavoro preventivo nella comunità mondiale“. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ebbe un vertice nel gennaio 1992 nel corso del quale fu deciso che le operazioni di mantenimento della pace mondiali, del tutto congruenti con il concetto di Neikirk dei “poliziotti mondiali” e il Rapporto da Iron Mountain, dovrebbero essere attuate in tutto il mondo.

Oggi 40000 caschi blu di 61 Paesi operano in quattro continenti. Il presidente Clinton abbracciò di cuore l’idea dicendo: “Dobbiamo fare più che parlare di Nuovo Ordine Mondiale“.
In Somalia l’ONU lanciò l’operazione Restore Hope con le truppe di Pakistan, Zimbabwe, Egitto e Nigeria. I sauditi inviarono forze d’elite. Il Papa definì l’intervento un “dovere morale”. Molti Paesi del Terzo Mondo, affamati di denaro, entusiasti inviarono truppe, ben pagati per mantenere la pace. Ma altri Paesi videro nel mandato un Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite succube degli Stati Uniti e dei loro alleati europei. L’ambasciatore dell’Indonesia alle Nazioni Unite, Nugroho Wisnumurti, dichiarò: “Se si guarda al Consiglio, in realtà, si vedrà che solo uno o due prendono le decisioni”.

Con la scusa della crisi umanitaria, il Programma Alimentare Mondiale di Roma, che l’Iraq scoprì essere una copertura della CIA, noleggiò due aerei da trasporto C-130 della compagnia aerea della CIA Southern Air Transport e cominciò ad inviare cibo in Somalia. La CIA armò i fondamentalisti islamici decisi a distruggere l’Alleanza nazionale di sinistra somala di Aidid. Mentre i combattimenti s’intensificarono i 2000 Marines degli Stati Uniti, ufficialmente schierati per proteggere le truppe di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, sbarcarono. Il presidente Salim Salim dell’Organizzazione per l’Unità africana definì l’evento “nuovo tipo di colonialismo”. Gruppi di soccorso delle Nazioni Unite furono costretti a ritirare i propri lavoratori dalle regioni somale di Bardera e Baidoa, dove la carestia fu un pretesto per aggravare l’intervento. [1] C’era stata una grave siccità in Somalia, almeno in una parte, perché il Paese era un grande produttore di bestiame per l’esportazione in Arabia Saudita. Ciò provocò lo sfruttamento eccessivo dei pascoli, deforestazione e desertificazione. Gli Stati Uniti avevano spesso usato la Somalia per scaricarvi surplus con cui potrebbero aver alimentato il bestiame. Lo scellino somalo era sceso da 15,6 per dollaro nel 1983 a 38000 per dollaro nel 1991, per via di una serie di svalutazioni su mandato del FMI. Il FMI incoraggiò l’economia basata sull’esportazione del bestiame, mentre i piccoli agricoltori persero terreno e il Paese si desertificava. Il generale Aidid cercò di formare un governo, ma fu costretto a combattere gli estremisti islamici che la CIA aveva scatenato. Il giorno in cui i Marines degli Stati Uniti sbarcarono per sostenere gli estremisti, il presidente Bush dichiarò che la guerra “potrebbe essere estesa nel nord della Somalia“. Quello stesso giorno il membro del consiglio di Chevron Texaco ed ex-segretario di Stato George Schultz invocava gli attacchi aerei sulla Jugoslavia. Il signore della guerra estremista finanziato dalla CIA, Ali Mahdi Muhammad, occupò la parte settentrionale della capitale somala Mogadiscio. Inoltre guidò il tentativo riuscito del Movimento nazionale somalo di occupare la Somalia nordoccidentale e dichiarare l’indipendenza della Repubblica del Somaliland. Nel nord-est della Somalia, con gli strategici porti sul Golfo di Aden Berbera e Bosaso, la Compagnia sostenne il separatista Fronte di Salvezza Democratico somalo che aveva chiesto l’intervento straniero in Somalia. La Compagnia inoltre ebbe l’aiuto del generale Morgan, genero di Siad Barre. Più importante, il contatto della CIA in Somalia era il generale Muhammad Abshir, da lungo tempo agente della CIA ed ex-capo della polizia.
Alla fine le due fazioni del nord si separarono dalla Somalia e crearono due nuovi Paesi, Somaliland e Puntland, che si affacciano sul Golfo di Aden e sul Paese strategico di Gibuti, controllato dai francesi, alle porte del Canale di Suez. La zona era nota come Somalia britannica fino al 1960, quando si unì alla Somalia meridionale italiana divenendo la Somalia. La storia fu abrogata, un cambio di regime neo-coloniale furtivo si svolse e il Somaliland ebbe rapidamente propri esercito, valuta e bandiera.
Per tutto il tempo l’amministrazione Clinton cercò d’inquadrare il conflitto in Somalia come lotta etnica tra diversi clan, una caratterizzazione fortemente fuorviante che venne usato per giustificare le avventure in Ruanda e in Jugoslavia. Gli Stati Uniti promisero di ritirarsi dalla Somalia entro il 20 gennaio 1993. Tale data passò mentre il contingente statunitense aumentava fino a una forza di 10000 uomini, tra cui 8000 soldati della 10.ma Divisione di Montagna. A febbraio la CIA aiutò i superstiti militari di Siad Barre a prendere il porto meridionale di Kismayu.

Africa Rights affermò che le truppe belghe preposte all’operazione torturarono numerose persone. Accuse simili furono mosse alle truppe canadesi. L’Italia abbandonò l’operazione Restore Hope per disgusto. Il 12 giugno 1993 le truppe pakistane spararono sulla folla uccidendo ventitré somali inermi. Lo stesso giorno un elicottero attaccò l’edificio che si presumeva ospitasse il generale Aidid uccidendo 54 persone. Il 17 giugno, le truppe delle Nazioni Unite attaccarono l’ospedale Digfer nella capitale, uccidendo nove persone. Il 18 giugno, stanchi delle proteste quotidiane dei somali presso la sede delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti bombardarono Mogadiscio uccidendo più di 100 persone. Il compound UNOSOM era una mostruosità di 81 acri costato 2 miliardi di dollari. Mentre i somali vivevano nello squallore, il personale delle Nazioni Unite aveva docce calde, pizza e TV satellitare. La missione in Somalia fu chiamata operazione per ripristinare la normalità, ma l’ordine era tutt’altro che restaurato.
Il supporto somalo al generale Aidid crebbe, i media statunitensi fecero del loro meglio per demonizzarlo, anche se non sapevano assolutamente nulla di lui. L’ammiraglio statunitense Jonathan Howe spiegò con condiscendenza che l’obiettivo in Somalia era “mettere le persone al lavoro”. Howe mise una taglia di 25 milioni su Aidid. Aidid rispose offrendo 1 milione di dollari per il cranio di Howe.
Il 9 settembre 1993, elicotteri d’attacco statunitensi aprirono il fuoco su una manifestazione anti-USA uccidendo 125 persone.

Tra 5000 e 6000 somali morirono durante l’intervento degli Stati Uniti. I somali erano indignati e non c’era da meravigliarsi quando un missile spalleggiale sparato da uno dei miliziani di Aidid abbatté un elicottero statunitense Blackhawk che cercava di salvare i membri di un’unità d’élite della Delta Force statunitense, intrappolati in un edificio a Mogadiscio mentre ricercavano Aidid; folle di somali si riunirono per trascinare i corpi di alcuni dei diciotto statunitensi morti per le strade di Mogadiscio. Il membro della Delta Force Michael Durant fu catturato dalle forze di Aidid durante l’operazione, che vide altri elicotteri d’attacco degli Stati Uniti far esplodere le case dei somali che vivevano nella zona. Il giorno in cui Durant fu rilasciato il presidente Clinton ritirò le forze USA dalla Somalia.
Le operazioni delle Nazioni Unite in Somalia sotto il controllo dell’ammiraglio Howe furono originariamente guidate dagli uffici a Mogadiscio della Conoco. Le esplorazione della Hunt Oil nel 1980 rilevarono che l’enorme fenditura petrolifera tra Arabia Saudita e Yemen si estende sul Golfo di Aden fino al nord della Somalia, una zona ora comodamente divisa e conosciuta come Somaliland e del Puntland. Poco prima della sua caduta, il corrotto presidente Siad Barre aveva siglato un accordo per la suddivisione di quasi due terzi della Somalia tra quattro compagnie petrolifere degli Stati Uniti: Conoco, BP Amoco, Chevron Texaco e Phillips Petroleum. La Conoco successivamente acquistò la Phillips. Un ingegnere petrolifero della Banca Mondiale disse delle prospezioni petrolifere del Somaliland, “Non c’è dubbio che c’è il petrolio lì“. [4] Secondo Yossef Bodansky, direttore della Task Force del congresso sul terrorismo degli Stati Uniti, i ribelli ceceni furono organizzati in una riunione del 1996 a Mogadiscio, in Somalia, a cui parteciparono funzionari dell’ISI pakistano, Usama bin Ladin e signori della guerra fondamentalisti somali della CIA. Lo stesso anno, il generale Muhammad Farrah Aidid perse alla roulette russa con l’ammiraglio Howe.

Il 1 agosto 1996 Aidid fu ucciso dalla stessa setta di assassini islamisti della CIA che ora si organizza per attaccare la Russia. Lo stesso giorno il colonnello dell’esercito degli Stati Uniti William Garrison, che aveva comandato lo sfortunato raid dell’US Delta Force su Mogadiscio, annunciava il proprio pensionamento.

CIA, islamisti e la distruzione della Somalia | Generale Russo Venaus
 
oh Madonnina cara proteggisi da questi squilibrati materialisti giudaisti-massonici- occidentali privati di morale ma succubi del dio denaro.

ci vorrebbero tracciare come animali domestici con il pedigree.....ma che Zeus li fulmini!!!

Ci vorrebbero utilizzare come bancomat umano dove accreditare e sborsare i soldi in via digitale.

e, Se facciamo un salto all'indietro, e per chi come me ha fatto il ministrante, si ricorderà, se ha studiato, il tratto dell'Apocalisse 13:16-17 : Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome.

caro Osterlund, se tu sapessi quante volte ho perso le chiavi ti spaventeresti ma, mai e poi mai, mi è venuta un'idea imb.ecill.e di farmi impiantare un microchip nella mia cute...

Fonte accreditata almeno da un punto di mainstream, in quanto euronews è network finanziato direttamente alla commissione europea Euronews - Wikipedia

I microchip sottocutanei saranno la prossima grande rivoluzione tecnologica in Europa?

Migliaia di svedesi e tedeschi si sono fatti impiantare microchip futuristici sotto la pelle della mano. Una tecnologia utilizzata per adesso per attività quotidiane come l'accesso allo smartphone, l'apertura della porta d'ingresso di casa o l'attivazione di un allarme.

L'azienda che produce i microchip, grandi come un chicco di riso e impiantati tramite una siringa, sta ora lavorando per diffondere la tecnologia in altre parti d'Europa.

Eric Larsen, che guida Biohax Italia, è in attesa dell'approvazione delle autorità sanitarie e del Ministero della Salute. Prevede di poter impiantare i chip sottocutanei in circa 2.500 soggetti a Milano e Roma nei primi sei-otto mesi.

Anche senza la certificazione del Ministero della Salute, Biohax Italia è già riuscita a inserire questi chip in alcune centinaia di persone con l'aiuto di un centro medico.

"È un passo verso il futuro. È una cosa estremamente futuristica ed è già realtà. Questa tecnologia è nata per aiutarci, per darci piccoli 'superpoteri'", le parole di Larsen a Euronews.

Ma la pandemia di Covid-19 potrebbe creare qualche apprensione in più tra la popolazione, agggiunge Larsen. L'opinione pubblica ha infatti mostrato preoccupazioni per le app che servono alla ricerca di contatti introdotte o allo studio dei governi.

"Stiamo notando che molte persone in Italia non sono contente della funzionalità GPS o di altre opzioni che possano tracciare i nostri movimenti. E questo potrebbe essere per noi dannoso, nonostante non tracciamo i movimenti e non abbiamo GPS all'interno. Penso che molte persone però non ne siano consapevoli".

oh Madonna, forse perché non siamo animali privi di ragione logica e morale verso la nostra libertà? o forse perché non siamo piddini inculcati dalle fake news propagandate dai mainstream massonici-giudaisti-occidentali ?

Eliminare il portafogli

Il progettista svedese di soluzioni IT, Martin Lewin, utilizza i due microchip impiantanti sotto la pelle della mano per accedere al computer, impostare l'allarme dell'ufficio e aprire il suo profilo LinkedIn.

Secondo lui, l'utilizzo di questi microchip come alternativa ai pagamenti in contanti o con carta di credito dovrebbe essere il vero punto di svolta della tecnologia.

"Si tratta semplicemente di eliminare il bisogno di portarsi dietro il portafogli, il portachiavi, tutti questi elementi scollegati che creano solo rischi: se li perdiamo, perdiamo la nostra identità", dice l'ex body piercer Jowan Österlund della start-up Biohax International.
"Se perdiamo le chiavi, non entriamo in casa. In alcuni Paesi, se le trova qualcun altro, può praticamente rivendicare la tua abitazione".

In Svezia, i microchip possono essere utilizzati come biglietto del treno. Lewin spera che presto sarà in grado di poterci effettuare anche dei pagamenti.

"Spero diventi una funzione di base", afferma. "Non vedo l'ora di creare un ecosistema in cui il chip sia in grado di fornire tutti i tipi di accesso. Dove è possibile portare con noi la nostra identità in maniera semplice".

Ma la tecnologia non è decollata così rapidamente come si aspettavano i progettisti. Poverelli, attenzione che non gli cada il castello di carta addosso :D:D


"Ci è voluto più tempo di quanto pensassi e sperassi. Mi hanno impiantato il chip tre anni fa, e sembra che ci vorrà un altro anno prima che possa funzionare per effettuare acquisti".

Larsen indica che in Italia Biohax sta parlando con Vodafone e Paypal per tentare di sbloccare questa funzionalità. Anche un'azienda del Regno Unito, BioTeq, sta lavorando per creare pagamenti contactless tramite i microchip impiantati.

Steven Northam, direttore dell'azienda britannica BioTeq, indica che questo sarà il "punto di svolta per l'adozione 'di massa'", dato che l'azienda riceve quotidianamente richieste di informazioni sugli "impianti di pagamento".

Non tutto però va sempre come sperato. L'operatore ferroviario svedese SJ rende noto di essere sul punto di terminare la sperimentazione dei microchip dopo un "piccolo aumento" negli ultimi due anni. Il numero totale di utenti è ora di 3mila persone. Un portavoce dell'azienda di trasporti dice a Euronews che, pur mantenendo la tecnologia disponibile, si muoveranno ora in "un'altra direzione".Ci sarà dato di saperlo ? :rolleyes:

La gente è apprensiva

I microchip utilizzano le comunicazioni near field (NFC) e l'identificazione a radiofrequenza (RFID) per comunicare con un sistema. Sono onde radio lette a stretto contatto.

"È essenzialmente la stessa tecnologia che si trova nel telefono o nella carta di debito quando li si tiene vicino a un sensore", spiega il dottor Rob van Eijk, direttore generale per l'Europa del Future of Privacy Forum.

Pone gli stessi noti problemi di protezione dei dati, compresa la possibilità che qualcuno possa captare il segnale.
"È simile all'ascolto di un microfono direzionale, si può captare anche il segnale RFID", ha spiegato Eijk, che ha lavorato per l'autorità olandese per la protezione dei dati.

In teoria, potrebbe essere "usato per far risaltare un individuo in mezzo ad una folla, se sei l'unico a indossare un biochip e tutti gli altri non lo indossano", ha aggiunto.

Si porrebbero ulteriori complicazioni a livello di privacy se le versioni future di questi chip dovessero accedere a dati sanitari o altre informazioni, ha sottolineato Eijk.

"Le uniche informazioni che si hanno sugli impianti vengono dalla cultura pop hollywoodiana - tra congegni in dotazione ad Arnold Schwarzenegger, polonio del KGB o dispositivi di tracciamento di massa. La gente quindi è apprensiva",ritiene Österlund.

Ma molti dei suoi clienti useranno gli impianti sottocutanei semplicemente per lanciare i propri account LinkedIn così da condividere più rapidamente il proprio profilo per esempio dopo una riunione di lavoro. La spesa è di circa 150 euro.
Österlund aggiunge che al momento stanno lavorando con dei partner per far sì che questi microchip possano contenere informazioni sulla salute. Nel caso in cui qualcuno venisse portato in ospedale privo di sensi, un paramedico potrebbe scansionare il microchip e ottenere informazioni su allergie o condizioni preesistenti.Ma allora lo fanno per la nostra salute...che bravi meritano un:clap::clap::clap:

Per ora, il lavoro in corso verte sui materiali utilizzati e i livelli di protezione dei dati.

"Stiamo spingendo per creare un quadro normativo intorno a questa tecnologia, perché in questo momento lavoriamo in una zona grigia legale che va sì bene per lo sviluppo, ma poi entra nel corpo delle persone e ci rimane, quindi dobbiamo assumerci questa responsabilità", indica Österlund.

L'imprenditore stima che questa tecnologia esista già in almeno 20 paesi. BioTeq nel Regno Unito ha impiantato finora circa 250 microchip ad altrettanti soggetti.

Gli impianti non sono "regolamentati come dispositivi medici e quindi possono essere impiantati da chiunque", indica Northam della BioTeq. L'azienda fa comunque ricorso a personale medico per l'impianto.

"Personalmente non vedo alcuno svantaggio. Quando mai ? :D:oSo che ci sono persone che sono preoccupate che possano essere tracciate, ma è una tecnologia passiva, quindi non c'è niente di cui non si possa avere il controllo", ritiene Lewin.

"E' necessario usarlo da molto vicino, in modo che le informazioni possano essere lette dal chip. Alcuni credono che farsi l'impianto sia doloroso, ma equivale praticamente alla puntura di un'ape".

"La popolarità di questi chip si ridurrà alla domanda: quali problemi ci aiuteranno a risolvere", dice Eijk del Future of Privacy Forum. "Guardate quanto velocemente siamo passati dal denaro contante ai pagamenti senza contatto - è successo nel corso di un certo numero di anni".

Si tratta ora di capire se un telefono possa diventare così piccolo da poter essere inserito sotto pelle. "Ma questo è il livello successivo. Non è il tipo di tecnologia biochip di cui stiamo parlando ora", conclude Eijk.

I microchip sottocutanei saranno la prossima grande rivoluzione tecnologica in Europa? | Euronews
 
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Stiamo vivendo in un mondo in continua mutazione sia esterna ( intorno a noi ) sia interna ( nella nostra anima e nel nostro spirito ) ma, riusciamo a comprendere solo la parte esterna in quanto più facile per i nostri cinque sensi cercarla e trovarla.

Molti di noi, oggigiorno, non riescono a sentire la propria distruzione interiore (anima e spirito) causata dalle circostanze esterne.

Siamo totalmente sotto agonia, stress, paura, infelicità e presi dal materialismo che non riusciamo a fermarci e meditare come uno shaolin. Siamo diventati talmente distaccati da noi stessi che, non riusciamo neanche più a sentire il bisogno che hanno le nostre due fonti di energia che ci aiutano a liberarci dal maligno esteriore. Questa mancanza ci viene come conseguenza della mancata fede.

Ma parlando del nostro stato interiore abbiamo l'anima e lo spirito, il primo collegato ai nostri sensi terreni quindi di ciò che ci circonda; mentre il secondo è più vicino a Dio grazie a quale abbiamo la Fede, la Speranza e la Grazia dataci da Nostro Signore.
I nostri sensi, che sono contenuti nella nostra anima, sono in sintonia con la terra.
Ecco perché i nostri sentimenti si spostano e cambiano a seconda di ciò che accade intorno a noi. Tutto ciò che è della terra è instabile e mutevole, per questo una persona che permette all’anima di controllare la propria vita non è mai nel riposo. Attraverso l’anima sono in contatto con le persone. Qualcuno che vive secondo l’anima è sempre in agitazione rispetto a ciò che gli altri pensano e dicono di lui. In questo contesto, sentimentalmente vivo, con i miei sensi che sono terreni il mio spirito è terreno e il mio corpo è usato per servire questo mondo terreno o satanico dove gli spiriti ci possono arrivare solo attraverso la decadenza interiore. Come Lucifero, letteralmente tradotto "portatore di Luce", cadette per aver cospirato contro Dio.

La conversine interiore, aiutata dalla meditazione, ha l'obiettivo di cambiare questo rapporto che diventi spirituale e celeste (mondo celeste o mondo di Dio) che sentimentale e terreno (mondo terreno). Il risultato sarà una vita di Luce e Grazia che una vita di comprensione umana. La luce vince sulle tenebre. E la nostra anima finalmente avrà la quiete che si merita
 
La mia anima piange.

Perché piangi anima mia?

Racconta

un distacco

un’antica ferita

nuove ferite

la fredda oscurità che tiene legati.

Come consolarti anima mia?

Rimani in silenzio

Ascolta



Mi conduce al silenzio, di tutto.

Luce d’amore.

I nodi dissolti.

Conosco chi sono

e la parola fluisce

e canto la gioia

danzo la pace.



Il pianto dell’anima è un dolore indicibile, senza fine, che diventa più forte e accorato se non viene ascoltato, come il pianto di un bambino.

Non solo la mia anima piange. L’umanità intera piange accorata lacrime asciutte, senza parole, e non trova consol-azione ma solo rumore, evasione, disper-azione.

La sofferenza si manifesta nel corpo e nella mente, ma è l’anima che piange e chiede risposta ai suoi bisogni. La sofferenza, dice Jung, è un richiamo dell’anima.

Ma………. chi ascolta oggi il pianto dell’anima? Chi ne comprende i bisogni? chi la consola? Chi l’aiuta a realizzare la sua insostituibile missione?

L’anima si nutre di silenzio, luce, verità, amorosa intimità, e piange disperata-mente perché muore di fame. Restare sordi al pianto dell’anima conduce alla morte e una cultura di morte oggi regna sovrana.

Gli atti di ‘ordinaria follia’ che la cronaca ogni giorno registra sono il grido disperato dell’anima che muore di fame. L’aumento di questi atti ci fa comprendere che lo stato di alien-azione in cui viviamo non è più compatibile con il grado di sviluppo richiesto all’anima umana. Vivere in maniera scissa, paranoide, inconsapevole di sé, provoca ora un dolore intollerabile, rende folli, e le personalità più fragili ‘agiscono’ una follia che in realtà appartiene a tutti.

Riconoscere l’ombra, l’abisso di male che ci abita dentro, ritirare le proiezioni che ne abbiamo fatto sugli altri, integrare le parti scisse, è un processo terribilmente doloroso che si esprime in sintomi depressivi. La depressione, male oscuro della nostra epoca, esprime un livello di maggiore integrazione e consapevolezza di sé: è il momento in cui, cadute le illusioni e le maschere, si incontra la verità di se stessi.

Questo passaggio da una fase che potremmo chiamare schizoparanoide ad una fase depressiva è quello richiesto oggi all’umanità, sia a livello personale che a livello collettivo: passaggio da uno stato di dis-integrazione e scissione ad uno stato di integrazione e unità. La grande depressione economica che stiamo vivendo rappresenta un momento di dolorosa consapevolezza delle false costruzioni della finanza. Tutte le impalcature fondate sul nulla stanno rovinosamente crollando fuori e dentro di noi.

Tuttavia il tunnel buio della depressione non è fine a se stesso, ma può diventare, se ci lasciamo portare, una via di luce che ci riporta a ‘casa’, al luogo di amore e di pace dove finalmente conosciamo chi siamo. La depressione, come fase di rientro in sé, corrisponde al bisogno di verità dell’anima umana. L’esperienza di essere amati nella verità di ciò che si è restituisce all’anima la sua originaria integrità e la gioia e la pace.

Resistere a questo processo evolutivo, cercare di sopprimere il sintomo depressivo senza ascoltare il pianto dell’anima, i suoi bisogni di luce, amore, verità, aggrava il mal-essere dell’anima umana e il pianto si fa più accorato.

L’umanità non è lasciata sola in questo difficile passaggio.

“Dopo questo,

io effonderò il mio spirito

sopra ogni uomo

e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie;

i vostri anziani faranno sogni,

i vostri giovani avranno visioni.

Anche sopra gli schiavi e sulle schiave,

in quei giorni,

effonderò il mio spirito.” (Gioele 3,1-3)

Questo è il tempo! Una enorme corrente di energia creativa preme per esprimersi e chiede di essere riconosciuta, accolta, incanalata.

Se ignorata, soffocata, sviata, provoca all’anima una sofferenza indicibile e genera contro-figuazioni sataniche terribilmente distruttive perché le energie che devono esplodere e creare nuova vita implodono seminando distruzione e morte.

Occorrono oggi guide esperte che abbiano attraversato la ‘grande depressione’ e ascoltato il pianto dell’anima; guide che facciano da levatrici, che accolgano le energie del nascente e ne incoraggino lo sviluppo perché la ‘parola’ che è venuto a portare fiorisca pienamente e produca i suoi frutti.

Occorrono cliniche dell’anima dotate di sala parto e di reparti di cura, ed anche di Pronto Soccorso per gli interventi di urgenza.

Quando l’anima piange
 

La sindrome di Kawasaki provoca un’infiammazione nelle pareti dei vasi sanguigni di tutto l’organismo. La causa è ignota, ma i dati suggeriscono che sia un virus o un altro organismo infettivo a innescare una risposta anomala del sistema immunitario nei bambini geneticamente predisposti. I problemi più gravi derivano dall’infiammazione dei vasi del cuore. Inoltre, l’infiammazione può diffondersi in altre parti del corpo, ad esempio raggiungendo pancreas e reni.

La maggior parte dei bambini con sindrome di Kawasaki ha tra 1 e 8 anni, sebbene anche neonati e adolescenti possano esserne colpiti. I bambini maschi sono colpiti una volta e mezza in più rispetto alle bambine. La malattia è più comune nei bambini di origine giapponese. Ogni anno, negli Stati Uniti, si verificano diverse migliaia di casi di sindrome di Kawasaki. La sindrome di Kawasaki si sviluppa tutto l’anno, ma più spesso in primavera o d’inverno.

Sindrome di Kawasaki - Problemi di salute dei bambini - Manuale MSD, versione per i pazienti
 
A Bergamo, nei bambini, osservata la frequente compresenza tra la malattia di Kawasaki e il Covid-19, che rimane comunque una condizione rara tra i bambini

Diciannove casi in cinque anni (febbraio 2015-febbraio 2020). E oltre la metà in appena due mesi (18 febbraio-20 aprile). In concomitanza con la pandemia di Covid-19, le diagnosi di malattia di Kawasaki (condizione di natura infiammatoria che colpisce i vasi sanguigni) sono aumentate di trenta volte. A esserne colpiti sono stati bambini contagiati da Sars-CoV-2, il coronavirus che finora in Italia ha colpito (almeno) 223mila persone, provocando oltre 31mila decessi. Un incremento che - alla luce dell'entità - non sembra essere casuale agli specialisti dell'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Sono stati loro i primi a riflettere sulla concomitanza delle due malattie. «Nei bambini il decorso del Covid è generalmente meno grave, ma è bene sapere che alcuni di loro possono sviluppare in concomitanza la malattia di Kawasaki», afferma Lorenzo D'Antiga, direttore dell'unità operativa di pediatria e coordinatore del primo studio che descrive l'incremento delle vasculiti tra i piccoli pazienti contagiati dal coronavirus.

COSA E' ACCADUTO A BERGAMO?

Nell'articolo, pubblicato sulla rivista The Lancet, i medici bergamaschi hanno ricostruito quanto osservato nel capoluogo con il più alto tasso di contagi (da Sars-CoV-2) e di decessi (per Covid-19) in Italia. Tra febbraio e aprile, i camici bianchi hanno riscontrato un incremento degli accessi al pronto soccorso di bambini affetti dalla malattia di Kawasaki. «In un solo mese, il numero dei casi ha eguagliato quelli visti nei tre anni precedenti - dichiara Lucio Verdoni, reumatologo pediatra del Papa Giovanni XXIII -. Parliamo, mediamente, di un accesso ogni tre giorni. A quel punto, visto il diffondersi dei contagi nella nostra provincia, abbiamo sottoposto questi bambini a test sierologici per verificare la presenza di anticorpi IgG e IgM. Su dieci pazienti, soltanto in due casi l'esame ha dato esito negativo». Un risultato che potrebbe aver peccato in accuratezza, dal momento che «alla fine tutti i bambini sono risultati contagiati dal coronavirus». Da qui l'ipotesi che la malattia di Kawasaki possa essere legata al Covid-19. Causa o effetto? Una risposta non c'è ancora. In tutti i casi, considerando che il Covid ha un decorso generalmente meno grave tra i più piccoli, il percorso è stato reso più complicato dalla compresenza delle due condizioni. Ma il fine è stato sempre lieto. Al momento, tutti i bambini in questione sono infatti clinicamente guariti.

MALATTIA DI KAWASAKI: DI COSA SI TRATTA?

La malattia di Kawasaki è una vasculite che colpisce (soprattutto) i vasi sanguigni di medio calibro dei bambini e si manifesta con sintomi tipici: la febbre elevata e persistente, un’eruzione cutanea, delle irritazioni delle mucose (soprattutto della bocca e degli occhi) e delle estremità (mani e piedi). La complicanza più temibile è l’infiammazione delle arterie del cuore, che può causare delle dilatazioni permanenti (aneurismi) delle coronarie. Le sue cause - la condizione è nota dalla metà del secolo scorso, quando il pediatra giapponese Tomisaku Kawasaki riportò per la prima volta cinquanta casi sull'Isola: dove si sono verificate tre epidemie (1979, 1982 e 1986) - sono al momento sconosciute. Una delle ipotesi è che a provocarla sia una reazione immunitaria eccessiva a un'infezione. «Si tratta di una malattia comunque rara: colpisce in media 14 bambini ogni centomila - aggiunge D'Antiga -. La loro età media è 3 anni, ma in queste settimane abbiamo visto accedere in ospedale pazienti più grandi, anche di 7-8 anni».

COVID-19 NEI BAMBINI

Della possibile correlazione tra l’infezione e la malattia di Kawasaki, i medici parlavano già da settimane. Situazioni analoghe a quella di Bergamo, da febbraio a oggi, si sono registrate anche in diversi ospedali della Liguria e del Piemonte e in altri Paesi: dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna. Il tempo è servito a consolidare la casistica e a mettere i dati nero su bianco. «I genitori devono però rimanere tranquilli - chiosa D'Antiga, che a marzo era già intervenuto per rassicurare le mamme e i papà dei bambini immunodepressi -. Anche se assieme alla malattia di Kawasaki, il Covid si manifesta con i sintomi più frequenti: febbre, tosse e astenia. Sono questi i campanelli d'allarme da monitorare. Siamo noi medici invece a dover essere consapevoli della possibile concomitanza delle due condizioni, per trattarle nel modo più appropriato. Stiamo imparando che questo virus può causare anche altre malattie, attivando il sistema immunitario dell’ospite e inducendo una risposta infiammatoria che può interessare qualsiasi organo. Anche a distanza di tempo dall’infezione».

Malattia di Kawasaki: quale relazione col covid-19? | Fondazione Umberto Veronesi
 
Muore un bimbo e l'Oms lancia l'allarme: attenzione alla sindrome di Kawasaki

Il coronavirus spaventa sempre di più i pediatria. Perché nei bambini può scatenare sintomi molto forti. L’Oms ha chiesto agli operatori sanitari di stare «in allerta» per le malattie infantili che potrebbero essere legate al Covid-19. Il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus, durante il consueto briefing con i media a Ginevra, ha chiesto a tutti i medici di tutto il mondo di stare «in allerta» per la sindrome infiammatoria multisistemica che si manifesta nei bambini e che potrebbe essere correlata al Covid. «Nelle ultime tre settimane, rapporti dall’Europa e dal Nord America hanno mostrato un piccolo numero di bambini ricoverati in terapia intensiva con una condizione infiammatoria multisistemica, con alcune caratteristiche simili alla malattia di Kawasaki e alla sindrome da shock tossico», ha spiegato Tedros.


In Italia si parla al momento di «una settantina di casi» di bambini che hanno mostrato sintomi simili a quelli della malattia di Kawasaki in associazione a Covid-19. Di questi «circa 20 sono i casi osservati a Bergamo e una cinquantina quelli finora segnalati nel resto d’Italia». A fare il punto con l’Adnkronos Salute è Angelo Mazza, della Pediatria dell’ospedale Papa Giovanni XXIII del capoluogo orobico, che con il reumatologo pediatra Lucio Verdoni e colleghi è fra gli specialisti che per primi hanno evidenziato il fenomeno. Proprio oggi in Francia è morto un bambino di 9 anni che presentava questi sintomi, con grave miocardite, ed era risultato positivo ai test sierologici per Sars-CoV-2.

In particolare, in uno studio pubblicato su The Lancet gli specialisti bergamaschi riferivano un «aumento di 30 volte» dei casi. Se nella zona di Bergamo la sindrome era stata diagnosticata a soli 19 bambini nei 5 anni precedenti e fino a metà febbraio 2020, tra il 18 febbraio e il 20 aprile, quindi in 2 mesi, ci sono stati ben 10 casi. Questi erano i dati riportati nello studio, ma nei giorni successivi «altri bambini sono arrivati con sintomatologia simile», spiega Mazza, «e il numero è salito ancora raggiungendo quota 20».

Fin dall’inizio Verdoni si è interfacciato con il gruppo di studio di reumatologia della Società italiana di pediatria (Sip) ed è «anche partito un alert ai colleghi» sulla possibile insorgenza di una malattia di Kawasaki in bambini affetti da Covid-19, con l’intento anche di promuovere una raccolta dati di questi casi, caratterizzarne le manifestazioni cliniche, le terapie e l’evoluzione, e indagare il possibile ruolo causale del virus Sars-Cov-2. «È stato pianificato un registro anche per seguire il follow up di questi piccoli pazienti - dice Mazza - Le schede sono state già distribuite». I dati centralizzati ufficiali «non sono ancora disponibili, ma il lavoro è giù cominciato», assicura l’esperto.

È morto in Francia, a Marsiglia, un bambino di 9 anni che aveva manifestato i sintomi della sindrome di Kawasaki, e che era risultato positivo al Covid-19. I medici stanno accertando se esiste una correllazione tra le due malattie. Lo riporta BfmTv. È stata la prima morte in Francia dall’inizio della pandemia a presentare questo quadro clinico. Nella città di Marsiglia, dove, in tempi normali, si registrano solo tre casi all’anno, cinque bambini sono stati ricoverati nell’ospedale di Timone sin dall’inizio della pandemia di coronavirus per la sindrome di Kawasaki che causa l’infiammazione delle pareti dei vasi sanguigni. A livello nazionale, questa cifra è salita a 125 casi dal 1 marzo: il 52% aveva il Covid-19.

Il bambino di 9 anni che aveva manifestato i sintomi della sindrome di Kawasaki, e che era risultato positivo al Covid-19, è morto a Marsiglia. I medici stanno accertando se esiste una correllazione tra le due malattie. Lo riporta BfmTv. È stata la prima morte in Francia dall’inizio della pandemia a presentare questo quadro clinico. Nella città di Marsiglia, dove, in tempi normali, si registrano solo tre casi all’anno, cinque bambini sono stati ricoverati nell’ospedale di Timone sin dall’inizio della pandemia di coronavirus per la sindrome di Kawasaki che causa l’infiammazione delle pareti dei vasi sanguigni. A livello nazionale, questa cifra è salita a 125 casi dal 1 marzo: il 52% aveva il Covid-19.

Muore un bimbo e l'Oms lancia l'allarme: attenzione alla sindrome di Kawasaki - Il Tempo
 
Chinese Ambassador To Israel Found Dead In Home, Sparking Avalanche Of Rumors Amid Tensions With US

China's Ambassador to Israel has been found dead inside his home near Tel Aviv Sunday morning, Israel's Foreign Ministry has confirmed.

57-year old ambassador Du Wei had only assumed his post in February 2020 in the midst of the coronavirus pandemic, due to which he entered a two week mandatory self-quarantine upon his arrival. He'd previously been China’s envoy to Ukraine and is survived by his wife and son, who were not yet in the country.

Police were reported outside his residence in Herzliya, which lies just north of the Israeli capital, conducting an investigation but have told the media Wei's death isn't being treated as suspicious. However, a number of commentators are highlighting the context of tensions between the US and China inside Israel as being essentially in a state of behind-the-scenes diplomatic war after Secretary of State Mike Pompeo's visit there last week.

Pompeo sought to urge the Israelis against trading or investing with China, especially the agreement for China to start operating Haifa Port in 2021. As multiple reports underscored:

On Wednesday, Mr Pompeo denounced Chinese investments in Israel and accused China of withholding information about the coronavirus outbreak.

Washington has sought to strip China of ability to exercise influence in this strategically key part of the Mediterranean where the US Navy's 6th fleet often docks and restocks.

Du Wei reportedly specifically condemned Pompeo’s anti-China rhetoric on its official website days ago.

While there was no immediately forthcoming statement on the ambassador's death out of the Chinese Foreign Ministry, it is likely Beijing has yet to rule anything out in terms of the suspicious timing of it all.

Meanwhile, Israeli newspapers were quick to underscore that the immediate rapid spread of the news across global press almost immediately after the discovery of the death was accompanied by widespread rumors and speculation.

"The level of conspiracies and anti-China comments after the death of the ambassador reached a crescendo on Sunday afternoon," Jerusalem Post wrote. This is also due to it being rare that an ambassador dies while on the job, as multiple reports have noted.

Chinese Ambassador To Israel Found Dead In Home, Sparking Avalanche Of Rumors Amid Tensions With US | Zero Hedge
 
Chinese ambassador to Israel is found dead in his home, Foreign Ministry says

China's Ambassador to Israel, Du Wei, was found dead inside his official residence Sunday morning, a spokeswoman for Israel's Ministry of Foreign Affairs told CNN.

At this stage, the 57-year-old's death is not being treated as suspicious.
Police are outside the ambassador's residence in Herzliya -- to the north of Tel Aviv -- as part of standard procedure, the spokeswoman said.
His death comes less than a week after US Secretary of State Mike Pompeo visited Jerusalem, openly criticizing China's actions during the coronavirus pandemic, as well as calling on Israeli leaders to stop signing major infrastructure and communications deals with Chinese companies.
There has been no comment on the ambassador's death from the Chinese embassy in Israel or the Ministry of Foreign Affairs in Beijing.
Ambassador Du assumed his current role in Israel in February 2020, according to the embassy's webpage, as the coronavirus pandemic was sweeping across the globe. He wrote in an article in the Jerusalem Post in mid-March that he immediately had to enter two weeks of mandatory self-quarantine on his arrival.
Ambassador Du was married with one son.

Du Wei, the Chinese ambassador to Israel, is found dead in home - CNN
 
China wins on Haifa port, but fights with US for the future - analysis

China will start running the port in 2021, and the US will need to decide whether to continue to dock its Sixth Fleet there or follow through on its threat to pull out.

The great battle over the Haifa Port has played out, and China beat the US in competing to influence Israeli policy.

China will start running the port in 2021, and the US will need to decide whether to continue to dock its Sixth Fleet there or follow through on its threat to pull out.
So why was Beijing’s Special Envoy for the Middle East Zhai Jun in such a combative mood during his visit to Israel on Monday when he fired a warning shot at Israel about taking “US bullying” into account over the country’s future relations?

If the Chinese played US football, one might have expected Jun to spike the football and do a dance in the end zone.

This would seem to be even more true in light of the fact that when Israel’s new task force for vetting foreign investments holds its first meeting in January, it will not be regulating Chinese investments in Israel’s hi-tech sector.

As Institute for National Security Studies China program director Assaf Orion has previously written, the US is “highly sensitive to Chinese acquisitions in the fields of artificial intelligence, robotics, autonomics, semiconductors…not all of which are directly military/defense-related…But the lines between civilian and military applications of these technologies are not steadfast.”

True, there is a laundry-list of industries, especially in critical infrastructure, where the task force will vet foreign investment, including: the financial, communications, infrastructure, transportation, and energy sectors.

But The Jerusalem Post has been told previously by top security establishment sources that there was genuine worry that the Chinese would weave in some back-door or old-fashioned spying into the Haifa Port mix.

When The Jerusalem Post visited China this summer, it seemed that what was brilliant and unique about what China can offer is that its advanced technology deep sea port in Shanghai is almost completely automated.

It uses an army of networked, automated, guided vehicles, an automated stacking crane system and other automated systems to move over 42 million shipping container units per year with a bare minimum of human intervention for a complex process that once required effectively an army of humans doing physical labor.

Overall, the automation and networking of devices and vehicles, which Israel is excited about for saving money and labor costs, was exactly what worried some Israeli defense officials – worries that China might use back doors in the infrastructure for spying.

Top Israeli defense officials had told the Post that the concerns about the Chinese in this regard are real and based on evidence from patterns that have already occurred elsewhere.

There is an interesting question about whether Israel trusts the Chinese – Israeli officials are certainty less suspicious on average than their US counterparts – or has decided that it needs to bond with Beijing, with or without trust, as a simple factual recognition of China’s rising power globally.

Former Mossad, Shin Bet (Israel Security Agency), cyber and other national security officials have differing views on the issue depending on how crucial they think China is to Israel’s future diplomatic posture.

However, this is all seemingly old news now. Once again, there may be some Israeli in-house modifications of Chinese technology or infrastructure as Beijing creates a Haifa Port in the image of the Shanghai Port, but the punchline is that Israel rebuffed US pressure.

If China won on the Haifa Port and won on getting the hi-tech sector exempt from the new task force regulatory process then we return to the mystery of why Chinese official Jun is railing at the US.

In this regard, INSS researcher Doron Ella argues that the Haifa Port question was always mostly symbolic.

He noted that, in fact, the US already docks its naval vessels at two US ports run by the Chinese.

Further, Ella said that it is quite possible that the powers of the task force may later expand to include aspects of the hi-tech sector.

In this reading, China is suspicious that the creation of the task force itself was done only to satisfy US concerns and was not related to any legitimate Israeli security considerations.

If true, then China could be worried that the US will make future power plays to get the task force to start vetting hi-tech issues also.

In the meantime, it appears that where the Shin Bet and Israeli defense establishment wanted safeguards regarding critical infrastructure, the task force was given power.

Where the only concern was angering the US in its ongoing competition with China about developing the AI, cyber, big data, robotics and facial recognition industries, Israel is leaning toward China for now.

China’s warning shot on Monday was likely to ensure that it stays that way as these hi-tech sectors are a much bigger trophy in the long-term than the Haifa Port ever was.

China wins on Haifa port, but fights with US for the future - analysis - The Jerusalem Post
 
L’ALBA DI UN NUOVO BIPOLARISMO?

Da almeno un decennio ormai, e cioè dall’aggressione alla Libia e dall’eliminazione di Gheddafi, l’Italia è stata espulsa dal proprio mare. Parigi non è riuscita a sostituirsi a Roma: la sponda sud del Mediterraneo è contesa tra un asse saudita-emiratino-egiziano e uno turco-qatariota, con importanti inserimenti – dalla Libia alla Siria – più del Cremlino che dell’Eliseo.

Piegata dalla crisi dei propri conti pubblici e piagata dall’epidemia di COVID19, l’Italia si è ritirata sul teatro strategico mitteleuropeo, nel quale concentra le proprie speranze di clemenza finanziaria e contabile dall’UE. Il fatto che si tratti di una scelta obbligata non la rende una scelta sicura: era l’Europa tutta a trovarsi assediata nella guerra commerciale indetta da Donald Trump ed è tutta quanta l’UE a vedere in crisi un modello economico orientato alle esportazioni.

Dopo le guerre commerciali, è infatti l’attuale pandemia a rallentare la domanda americana e cinese di automobili e beni industriali tedeschi (che inglobano componentistica italiana) e di beni di lusso italiani.La pandemia di Coronavirus non ha fatto altro che mettere in ginocchio tutte le economie vocate all’esportazione, consentendo alle economie importatrici di beni ed esportatrici di servizi (a partire da quella americana, la quale controlla l’infrastruttura economica e finanziaria del mondo) di impugnare il coltello dalla parte del manico.

Un altro danno alla manifattura italo-tedesca è dovuto al fatto che sono messi a rischio gli approvvigionamenti a più basso costo provenienti dalla Cina, la prima ad essere colpita. Non va meglio per le economie esportatrici di materie prime e di idrocarburi, contro le quali agiscono concentricamente il crollo della domanda industriale mondiale e dei prezzi del petrolio, oltre ovviamente ai già citati effetti pandemici – uniti, come nel caso iraniano e venezuelano, alla martellante guerra economica statunitense.

Chi è padrone del proprio destino? Non solo chi gestisce la domanda mondiale, ossia le grandi “economie di deficit commerciale” statunitense ed inglese, ma anche chi controlla, militarmente e tecnicamente, le vie d’acqua e le “vie di corrente elettrica” attraverso le quali transitano merci e flussi finanziari; quindi, sempre i due grandi paesi anglosassoni (avvicinatisi ancor più tra loro dopo la Brexit).

Dietro di loro si erge, ferita ma non fermata, una Cina che ha comunque sofferto per le proprie importanti debolezze: è un paese che non può vedere interrotto il proprio flusso di materie prime in entrata e soprattutto di prodotti finiti in uscita, mentre bolle di debito dentro e fuori la Repubblica Popolare possono metterne a rischio gli investimenti infrastrutturali[4]. Sotto tutti i punti di vista, possiamo affermare che, a mesi dall’inizio della crisi del COVID19, la pandemia non ha cambiato giochi strategici già in corso, ma li ha accelerati.

Pensiamo alla regionalizzazione del mondo che stava seguendo alla globalizzazione, marcando il riflusso di quest’ultima; sia che le catene del valore vengano riallocate in prossimità dei mercati finali di USA e UE, sia che vengano spostate verso paesi asiatici con manodopera più a buon mercato di quella cinese, sia che rimangano in Cina per servire il mercato della Repubblica Popolare (tutti processi già in corso da anni), nei prossimi anni potremo solo assistere ad uno scontro continuo tra USA e Cina e ad un inasprirsi delle tensioni economiche e politiche tra i due colossi, o quanto meno ad una loro persistenza.

È da temere che l’Europa continentale e la Federazione Russa restino sempre più marginali negli equilibri mondiali. Tale eventualità era stata puntualmente prevista dai migliori osservatori in occasione della frattura euro-russa provocata dalla crisi ucraina del 2013. Ma altri gravi sintomi si erano già manifestati: con la disastrosa gestione della crisi dell’Euro del 2011 e, prima ancora, con la divisione dell’Europa davanti all’aggressione statunitense all’Iraq.

La pandemia da COVID19 è dunque, per il mondo globalizzato, non l’inizio, ma l’accelerazione della fine. Per il nuovo mondo bipolare USA-Cina è invece “la fine dell’inizio”.

L’ALBA DI UN NUOVO BIPOLARISMO? | Eurasia | Rivista di studi geopolitici
 
DAL BIPOLARISMO AL MULTIPOLARISMO


Il 1989 è stato un anno di importanza cruciale per la storia contemporanea. A partire da questa data, con la caduta del muro di Berlino, ha inizio il processo di implosione del blocco socialista che terminerà due anni più tardi con il crollo della stessa Unione Sovietica. È proprio a partire dal 1989 che si può collocare cronologicamente l’inizio di quel momento unipolare, caratterizzato dall’affermazione egemonica globale degli Stati Uniti d’America e dalla messa in atto dell’idea di “predestinazione”, che, ad oggi, non è ancora terminato. Tuttavia, se è vero che il 1989 segna l’inizio dell’unipolarismo, è altrettanto vero che nel corso del medesimo anno (e addirittura prima che il muro di Berlino venisse abbattuto), con la resistenza della Repubblica Popolare Cinese di fronte a quella che è stata definita (più o meno correttamente) come una “rivoluzione colorata ante litteram”, vengono creati i presupposti per la realizzazione futura di un ordine globale multipolare. Di fatto, a trent’anni di distanza da quel 1989, è proprio la potenza economico-commerciale della Cina (politicamente ristrutturata lungo le linee guida del “socialismo con caratteristiche cinesi”), a rappresentare, prima ancora della ritrovata forza militare russa, il vero e proprio motore verso l’evoluzione ad un sistema multipolare delle relazioni internazionali.

Evitando di cadere nella trappola di stucchevoli “nostalgismi” del mondo bipolare, si rende comunque necessario affermare quella che, sulla base delle condizioni attuali, sembra essere una verità incontrovertibile: la riunificazione tedesca, l’implosione del blocco socialista ed il crollo dell’URSS hanno rappresentato una vera e propria catastrofe geopolitica per l’Europa. Una catastrofe di cui il continente continuerà a subire i più nefasti effetti ancora per molti anni.

Questa affermazione, ovviamente, necessita di una dettagliata dimostrazione. Ed è ciò che si cercherà di fare in questo contesto, articolando il discorso su due livelli:

a) una elencazione dei “mali” prodotti dall’istante unipolare collegata ad una riflessione sull’attuale condizione del sistema europeo;

b) la transizione odierna dall’unipolarismo al multipolarismo.

È convinzione diffusa che l’implosione del blocco socialista sia stato quasi un evento estemporaneo, il prodotto di un moto popolare diffuso ed improvviso. Naturalmente, non è stato affatto così. E le cause di questa repentina dissoluzione potrebbero essere ricercate addirittura alcuni decenni prima degli anni ’80 del XX secolo. Utilizzando una terminologia cara all’antropologo russo Lev N. Gumilev si potrebbe affermare che il “microciclo” di etnogenesi del subethnos sovietico, iniziato nel 1917, dopo aver raggiunto il suo picco negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, abbia conosciuto, a partire dalla seconda metà degli anni ’50, l’inizio della sua parabola discendente.

Si potrebbe addirittura affermare che questa progressiva decadenza abbia avuto precisamente inizio con il processo destalinizzazione: ovvero, con la decostruzione del sistema politico realizzato nei decenni precedenti sotto la guida di Josif Stalin. Tale processo è proseguito a fasi alterne fino agli anni ’80, con un relativo rallentamento nell’epoca brezneviana e con una brusca accelerazione nel momento in cui, nel giro di pochi anni, si susseguirono alla guida del PCUS Leonid Breznev, Jurij Andropov, Konstantin Cernenko ed infine l’inetto Mikhail Gorbaciov, il cui destino di curatore fallimentare del comunismo sovietico venne predetto da Ruhollah Khomeini in una lettera che l’Imam gli inviò in data 1° gennaio 1989.

Così scrisse la Guida della Rivoluzione islamica iraniana nella lettera indirizzata all’allora Segretario del PCUS: “d’ora in poi bisognerà cercare il comunismo nei musei di storia della politica mondiale”.

Il problema del comunismo, secondo l’Imam, si trovava essenzialmente nel suo essere una dottrina materialistica. “E col materialismo – scrisse nella lettera – non si può di certo far uscire l’umanità dalla crisi provocata proprio dalla mancanza di fede nello spirito”.

Questo breve preambolo storico ha l’obiettivo di dimostrare che da tempo vi era il sentore che un’epoca stesse per terminare. Tuttavia, ben pochi riuscirono ad immaginare che il “dopo” non sarebbe stato affatto così luminoso.

Il primo prodotto della riunificazione tedesca e del crollo del blocco socialista è stato quel Trattato di Maastricht (1992) che ha posto le fondamenta per la costruzione dell’attuale “gabbia tecnocratica”. Ed a questo proposito è utile ribadire che l’Unione Europea attuale è in larga parte una creazione statunitense. Lo scopo di tale creazione era, da un lato, garantire il controllo geopolitico del Vecchio Continente da parte di Washington e, dall’altro, dare sfogo alle aspirazioni subimperialiste della Germania riunificata, allargando l’Unione a quell’Europa orientale nella quale il popolo tedesco, storicamente, ha sempre ricercato la propria profondità strategica.

Le parole dell’allora stratega del Pentagono Zbigniew Brzezinski, in questo senso, sono emblematiche: “Qualunque espansione del campo di azione politico dell’Europa è automaticamente un’espansione dell’influenza statunitense. Un’Europa allargata ed una NATO allargata serviranno gli interessi a breve ed a lungo termine della politica europea. Un’Europa allargata estenderà il raggio dell’influenza americana senza creare, allo stesso tempo, un’Europa così integrata che sia in grado di sfidare gli Stati Uniti in questioni di rilievo geopolitico, in particolare nel Vicino Oriente”.

Oggi, la completa realizzazione del disegno strategico di Brzezinski è sotto i nostri occhi. L’UE (aggregato di Stati che cercano, seppur nella loro limitata sovranità, di fare ciascuno i propri interessi specifici) non esiste sul piano politico e geopolitico, ma solo su quello tecnico-finanziario. E l’Europa, attualmente, è divisa almeno in tre blocchi: l’asse (alquanto traballante se non addirittura ipotetico) franco-tedesco; il Gruppo di Visegrad ed i Paesi dell’est per i quali Washington ha studiato il ruolo geopolitico di “cordone sanitario” ai confini occidentali della Russia (si pensi all’iniziativa Tre Mari); i Paesi dell’Europa mediterranea che svolgono alternativamente il ruolo di laboratorio politico (il caso italiano) o di laboratorio economico-finanziario (il caso greco), e che vengono ciclicamente sottoposti alle ondate migratorie causate dalle aggressioni imperialiste della NATO o studiate ad arte come strumenti di destabilizzazione.

A questo proposito non sembra superfluo citare il testo di Kelly M. Greenhill Weapons of Mass Migration. Forced Displacement, Coercion, and Foreign Policy. In quest’opera la consulente del Pentagono parla espressamente di “movimenti di popolazione transfrontalieri che vengono deliberatamente creati o manipolati al fine di estorcere concessioni politiche, militari e/o economiche ad uno o più Stati presi di mira”. Alla luce della situazione attuale, con l’Italia sottoposta alla pressione migratoria dalla sponda sud del Mediterraneo a seguito della vergognosa avventura atlantista in Libia (altro prodotto, insieme alle aggressioni di Iraq e Siria, dell’istante unipolare), appare ancora più urgente la necessità per l’Europa di riconquistare il controllo del suo mare interno, trasformato in un “lago nordamericano” dal sistema di controllo fondato su una un linea “ipotetica” che unisce Gibilterra all’entità sionista attraverso le isole del fu Mare Nostrum.

L’importanza geostrategica del Mediterraneo venne a più riprese sottolineata dal pensatore e geopolitologo belga Jean Thiriart, che nella sua opera L’impero euro-sovietico da Vladivostok a Dublino non solo individuò nell’insufficiente interesse per l’area una delle principali cause della sconfitta delle forze dell’Asse nella Seconda Guerra Mondiale, ma, allo stesso tempo, affermò che una Europa realmente sovrana, liberata dall’occupazione nordamericana, avrebbe dovuto porre i propri confini meridionali lungo la linea del Sahara.

Con questo non si vuole certo affermare il bisogno di una nuova avventura coloniale europea in Nord Africa, ma semplicemente la necessità di costruire, con i Paesi di questa regione, uno spazio comune di cooperazione economica e militare, liberato dall’intromissione di potenze extraoceaniche, nel rispetto delle rispettive sovranità e dei rispettivi interessi.

Ritornando alla questione dell’unificazione europea e della sua espansione ad est, si può tranquillamente affermare, senza timore di venire smentiti, che questa fosse da subito direttamente collegata con il progetto di espansione della NATO. In cambio del suo ruolo di primo piano nella costruzione dell’Unione Europea, la Germania ottenne come contropartita l’inclusione degli ex satelliti dell’URSS all’interno del suo blocco geoeconomico. Non solo, ma orientando la sua geopolitica in termini essenzialmente commerciali ed economici, la Germania ebbe un ruolo di non poco rilievo anche nel processo di parcellizzazione della Jugoslavia. Qui l’obiettivo strategico nordamericano era quello di liberare uno spazio che potenzialmente avrebbe dovuto costituire il terminale per il trasferimento delle risorse energetiche dall’Asia centrale desovietizzata. L’attuale realizzazione del gasdotto TAP, ad esempio, è sempre stata parte integrante di questa progettualità.

Nel contesto balcanico la strategia nordamericana, di fatto, cambiò nel giro di pochi anni. La “Direttiva 133” del 1984, dal titolo emblematico United States Policy Toward Yugoslavia, sebbene affermasse il bisogno di imporre una maggiore influenza sull’area e di assecondarne il processo di riforma verso il libero mercato, ancora sosteneva la necessità di garantire l’unità territoriale dello Stato balcanico, in modo tale da utilizzarlo come spina nel fianco del Patto di Varsavia e per contrastare l’egemonia cubana e sovietica all’interno del gruppo dei cosiddetti “Paesi non allineati”.

Questa strategia venne modificata radicalmente a partire dalla prima metà degli anni ’90, quando il Patto di Varsavia non esisteva più e la Jugoslavia rimase l’unico Paese socialista della regione. Così, alla disintegrazione dello Stato jugoslavo a seguito della guerra civile e dell’immissione nella regione di migliaia di combattenti gihadisti sotto patrocinio CIA (in parte reduci dall’esperienza afgana), fece seguito la sua “deserbizzazione”, realizzata a tappe forzate dall’amministrazione Clinton fino alla criminale aggressione a Belgrado del 199.

Quello jugoslavo, tuttavia, non è stato l’unico caso di transizione violenta dal socialismo al “libero mercato”. Qualche anno prima, nel 1989, una sorte simile, seppur senza disgregazione del Paese, era toccata alla Romania di Nicolae Ceausescu. Questi, fautore di una sorta di nazionalcomunismo nutrito dall’ideologia del “protocronismo romeno”, dopo aver portato il Paese all’interno di strutture finanziarie internazionali come la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale si rese “colpevole” di aver studiato con Libia ed Iran il progetto di un istituto di credito destinato a concedere prestiti a tasso ridotto ai Paesi in via di sviluppo. Fu in quel momento che contro Ceausescu, definito all’epoca come “sterminatore del proprio popolo” (espressione con la quale i mezzi di informazione occidentali solitamente preannunciano ogni operazione di sovversione politica), si scatenò un brutale colpo di Stato, appoggiato, con una clamorosa autorete, dalla stessa Unione Sovietica. Di lì a poco, infatti, la Romania, situata lungo la diagonale di navigazione interna più importante dell’Europa, il fiume Danubio, si ricollocò all’interno della NATO, dove, assieme alla Bulgaria, iniziò a svolgere il ruolo di garante del corridoio terrestre tra i nuovi ingressi settentrionali e mitteleuropei dell’alleanza atlantica (Paesi baltici, Polonia, Slovacchia, Ungheria) ed il suo membro più orientale: la Turchia.

Quella dell’integrazione europea, dunque, rimane una storia sostanzialmente infausta e votata alla mera sottomissione del continente, nella sua totalità, al controllo nordamericano. Ed i più recenti fatti ucraini rientrano a pieno titolo all’interno di questa progettualità. Basti pensare che i cosiddetti “corridoi paneuropei”, progettati allo scopo di unire le estremità dell’Europa, in linea di principio, altro non sono che delle infrastrutture di guerra programmate per garantire la suddetta volontà di controllo geopolitico. Non sorprende affatto che il Corridoio V, del quale fa parte anche il TAV Torino-Lione (progetto, non a caso, ampiamente sostenuto da tutte le forze politiche “atlantiste” italiane) miri a collegare Lisbona con Kiev.

Questo a dimostrazione del fatto che il modello di dominio talassocratico unipolare nordamericano non prevede confini, ma fasce di sicurezza. E le fasce di sicurezza per gli Stati Uniti si trovano al di là degli oceani: lungo il rimland orientale del continente eurasiatico e lungo i confini occidentali della Russia, con l’Europa totalmente inglobata nella loro sfera di dominio.

Le recenti tensioni tra USA e UE nascono essenzialmente dal fatto che gli strateghi di Washington mai pensarono che la Germania potesse essere capace di trarre un vantaggio così ampio dall’unificazione continentale. Anzi, a suo tempo, si ritenne che il progetto della moneta unica, costringendo la Germania a rinunciare al marco, avrebbe in qualche modo evitato un suo nuovo ed eccessivo rafforzamento.

L’errore di valutazione nordamericano ha fatto in modo che la Germania sviluppasse una struttura geografico-merceologica simile a quella disegnata dal Cancelliere Theobald von Bethmann-Holloweg nel celebre “Programma di Settembre” del 1914: ovvero, la creazione di un’associazione economica mitteleuropea (ad egemonia tedesca) attraverso comuni convenzioni doganali che includesse Francia, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca, Austria-Ungheria, Polonia e, eventualmente, Italia, Svezia e Norvegia. Con la determinante differenza che il comunitarismo prussiano (o “socialismo prussiano” per usare un’espressione cara ad Oswald Spengler) è stato oggi sostituito dal più bieco ordoliberismo.

Così, la Germania attuale è stata capace di creare un enorme ed integrato blocco manifatturiero che include tutte le regioni industriali ad essa vicine. Ha approfittato e tratto vantaggi notevoli dai cambi depressi rispetto all’euro vigenti nei Paesi dell’est ed ha scaricato sui di essi e sull’area mediterranea il costo della moneta unica, favorendo al contempo le esportazioni tedesche.

Ben lungi dal volere restituire margini di sovranità ai Paesi europei, l’obiettivo odierno di Washington è semplicemente quello di porre rimedio al problema del “surplus commerciale tedesco” che costituisce un ostacolo di non poco rilievo nel progetto di riaffermazione e salvaguardia della “globalizzazione americana” messo in atto dall’amministrazione Trump attraverso la tradizionale politica del divide et impera.

II

Nella premessa si è accennato ai fatti di Piazza Tian’anmen e al fatto che la resistenza della Repubblica Popolare Cinese nel 1989 pose le basi per la futura costruzione dell’ordine multipolare. Oggi si è perfettamente consapevoli che la ricostruzione dei fatti fornita al tempo dai giornalisti della BBC e della CNN non era poi così veritiera; e le innumerevoli perdite subite dalle forze di sicurezza dimostrerebbero, inoltre, che il carattere della manifestazione non era affatto così pacifico.

Nel discorso che tenne il 9 giugno 1989 agli ufficiali di rango superiore in applicazione delle legge marziale a Pechino, Deng Xiaoping, constatando che un manipolo di malintenzionati si era infiltrato tra la folla, affermò: “non avevamo di fronte le masse popolari ma facinorosi che hanno tentato di sovvertire il nostro Stato […] Il loro obiettivo era quello di instaurare una repubblica borghese, un vassallo dell’Occidente in tutto e per tutto”.

Oltre a piangere i propri “martiri” ed a congratularsi con le forze di sicurezza e con l’Esercito per essere riusciti a sedare il “tumulto”, nel medesimo discorso la Guida cinese constatò la necessità di imparare dagli errori del passato e di guardare verso il futuro. “Lo scoppio dell’incidente – affermava Deng Xiaoping – ci dà molto a cui pensare e ci costringe a riflettere a mente lucida sul passato e sul futuro. Forse questo terribile avvenimento ci permetterà di portare a termine le politiche di riforma e apertura al mondo esterno in modo costante e perfino più in fretta, di correggere i nostri errori più rapidamente e di sfruttare meglio i nostri vantaggi […] La cosa importante è non riportare mai la Cina a essere un paese con le porte chiuse”.

A trent’anni di distanza dal 1989, la Cina si appresta a diventare la più grande potenza mondiale ed a favorire, con il lancio del progetto della Nuova Via della Seta, l’introduzione del paradigma multipolare nel sistema delle relazioni internazionali. Ed il multipolarismo altro non è che una versione aggiornata di quella divisione del mondo in un “pluriversum” di grandi spazi già pensata a suo tempo dal giurista tedesco Carl Schmitt.

Questa tensione cinese verso la multipolarità avrebbe il suo fondamento filosofico addirittura nell’opera di Mao Tse Tung. Il “Grande Timoniere”, in un componimento poetico simbolicamente intitolato “Kunlun” (la catena montuosa che nella mitologia cinese era sede di numerose divinità), così scrisse:

“Ma io dico al Monte Kunlun;
non vogliamo tutta la tua altezza
non vogliamo tutta la tua neve.
Cosa accadrebbe se sguainassi una spada così lunga da toccare il cielo
e con essa ti spaccassi in tre pezzi?
Ne darei uno all’Europa
uno all’America,
e ne terrei uno per la Cina.
Grande pace regnerebbe sulla terra
e vi sarebbe equamente freddo e caldo su tutto il globo”.

Più concretamente, sono stati l’aggressione unilaterale all’Iraq e gli sforzi enormi sostenuti da Paesi come Iran e Venezuela (Stati fatti oggetto delle più volgari aggressioni da parte del sistema economico-culturale-militare del mondo unipolare) ad accelerare il processo di costruzione ideologica del multipolarismo. Esso, di fatto, si pone in contrasto con il dominio occidentale sul globo terrestre: laddove per “Occidente” si intende un ordinamento geofilosofico-spaziale realizzatosi come costruzione concentrica attorno al polo nordamericano, ordinamento che si espande lungo direttrici ideologiche ben definite (democrazia liberale, mercato, diritti umani) ed in cui ad ogni Stato è richiesto di replicare il modello statunitense qualora non voglia incappare in sanzioni, criminalizzazione o esclusione dal sistema.

La dichiarazione congiunta russo-cinese sull’ordine internazionale nel XXI secolo, firmata a Mosca il 1° luglio 2005 da parte del Presidente della Russia Vladimir Putin e del Presidente della Repubblica Popolare Cinese Hu Jintao, esprime perfettamente lo spirito di opposizione al sistema di egemonizzazione economico-culturale occidentale. La dichiarazione, infatti, recita così: la multiformità di culture e civilizzazioni nel mondo deve divenire un fondamento per le loro reciproche relazioni, e non per conflitti. Non lo ‘scontro di civiltà’, ma la necessità di una collaborazione a livello globale costituisce l’elemento determinante nelle condizioni contemporanee. È necessario rispettare e proteggere la multiformità delle civilizzazioni mondiali e dei modelli di sviluppo. Le differenze nel retaggio storico di tutti i paesi, le loro tradizioni culturali, la struttura sociopolitica, i sistemi di valori ed i percorsi di sviluppo non devono divenire pretesto per l’interferenza negli affari interni di un altro stato. È indispensabile condurre un dialogo fra civiltà ed uno scambio di esperienze sulla base del rispetto e della tolleranza reciproci ed arricchirsi e completarsi a vicenda”.

Il multipolarismo, dunque, prevede l’esistenza di molteplici “poli” o centri che interagiscono sulla base del rispetto reciproco. Ma cosa si intende per polo geopolitico?

Per rispondere correttamente a questa domanda ci si può servire di una terminologia direttamente ereditata dalla geografia sacra.

Ogni grande orientamento geopolitico è infatti in primo luogo un orientamento spirituale. Esistono, tuttavia, anche forme “contraffatte” di spiritualità. Il tradizionalista francese René Guénon, a tal proposito, affermava: “vi sono luoghi particolarmente adatti a servire da supporto all’azione delle influenze spirituali, ed è su ciò che si è sempre basata l’installazione di ‘centri’ tradizionali principali o secondari […] per contro vi sono luoghi che sono non meno favorevoli al manifestarsi di influenze di carattere del tutto opposto, appartenenti alle più basse regioni del dominio sottile”.

Se Atene, Roma, Bisanzio o la Mecca potrebbero essere facilmente inserite nelle prima categoria; appare evidente che Londra, Washington e Tel Aviv rientrano “di diritto” nella seconda: nella categoria di quei “poli” che emanano una spiritualità “contraffatta”, quando non la neghino totalmente.

Il “polo”, in ogni caso, rappresenta il punto immobile attorno al quale ruotano e si sviluppano svariate entità periferiche ad esso collegate da un rapporto di interdipendenza e reciprocità. Esso è “centro”. Ed il suo essere “centro” presuppone l’estensione. Utilizzando ancora una volta una terminologia guenoniana si può dire che esso contiene una “virtualità di estensione”. Scrive Guénon: “È il punto che realizza lo spazio, che produce l’estensione mediante quell’atto che, nella condizione temporale, si manifesta come movimento; ma per realizzare lo spazio in questo modo occorre che con qualcuna delle sue modalità il punto sia situato esso stesso in questo spazio, il quale del resto non è nulla senza di esso e sarà riempito per intero dal dispiegamento delle sue virtualità”. In termini geopolitici, dunque, il polo (punto o centro) può essere identificato col concetto di “popolo guida”. Il popolo guida è un “asse” che dà inizio ad un movimento ed intorno al quale si cristallizza la vita.

Il concetto di “asse” richiama anche la metafisica confuciana. Essa, nata dalla luce, si esprime essenzialmente nella formula della “virtù irraggiante” ed è una metafisica che si comprende solo praticandola. Il poeta e pensatore Ezra Pound, importando il confucianesimo nell’estremità occidentale del continente eurasiatico, era convinto di fare dono all’Europa di una filosofia capace di costruire e sostenere un Impero. E tale filosofia, nella prospettiva di Pound, che la studiò assiduamente nel periodo di internamento nel campo correzionale di Pisa, aveva non pochi punti in comune con lo stesso pensiero europeo: da Omero e Sofocle a Platone ed Aristotele, fino a Dante e Guicciardini.

Il confucianesimo, di fatto, è incentrato sull’idea di “asse”. “Quell’asse nel mezzo – è scritto nei testi confuciani – è la grande radice dell’universo, l’armonia è il processo dell’universo esteso”. Qui, ritornano i temi della verticalità e dell’estensione contenuti nella precedente citazione guenoniana. In particolare, i due ideogrammi chung e yung, utilizzati nei testi confuciani, rappresentano in modo enfatico un processo in moto, un asse intorno al quale qualche cosa gira.

Pur non essendo stato capace di metterlo in pratica nella realtà, avendo impostato la sua visione imperiale sul mero dominio, anche Adolf Hitler nel Mein Kampf intuì il significato geopolitico del concetti di “asse” e “polo”. “Il significato geopolitico del centro d’un movimento – scrive la guida del nazionalsocialismo tedesco – non può essere sottovalutato. Solo l’esistenza di un luogo da cui si emani l’incantesimo di una Mecca o di una Roma, a lungo andare, è in grado di assicurare a un movimento la forza, la quale si basa sull’unità interiore e sul riconoscimento d’un vertice che tale unità rappresenta”.

Esiste oggi in Europa un “centro” o un “popolo guida”, un asse attorno al quale cristallizzare nuovamente la vita che non sia espressione di una contraffazione ideologica? La risposta è no. Può svolgere questo ruolo la Russia in quanto unico Paese sovrano rimasto sul suolo continentale come aveva pensato il già citato Thiriart? Sicuramente non potrà farlo nel breve periodo, considerando la strisciante russofobia che infesta il mondo culturale e politico europeo.

L’Europa, purtroppo, “risplende” della luce riflessa dal polo geopolitico nordamericano, filosoficamente fondato su una forma di messianismo secolarizzato prodotto dalla modernità. E qualora essa voglia ritrovare la propria sovranità, dovrà in primo luogo svincolarsi da tale polo. Solo allora, guardando all’indietro verso le proprie radici (che non sono i valori giudaico-cristiani tanto osannati dagli agitatori politici d’oltreoceano e dai loro epigoni europei), potrà pensare di ricostruire il proprio futuro e di poter occupare un ruolo che non sia quello di semplice vassallo nel futuro ordine multipolare.

DAL BIPOLARISMO AL MULTIPOLARISMO | Eurasia | Rivista di studi geopolitici
 
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Ci vorrebbero comprare i giudaisti-massonici-occidentali con i soldi nostri, in altre parole comprarci da soli per poi essere di loro proprietà.

Se ci dovesse comprare ( aiutare la Cina) daremo una sterzata verso oriente causandogli una bella pezza nel ****** e liberarci da questa egemonia che loro hanno verso i nostri confronti almeno dal lato economico ma non militare, per il momento.


Il leader del Partito Popolare Europeo (PPE), il politico tedesco Manfred Weber, ha pronunciato l'idea di vietare alle compagnie cinesi di acquistare le società europee colpite dalla pandemia per un anno.

Nel contesto della pandemia si fanno sentire timori che la Cina si avvalga della situazione attuale e cominci a prendere il controllo sulle compagnie europee indebolite. Manfred Weber, leader di uno dei maggiori gruppi politici europei, ha ammesso in un'intervista al settimanale Welt am Sonntag che sia opportuno imporre il divieto di acquisto di aziende europee dalle aziende cinesi.

“Dobbiamo notare che le società cinesi, in parte supportate dallo stato, stanno cercando sempre più spesso di acquistare società europee il cui valore si è abbassato o che hanno riscontrato difficoltà economiche per via della crisi causata dal coronavirus”, ha affermato Weber.

Il politico ritiene che l’UE deve agire in coordinazione per imporre al livello legale una moratoria sulla vendita delle società europee. “Dobbiamo difenderci”, ha detto, annunciando che presenterà una mozione a riguardo a Bruxelles.

“La Cina è il nostro futuro concorrente più grande dal punto di vista economico, sociale e politico. Vedo la Cina come un concorrente strategico per l'Europa, ha un modello sociale autoritario e vuole espandere il suo potere e spodestare gli Stati Uniti dalla posizione all’avanguardia. Dobbiamo prendere sul serio questo paese come potenza mondiale, mostrare rispetto, tuttavia, prima di tutto, dobbiamo essere vigili”, ha osservato Weber.
All’inizio di maggio un altro esponente del PPE, Antonio Tajani, aveva espresso indignazione per la linea politica del governo italiano nei confronti di Pechino.

Leader del PPE propone divieto di vendere alla Cina aziende europee - Sputnik Italia
 
come ha ben paragonato l' agenzia iraniana gli usa-getta come pirati, e lo sono, in quanto come i parati gli usa sono marinai che assaltano, saccheggiano e affondano navi ( affondano soprattutto città non filo-atlantiste )

Navi cisterna iraniane dirette in Venezuela: la Faxon attraversa Gibilterra

L'Iran ha inviato cinque navi cisterna cariche di carburante in Venezuela. Washington, tramite un funzionario dell'esercito, ha definito non gradito l'invio delle navi.

La nave cisterna Faxon ha attraversato domenica pomeriggio lo stretto di Gibilterra. Nei giorni scorsi cinque petroliere, per una capacità totale di 1,5 milioni di barili, hanno lasciato l'Iran. La stampa statunitense ritiene che siano dirette in Venezuela per portare carburante.

Oltre alla Faxon, altre tre imbarcazioni battenti bandiera iraniana, Petunia, Fortune e Forest solcano l'atlantico, mentre la Clavel, una nave di medio cargo, ha lasciato il canale di Suez e naviga in direzione di Gibilterra, secondo quanto si evince dai tracciati di localizzazione marittima.

Le sanzioni USA hanno paralizzato le capacità del Venezuela di raffinare il proprio petrolio, bloccando l'intero settore estrattivo ed energetico e causando una crisi di carburante.

Gli Usa avevano accusato Teheran chiedere in cambio di oro delle riserve venezuelane. Sia Teheran che Caracas hanno rigettato le accuse definendole prive di fondamenta.

La marina Usa ha inviato alcune navi da guerra in pattugliamento nel mar dei Caraibi, probabilmente con un intento dissuasivo.
Sull'account Twitter della Us Navy sono state pubblicate alcune foto di cinque navi militari dispiegate durante un'operazione di sicurezza marittima nell'area caraibica.

Il botta e risposta con gli Usa

Giovedì una fonte anonima dell'esercito USA, ha riferito all'agenzia Reuters che l'amministrazione di Trump stava prendendo in considerazione delle possibili azioni nei confronti delle cinque petroliere.

"Se gli Stati Uniti, proprio come i pirati,
:D:clap:( che lo sono ) intendessero creare insicurezza sulle rotte di navigazione internazionale, si assumerebbero un pericoloso rischio e il loro gesto non sarà sicuramente senza ripercussioni ", così ha informato oggi l'agenzia iraniana Nour News, citando alcuni rapporti secondo cui navi militari statunitensi starebbero tentando di intercettare la rotta dellepetroliere nei Caraibi.

Navi cisterna iraniane dirette in Venezuela: la Faxon attraversa Gibilterra - Sputnik Italia
 
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sempre questi maledetti occidentali vorrebbero la forza necessaria a influenzare gli avvenimenti mondiali e sottomettere gli altri stati sotto le loro normative massoniche.

Iran: risponderemo alle minacce USA contro le navi dirette in Venezuela

Il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif si è rivolto al segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, avvertendo che Teheran risponderà agli Stati Uniti in caso di minacce alle sue petroliere che trasportano carburante in Venezuela.

Il ministro degli Esteri iraniano in una lettera ha definito "illegali, provocatorie e pericolose" le minacce degli Stati Uniti, tacciandole di "pirateria marittima" ed affermando che esse rappresentano un pericolo per la regione.

Zarif ha anche ricordato che il governo degli Stati Uniti è responsabile per conseguenze di qualsiasi tipo di azioni illegali, sottolineando che l'Iran ha il diritto di intraprendere le "misure necessarie per contrastare queste minacce", si apprende da una nota del ministro degli Esteri dell’Iran.

Le autorità della Repubblica Islamica hanno convocato a Tehran l'ambasciatore svizzero, che rappresenta gli interessi degli Stati Uniti nell’Iran. Il viceministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi ha chiesto al diplomatico elvetico di comunicare a Washington il messaggio di avvertimento.

In precedenza l’agenzia Reuters, citando un alto rappresentante dell'amministrazione del presidente statunitense Donald Trump, aveva riferito che Washington valuta misure da prendere nei confronti di Teheran che vende il petrolio al Venezuela.

La fonte dell’agenzia ha affermato che Washington ha “un alto grado di certezza” circa il fatto che il governo venezuelano ripaghi l'Iran con "tonnellate d'oro".

Nel 2018 il presidente Donald Trump ha ritirato unilateralmente il suo Paese dal piano d'azione globale congiunto sul nucleare ed ha imposto a più riprese diversi pacchetti di sanzioni economiche all'Iran. Washington ha annunciato il suo obiettivo di azzerare le esportazioni del petrolio iraniano e ha invitato i suoi acquirenti a rinunciare a tali acquisti.

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72 anni di Nakba e la Negazione del Diritto al Ritorno - La mia Gaza - L'Antidiplomatico


72 anni di Nakba e la Negazione del Diritto al Ritorno


Ne ho conosciuti tanti,di profughi palestinesi. Non abbastanza. Ma abbastanza perché sia in grado di raccontare la loro Memoria.

In un mondo in cui Memoria significa solo Olocausto, io oggi ricordo la memoria di chi, non nei campi di concentramento nazisti, ma in quelli istituiti nel loro stesso paese, o in Libano, dalle vittime diventate carnefici, continua ad aspettare che giustizia sia fatta.

Penso al vecchino del campo profughi di Deheisheh, Betlemme, che mi accolse in casa sua come una vecchia amica. Era originario del villaggio di Zakaria, mi disse.
Penso a Shahira, che vive nel campo profughi di Chatila, dove 38 anni fa, le falangi cristiane libanesi, con il supporto dell'esercito israeliano, sterminarono la sua famiglia, lasciando in vita solo lei ed i suoi tre figli. Shahira, originaria di Haifa , sguardo fiero ed indomito, resistenza, chiede giustizia, non intende rassegnarsi né arretrare . Vuole andare nella sua terra. Vuole poter posare i suoi piedi su quel terreno di cui oggi gode chi glielo ha rubato. Nessuna incertezza nella sua voce, sia quando condanna un massacro inutile, che aveva il solo scopo di annientarli, sia quando dice che lei andrà a casa sua, in Palestina...in tutta la Palestina.

Penso all'uomo che, lo scorso settembre, ci ha accompagnati in giro per i dintorni di Betlemme. Vive nel campo profughi di Aida, non ha lavoro, ma moglie e figli da sfamare sì. Si arrangia come può.

Penso all'anziana signora i cui quattro figli scomparvero durante il massacro di Sabra e Chatila. Non sono mai più stati ritrovati, né vivi né morti. Stava male, soffriva di cuore, si aggravava ogni anno, con l'avvicinarsi della ricorrenza. Inginocchiata la guardai piangere. E piansi anch'io. Penso ai tanti palestinesi incontrati a Gaza, su circa due milioni di abitanti, il 70/80% sono profughi.

Tutti loro hanno lo stesso desiderio : tornare nei loro villaggi, nelle loro case, persi il 15 maggio del 1948, all'indomani dell'autoproclamazione, ad opera di David Ben Gurion, dello stato d'Israele.

Al Nakba ( letteralmente " catastrofe", "disastro" ) è il temine con cui viene designato l'esodo della popolazione Palestinese costretta ad abbandonare le proprie terre e le proprie case, all'indomani della fine del mandato britannico in Palestina e della fondazione dello stato d'Israele, secondo quanto previsto dal Piano di Partizione della Palestina ( risoluzione 181 del 29 novembre 1947 ). Il 14 maggio 1948, alla scadenza del mandato britannico, David Ben Gurion autoproclamò lo Stato d'Israele.

Il 15 maggio del 1948 l’esercito sionista invase i territori palestinesi, impossessandosi delle terre, delle case e del futuro del popolo palestinese.
L'Inghilterra facilitò la strada agli ebrei, arrivati da Europa, Russia e America, per creare il proprio stato su terreni altrui, per colonizzare lentamente Il territorio palestinese, a poco a poco e con ogni possibile mezzo e modo.

Se risulta vero che immigrazioni di ebrei in Palestina, si erano già registrate sin dagli inizi del 1900, è altrettanto vero che, con la Dichiarazione di Balfour, del 2 novembre 1917, esse si intensificarono. L'allora ministro degli esteri inglese, Arthur Balfour scriveva a Lord Rothschild, principale rappresentante della comunità ebraica inglese, e referente del movimento sionista, di guardare con favore alla creazione di un "focolare ebraico" in Palestina, in vista della colonizzazione ebraica del suo territorio. Tale posizione del governo emerse all'interno della riunione di gabinetto del 31 ottobre 1917.

Al Nakba è stato il giorno in cui il popolo Palestinese si è trasformato in una nazione di rifugiati, in cui almeno 750.000 persone, l'85% dei palestinesi, sono state espulse dalle loro case e costrette a vivere nei campi profughi, sono state cacciate dalla terra che divenne Israele. Molti di quelli che non sono riusciti a scappare, o si sono ribellati, o in qualche modo rappresentavano una minaccia per il progetto sionista, sono stati uccisi.

Secondo le centinaia di fonti Palestinesi, Arabe, Israeliane ed Occidentali, sia scritte che orali, le forze sioniste hanno commesso decine di massacri contro i Palestinesi durante la cosiddetta "guerra" del 1948. Alcuni di questi sono ben noti e sono stati pubblicati, mentre altri non lo sono. In Appendice, alcuni dettagli delle stragi più note commesse per mano dell' Haganah e del suo braccio armato, il Palmach, così come dalla Banda Stern, l'Irgun e altre bande paramilitari sioniste.
(L'Irgun Zvai Leumi è conosciuto come "Irgun" e Lochamei Herut Yisrael è conosciuto come "Lehi" o "Stern Gang").

La comunità internazionale era al corrente di questa pulizia etnica, ma decise, soprattutto in occidente, di non scontrarsi con la comunità ebraica in Palestina dopo l’Olocausto. Le operazioni di pulizia etnica non consistono solo nell’annientare una popolazione e cacciarla dalla terra. Perché la pulizia etnica sia efficace è necessario cancellare quel popolo dalla storia e dalla memoria. Sulle rovine dei villaggi palestinesi gli israeliani costruiscono insediamenti per i coloni chiamandoli con nomi che richiamano quello precedente. Un monito ai palestinesi: ora il territorio è nelle nostre mani e non c’è possibilità di far tornare indietro l’orologio. Oppure costruiscono spazi ricreativi che sono l’opposto della commemorazione: vivere la vita, goderla nel divertimento e nel piacere. È un strumento formidabile per un atto di “memoricidio”.

Si conoscono più di 530 villaggi palestinesi che sono stati evacuati e distrutti completamente, con annesso il tentativo di cancellare addirittura l’esistenza di quegli agglomerati, eliminando foto dell’epoca, documenti e testimonianze di vita e cultura palestinese. Israele oggi continua ad impedire il ritorno a casa di circa otto milioni di rifugiati e continua ad espellere i palestinesi dalla loro terra, attraverso politiche razziste degne del peggiore apartheid. Il tutto sotto lo sguardo complice della "comunità internazionale".


Queste operazioni assumono di volta in volta forme e nomi diversi, attualmente vengono chiamati “trasferimenti”. I rifugiati palestinesi sono fuggiti in diversi posti e la maggior parte di questi vive nel raggio di 100 miglia dai confini d’Israele, ospite negli stati arabi confinanti; alcuni sono fuggiti nei paesi limitrofi intorno alla Palestina, altri sono fuggiti all’interno della Palestina ed hanno vissuto nei campi profughi, costruiti appositamente per loro dalle agenzie ONU, e altri si sono dispersi in vari paesi del mondo.

Ogni 15 maggio il popolo palestinese e tutti i suoi sostenitori nel mondo commemorano la Nakba, tranne che in Palestina, dal momento che nel febbraio 2010 la Knesset ha varato una legge che proibisce di manifestare pubblicamente in Israele lutto e dolore il 15 maggio.
Tutti i rifugiati hanno un sogno in comune: ritornare nelle loro case di origine, e questo sogno è sancito da una risoluzione ONU, la 194, una delle circa 70 che Israele continua impunemente a violare.

APPENDICE

• MASSACRO DI HAIFA - 03/06/1937
I paramilitari dell' Irgun ed i gruppi Lehi Zionist bombardarono un mercato di Haifa uccidendo 18 civili palestinesi e ferendone 38.
• MASSACRO DI GERUSALEMME - 01/10/1937
Un membro dell'organizzazione sionista dell'Irgun fece esplodere una bomba nel mercato ortofrutticolo nei pressi della Porta di Damasco a Gerusalemme uccidendo decine di civili palestinesi e ferendone molti altri.
• MASSACRO DI HAIFA - 07/06/1938
I paramilitari sionisti dell' Irgun collocarono due autobombe in un mercato di Haifa uccidendo 21 civili palestinesi e ferendone 52.
• MASSACRO DI GERUSALEMME - 13/07/1938
10 palestinesi uccisi e 31 feriti in una massiccia esplosione nel mercato ortofrutticolo arabo nella Città Vecchia di Gerusalemme.
• MASSACRO DI GERUSALEMME - 15/07/1938
Un membro dei paramilitari sionisti dell'Irgun lanciò una bomba a mano di fronte ad una moschea di Gerusalemme mentre i fedeli stavano camminando proprio lì fuori. 10 morti e 30 feriti.
• MASSACRO DI HAIFA - 25/07/1938
I paramilitari dell'Irgun collocarono n'autobomba in un mercato arabo di Haifa, uccidendo 35 civili palestinesi e ferendone 70.
• MASSACRO DI HAIFA - 26/07/1938
Un membro dell' Irgun lanciò una bomba a mano in un mercato di Haifa uccidendo 47 civili palestinesi.
• MASSACRO DI GERUSALEMME - 26/08/1938
Un'autobomba collocata dai paramilitari sionisti dell'Irgun esplose in un mercato arabo di Gerusalemme, uccidendo 34 civili e ferendone 35.
• MASSACRO DI HAIFA - 27/03/1939
I paramilitari Irgun fatto esplodere due bombe a Haifa uccidendo 27 palestinesi e ferendone 39.
• MASSACRO DI HAIFA - 19/06/1939
Paramilitari sionisti lanciarono una bomba a mano in un mercato di Haifa uccidendo 9 palestinesi e ferendone 4.
• MASSACRO DI BALAD AL-SHAYKH - 06/12/1939
I paramilitari dell'Haganah fecero irruzione nella città di Balad al-Shaykh catturando 5 residenti che poi uccisero. La città di Balad al-Shaykh è una città palestinese situata a est di Haifa.
• MASSACRO DI SEMIRAMIS - 05/01/1942
L' Haganah bombardò il Semiramis Hotel situato nel quartiere Katamon di Gerusalemme. L'hotel crollò sui suoi ospiti, tutti palestinesi, uccidendo 19 persone e ferendone più di 20.
• MASSACRO DEL KING DAVID - 22/07/0946
Una bomba esplode al King David Hotel di Gerusalemme, quartier generale dell'amministrazine civile e militare britannica. ì, uccidendo 91 persone : 28 britannici, 41 arabi, 17 ebrei e 5 persone di diversa nazionalità. L'attentato viene rivendicato dal Lehi, chiamato dagli inglesi "la banda Stern", e dall'Irgun.
• MASSACRO DI AL ABBASIYAH - 13/12/1947
Un gruppo di membri dell'Irgun travestiti da soldati britannici attaccarono il villaggio di Al Abbasiyah e aprirono il fuoco contro i suoi abitanti seduti fuori ad un caffè del paese. Bombardarono anche alcune delle loro case e posizionarono diverse bombe ad orologeria. Inoltre, i soldati britannici circondarono il villaggio e permisero agli assassini di fuggire dalla parte settentrionale del villaggio. Uccisero 7 persone e ne ferirono gravemente altre 7, 2 delle quali morte in seguito. Tra essi, un bambino di 5 anni.
• MASSACRO DI AL-KHASAS - 18/12/1947
73 sionisti del kibbutz "Maayan Baruch" attaccarono e spararono contro 5 lavoratori palestinesi sulla strada per andare a lavorare. Durante l'attacco, uno dei sionisti fu accoltellato ed ucciso spingendo il comandante del terzo battaglione Palmach, Moshe Kelman, ad ordinare un' operazione di rappresaglia durante la quale furono bruciate case ed uccisiuomini di Al-Khasas. La relazione del comandante sionista osserva che furono uccise 12 persone, tutti donne e bambini.
• MASSACRO DI GERUSALEMME - 29/12/1947
Paramilitari Irgun gettato un barile pieno di esplosivo vicino a Bab al-Amud (Porta di Damasco), a Gerusalemme, che ha provocato la morte di 14 palestinesi e il ferimento di 27 altri.
• MASSACRO DI GERUSALEMME - 30/12/1947
Paramilitari Irgun gettarono una bomba da un'auto in corsa uccidendo 11 palestinesi.
• MASSACRO DI BALAD AL-SHAYKH - 31/12/1947
Una forza congiunta del primo battaglione Palmach e una brigata guidata da Haim Avinoam attaccarono il villaggio di Al-Balad Shaykh uccidendo 60 civili, secondo fonti sioniste. Tra gli assassinati, bambini, donne e anziani. Decine di case furono distrutte.
• MASSACRO DI AL-SHEIKH BREAK - 31/12/1947
Gruppi paramilitari sionisti irruppero nel villaggio di Al-Sheikh Break, uccidendo 40 palestinesi.
• MASSACRO DI AL-SARAYA AL-ARABEYA - 08/01/1948
Paramilitari sionisti utilizzarono un'autobomba per uccidere 70 civili palestinesi e ferirne decine.
• MASSACRO DI RAMLA - 15/01/1948
I soldati del Palmach e dell'Haganah bombardarono uno dei quartieri arabi di Ramla.
• MASSACRO DI YAZUR - 22/01/1948
Yigael Yadin, un comandante dell'Haganah, ordinò al comandante del Palmach, Yigal Allon, di procedere ad una operazione contro il villaggio di Yazur. Un gruppo del Palmach attaccò un autobus nei pressi di Yazur, ferendo il conducente e diversi passeggeri palestinesi. Lo stesso giorno, un altro gruppo attaccò un altro autobus uccidendo e ferendo diverse persone. Questi attacchi da parte del Palmach e delle Brigate Givati sui villaggi palestinesi e le auto continuarono per 20 giorni consecutivi, mentre altre unità hanno fecero esplodere delle bombe nei pressi delle abitazioni del villaggio.
Poi i paramilitari dell'Haganah decisero di attaccare il villaggio e bombardare unaa fabbrica di ghiaccio insieme a due edifici intorno. Un gruppo dell'Haganah aprì il fuoco sulla fabbrica di ghiaccio nel villaggio, mentre altri gruppi spararono e lanciarono bombe a mano sulle case del villaggio. Inoltre, un gruppo ingegneristico bombardò l'edificio Askandroni, la fabbrica di ghiaccio, ed uccise 15 persone.
• MASSACRO DI SA'SA - 14/02/1948
Una forza del Palmach fece irruzione nel villaggio di Sa'sa distrusse 20 case abitate, uccidendo 60 abitanti del villaggio, la maggior parte dei quali erano donne e bambini.
• MASSACRO DI GERUSALEMME - 20/02/1948
La Banda Stern rubò un veicolo dell'esercito britannico, lo riempì di esplosivo, e lo collocò di fronte al palazzo di Al Salam a Gerusalemme. L'esplosione uccise 14 palestinesi e ne ferì 26.
• MASSACRO DI HAIFA - 20/02/1948
Paramilitari sionisti attaccarono i quartieri palestinesi a Haifa con colpi di mortaio uccidendo 6 persone e ferendone 36.
• MASSACRO DI AL-HUSAYNIYYA - 13/3/1948
Paramilitari dell'Haganah fecero irruzione nel villaggio di Al-Husayniyya, distruggendo case con esplosivo e uccidendo più di 30 famiglie.
• MASSACRO DI ABU KABIR - 31/3/1948
I paramilitari dell' Haganah effettuarono un attacco armato contro il quartiere di Abu Kabir a Jaffa. Distrussero case e uccisero i residenti in fuga dalle loro case per cercare riparo.
• MASSACRO DEL TRENO CAIRO-HAIFA - 31/03/1948
La Banda Stern posozionò bombe su un treno Cairo-Haifa, uccidendo 40 persone e ferendone 60.
• MASSACRO DI RAMLA - 01/03/1948
Paramilitari sionisti pianificarono ed eseguirono questa strage nel marzo 1948 in un mercato nella città di Ramla, uccidendo 25 civili palestinesi.
• MASSACRO DI JAFFA - 01/04/1948
La Banda Stern lanciò una bomba in una piazza affollata a Jaffa, uccidendo 15 persone e ferendone 98.
• MASSACRO DI AL-SARAYA - 01/04/1948
Il 4 Gennaio 1948 i paramilitari sionisti dell'Irgun collocarono una macchina piena di esplosivo ad Al-Saraya, vicino a Jaffa, distruggendo tutto ciò che vi era intorno, uccidendo 30 palestinesi e ferendone molti altri.
• MASSACRO DI AYN AL-ZAYTOUN - 05/04/1948
Ayn al-Zaytoun era un villaggio palestinese alla periferia di Safed, la cui popolazione era di 820 persone. Lo scrittore ebreo, Netiva Ben-Yehuda, scrive nel suo libro "Through the Ropes Binding" circa la il massacro di Ayn al-Zaitoun : "il 3 o il 4 del 1948,furono sparati circa 39 prigionieri legati."
• MASSACRO DI DEIR YASSIN - 09/04/1948
Un gruppo di 120 paramilitari sionisti dell'Irgun Zvai Leumi (Irgun) e del Lochamei Herut Yisrael (Lehi o Stern Gang) ataccò il villaggio di Deir Yassin, accompagnati da carri armati.
Circa 100-120 dei suoi abitanti, per la maggior parte donne e bambini, furono massacrati. Il villaggio era una città palestinese di circa 750 abitanti, situata ad ovest di Gerusalemme. Il "massacro" in realtà si verificò in tre fasi distinte.
La sera del 9 aprile, il capo dell'Irgun esagerò pubblicamente il bilancio delle vittime, al fine di terrorizzare gli arabi in Palestina. Si era vicini alla fine del Mandato Britannico e la lotta arabo-ebraica subiva un' escalation. La cifra 254 è quasi certamente un' esagerazione, ma non è un'esagerazione araba.

Le loro considerazioni erano di natura economica, ma a mano a mano che si discuteva dei piani di attacco, si discuteva se massacrare tutti gli abitanti del villaggio o solo i maschi e tutti gli altri oppositori. Lo scopo era quello di spaventare i residenti arabi della Palestina e di vendicarsi per gli attacchi e le atrocità perpetrate contro le precedenti forze ebraiche. Un ordine del Comandante-in-capo dell'Irgun, Menachem Begin, avrebbe detto loro di osservare la Convenzione di Ginevra. Se questo ordine sia stato preso sul serio o tralasciato, effettivamente non è chiaro. È chiaro che la sera prima dell'attacco alcuni parlavano di infliggere grandi perdite per inviare un messaggio di paura agli arabi di Palestina.

• MASSACRO DI NASIR AL-DIN - 13/04/1948
Un gruppo mascherato, formato da forze dell' Irgun e dello Stern Gang fece irruzione nel villaggio di Nasir al-Din aprendo il fuoco sui suoi abitanti e uccidendo 50 persone. Il giorno precedente, sia Nasir al-Din che Al-Shaykh Qadumi erano stati attaccati e 12 persone erano state uccise.
• MASSACRO DI QALUNYA - 14/04/1948
Una forza del gruppo paramilitare sionista Palmach fece irruzione a Qalunya, bombardò diverse case e uccise 14 dei suoi residenti.
• MASSACRO DI TIBERIADE - 19/04/1948
Paramilitari sionisti hanno bombardato una casa a Tiberiade, uccidendo 14 dei suoi abitanti.
• MASSACRO DI HAIFA - 22/04/1948
Paramilitari sionisti attaccarono Haifa ed occuparono case. strade ed edifici pubblici, uccidendo 50 palestinesi e ferendone 200. I residenti furono colti di sorpresa, così portarono le loro donne ed i bambini al porto turistico per spostarli nella città di Akka. Durante il tragitto furono attaccati dai paramilitari sionisti che uccisero100 civili e ne ferirono 200.
• MASSACRO DI SAFED - 13/05/1948
L'Haganah fece strage di circa 70 giovani di Safed, ma non ci sono dettagli su questo massacro.
• MASSACRO DI ABU SHUSHA - 14/05/1948
Paramilitari sionisti commisero un brutto massacro nel villaggio di Abu Shusha, uccidendo circa 60 dei suoi residenti, tra cui uomini, donne, bambini e anziani. Il massacro si concluse con l'espulsione di tutti gli abitanti del villaggio dalle loro case, che furono poi gradualmente demolite.
• MASSACRO DI BEIT DARAS - 21/05/1948
Una forza sionista supportata da carri armati circondò il villaggio di Beit Daras e aprì il fuoco su esso. La gente del villaggio, compresa la tragicità della situazione, decise di resistere al fuoco e difendere le proprie case a tutti i costi, esortando le donne, i bambini e gli anziani a lasciare il villaggio per ridurre le perdite. Le donne, i bambini e gli anziani si stavano dirigendo verso la zona sud del paese, in periferia, dove si scontrarono con i sionisti, nonostante fossero indifesi. Molti di loro furono uccisi, e le forze diedero fuoco a molte case, bombardandone altre.
• MASSACRO DI AL-TANTURA - 22/05/1948
Questo massacro fu portato a termine dal terzo battaglione della Brigata Alexandroni e il piano sionista era quello di attaccare il villaggio da due lati, nord e sud. Una delle brigate bloccò la strada, mentre una barca bloccò il percorso via mare. Ogni unità attaccante aveva una guida del vicino insediamento di Zikhron Ya'akov, i cui residenti conoscevano il loro modo per circondare il paese, e la leadership della brigata mantenne un'unità di riserva per le emergenze. Al-Tantura non cominciò una battaglia con l'Haganah, ma rifiutò le loro condizioni, così gli aggressori portarono gli uomini al cimitero del villaggio, li misero in fila, e ne uccisero 200-250.
• MASSACRO DI HAIFA - 20/06/1948
78 palestinesi furono uccisi e 24 feriti da una bomba piazzata all'interno di una scatola di verdura in un mercato ortofrutticolo di Haifa. I paramilitari dell'Irgun e del Lehi furono i responsabili.
• MASSACRO DI GERUSALEMME - 01/07/1948
Paramilitari dell'Irgun lanciarono una bomba alla Porta di Giaffa a Gerusalemme, uccidendo 18 civili e ferendone altri 40.
• MASSACRO DI TABRA TULKAREM - 02/10/1948
Un gruppo di paramilitari sionisti fermò dei cittadini palestinesi dell villaggio di Tabra Tulkarem e sparò su di loro, uccidendo 7 persone e ferendone 5.
• MASSACRO DI HAIFA - 28/12/1948
Paramilitari sionisti del quartiere di Al-Hadar, situato nella parte superiore di Al-Abbas Street a Haifa, fecero rotolare giù un barile pieno di esplosivo distruggendo case e uccidendo 20 cittadini arabi, e ferendone 50

NOTA DELLA PAGINA : tra il 1939 ed il 1948 lo stato d'Israele non esisteva ancora. Esistevano, tuttavia, già bande armate di sionisti, che provvidero a cominciare la "pulizia etnica" della Palestina, supportati dall'esercito inglese, di stanza in Palestina grazie al mandato britannico. Ricordiamo che il sionismo è un'ideologia POLITICA, teorizzata da Theoror Herzl nel 1897, che sostiene il diritto degli ebrei di fondare uno stato ebraico, in Palestina o in Uganda.
 
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