Discutere in armonia e senza pregiudizi. Chi non gli va bene il thread non entri

Alcune riflessioni sulla Matrix della Grande Menzogna

Catlin Johnstone, una giornalista australiana eterodossa, in una sua angosciata analisi[1] afferma che la terza guerra mondiale è oggi una prospettiva che i media mainstream – e dunque i loro padroni su per li rami della piramide – ritengono possibile, come fosse un’opzione come un’altra. L’oligarchia occidentale e il suo megafono mediatico sono così usciti dal solco della logica e del buon senso, dando un lugubre contributo alla locomotiva che potrebbe condurre il mondo alla catastrofe.

Secondo un nugolo di cosiddetti esperti, alcuni qui di seguito menzionati, gli Stati Uniti devono aumentare subito e di molto le spese militari, perché occorre prepararsi a un inevitabile conflitto mondiale.

Questa patologica esegesi della scena internazionale viene presentata senza alcuna prova e con la veste di una necessità ontologica, come un incendio destinato a scoppiare per autocombustione. Il menu viene poi arricchito con l’elencazione dei nemici pronti a invadere l’Occidente, fortunatamente protetto dalla pacifica nazione americana, la sola in grado di difendere le nostre democratiche libertà.

Il funesto allargamento della guerra in Ucraina – che, coinvolgendo nazioni in possesso dell’arma nucleare, porterebbe allo sterminio della razza umana – sarebbe dunque l’esito di una congiunzione astrale come la gravitazione della luna sulle onde del mare. Essa non dipenderebbe – come invece pensano miliardi di persone al mondo, del tutto ignorate, ça va sans dire – dalla patologia di dominio e di estrazione di ricchezze altrui da parte di quella superpotenza che decide fatti e misfatti del governo ucraino e che dispone del potere di porre fine alle ostilità in qualsiasi momento, se solo rinunciasse alla sua irrealistica strategia di dominio unipolare del pianeta (una valutazione questa condivisa da numerose personalità e studiosi statunitensi, anch’essi ignorati).

Ai cosiddetti esperti e ai compilatori del pensiero imposto non passa per la mente che un cambio di postura da parte dell’unica nazione indispensabile al mondo (secondo il lessico malato di B. Clinton, 1999) metterebbe finalmente fine alle giustificate inquietudini del rischio atomico.

In un articolo dal titolo ‘L’America potrebbe vincere una nuova guerra mondiale? Di cosa abbiamo bisogno per sconfiggere Cina e Russia’ pubblicato su Foreign Affairs – rivista controllata dal Council on Foreign Relations, a sua volta megafono mediatico del Pentagono – si afferma che, ‘sebbene la prospettiva possa infastidire qualcuno, Stati Uniti e alleati devono seguire una strategia che conduca alla vittoria simultanea in Asia e in Europa, poiché’, continua l’autore, Thomas G Mahnken, ‘Stati Uniti e alleati dovrebbero sfruttare il loro attuale vantaggio strategico combattendo su entrambi i continenti’. Mahnken non è uno sprovveduto e si rende conto che una guerra simultanea contro Russia e Cina non sarebbe una passeggiata. Sorvolando su un mondo di dettagli, la sua riflessione si sofferma su un punto: ‘per vincere una guerra del genere gli Stati Uniti devono aumentare, subito e di molto, la spesa militare’, poi si vedrà. Ciò comporta, precisa Mahnken, la necessità di accrescere la produzione militare incrementando i turni di lavoro degli operai, espandendo le fabbriche e aprendo nuove linee produttive. Il Congresso deve stanziare maggiori risorse e al più presto, poiché la spesa attuale per la difesa è inadeguata! A costui importa un fico se nel solo 2021, il bilancio Usa della difesa aveva già superato i 722 miliardi di dollari (cresciuto ancora del 10% nel 2022) equivalenti alla somma dei budget delle dieci nazioni che seguono in graduatoria, Russia e Cina incluse[2]. Nella logica di codesto esperto, ‘per aumentare produzione militare e scorte di armamenti gli Stati Uniti devono anche mobilitare i paesi amici, poiché ‘se la Cina avviasse un’operazione militare su Taiwan, Stati Uniti e alleati sarebbero costretti a intervenire’. E quando menziona gli alleati, egli si riferisce beninteso alle colonie europee che la retorica chiama partner della Nato, un’organizzazione militare questa guidata da generali americani ora diventata globale senza che governi e parlamenti degli stati membri ne abbiamo mai discusso (basta scorrere i comunicati dei vertici di Bruxelles, giugno 2021, e Madrid, giugno 2022), ma solo perché la strategia e gli interessi imperiali lo esigono.

Ad avviso di codesto signore, occorrerebbe distruggere il mondo per difendere un’isola vicino alla terraferma cinese, chiamata Repubblica di Cina. Di grazia, con l’occasione costui potrebbe forse spiegarci il perché. È invero una benedizione che i governi di Taiwan e Pechino mantengono la testa sulle spalle, diversamente da qualcun’altro in Europa, per impedire che il sogno segreto statunitense diventi realtà, scatenando un conflitto devastante.

Non solo, l’articolo menzionato continua: ‘mentre gli Stati Uniti sono impantanati nel labirinto cinese, al governo di Mosca si presenterebbe una preziosa occasione per invadere l’Europa’, corroborando in tal modo il bizzarro paradosso propagandistico secondo il quale Putin starebbe perdendo la guerra in Ucraina, ma avrebbe tuttavia la capacità di invadere i paesi Nato!

In un altro scritto dal titolo ‘Gli scettici hanno torto: gli Stati Uniti possono affrontare sia la Cina che la Russia’, Josh Rogin, editorialista del pacifista Washington Post, punta il dito sia contro i democratici, perché si limitano a un conflitto indiretto contro la Russia, sia contro i repubblicani che invece punterebbero a farlo (anch’esso indiretto) contro la Cina, sostenendo: ‘perché no tutti e due’?

Robert Farley (19FortyFive) nel suo elaborato dal titolo ‘L’esercito americano potrebbe combattere la Russia e la Cina allo stesso tempo?’, scrive che ‘l’immensa potenza di fuoco delle forze armate statunitensi non avrebbe difficoltà a combattere con successo su entrambi i fronti’, concludendo che ‘gli Stati Uniti sono in grado di affrontare Russia e Cina contemporaneamente … di certo per un po’, e con l’aiuto di qualche alleato’, in verità senza troppo entrare nel merito.

A sua volta, Hal Brands (Bloomberg), in “Possono gli Stati Uniti affrontare Cina, Iran e Russia contemporaneamente?’, pur riconoscendo che tale ipotesi sarebbe oggettivamente difficile da governare, raccomanda di intensificare le attività in Ucraina e Taiwan (sempre sul suolo e col sangue altrui), con l’occasione vendendo a Israele armi ancor più sofisticate per fronteggiare l’Iran, e indirettamente Russia e Cina.

In ‘La teoria delle relazioni internazionali suggerisce che la guerra tra grandi potenze sta arrivando’, Matthew Kroenig (Consiglio Atlantico) scrive su Foreign Policy che sarebbe all’orizzonte una resa dei conti globale tra democrazie e autocrazie: ‘Stati Uniti e alleati Nato, più Giappone, Corea del Sud e Australia da un lato, e autocrazie revisioniste Cina, Russia e Iran dall’altro, e che gli esperti di politica estera dovrebbero adeguarsi di conseguenza’, senza precisare bene in cosa consisterebbe tale adeguamento, se non – e si tratterebbe di un buon consiglio – che il mondo è sempre più policentrico e multipolare, fortunatamente deve aggiungersi, e dunque l’Occidente si rassegni.

Alcuni di tali analisti indipendenti negano la tesi che la Terza Guerra Mondiale sia in arrivo, scoprendo d’altra parte l’acqua calda, vale a dire che un conflitto tra Grandi Potenze è già in atto – con specifiche caratteristiche, è ben chiaro (New Yorker di ottobre: ‘E se stessimo già combattendo la terza guerra mondiale con la Russia?’).

Le pontificazioni elencate costituiscono l’evidenza che l’esercito della Grande Menzogna è pericolosamente uscito di senno. Il suo verbo obbedisce alla narrativa degli strateghi occulti che valutano l’ipotesi di un conflitto globale non solo possibile, ma persino naturale, e che nessuno può evitare. Nell’era dell’arma nucleare dovrebbe invece prevalere il principio di massima cautela, moltiplicando gli sforzi a favore del dialogo e del compromesso, della de-escalation e della distensione.

I governi assennati dovrebbero mettere al bando anche solo l’idea che un conflitto nucleare si può vincere, ascoltando la saggia e inascoltata voce della maggioranza dei popoli, tutelando così davvero quella democrazia che pretendono di rappresentare. L’umanità non può rassegnarsi a un destino di distruzioni e violenza orchestrato da oligarchie senza scrupoli.

Coloro che sostengono dialogo e compromesso sono invece demonizzati come sostenitori del sopruso e della debolezza davanti al nemico.

Secondo il vangelo della patologia atlantista, le nazioni autocratiche (il Regno del Male) costituiscono una minaccia per le democrazie occidentali (il Regno del Bene). Sorge spontaneo chiedersi come sia possibile indulgere in tale aberrante distorsione della logica fattuale.

In verità, chiunque opponga resistenza alla pseudocultura della sottomissione imperiale è destinato ad essere aggredito politicamente, economicamente e se del caso anche militarmente (purché non possieda l’arma nucleare, beninteso, perché non si sa mai).

Lo storico Andrea Graziosi, riferendosi al cosiddetto dibattito italiano sull’Ucraina, ma non solo, rileva la risibile conoscenza di temi di politica estera che prevale nel nostro Paese. A suo giudizio, la cultura politica italiana è irrilevante e provinciale, concentrata su aspetti periferici in una logica capovolta rispetto alle priorità e agli stessi interessi dell’Italia, un paese desovranizzato, marginale e asservito agli interessi altrui. I media rifuggono dall’analisi e dal rigore del ragionamento, mentre i pochi intellettuali coraggiosi vengono sommersi dai cosiddetti esperti, sempre di altro, mai dei contesti di cui si parla (solitamente giornalisti o politici improvvisati).

A sua volta, in un pregevole volume (Il virus dell’idiozia) lo studioso di filosofia della scienza, Giovanni Boniolo, ricorda un concetto dato per scontato, secondo cui la libertà di espressione viene confusa con la libertà di ignoranza, rendendo superflui i dati di fatto e innecessaria la loro conoscenza.

La preferenza del criterio binario (bene/male, bianco/nero, giorno/notte), utile talora per semplificare il discorso, s’impone in forma inconscia e universale assumendo le sembianze dell’evidenza, distorcendo la realtà e impedendo l’analisi critica e la presa di distanza dalle menzogne. All’individuo non restano che due opzioni: rinunciare alla comprensione, che viene delegata ai falsi esperti, o appagarsi con un’umiliante alterazione della percezione del mondo.

L’uso acritico degli stereotipi genera un ragionare piatto, che conduce a un’unica conclusione ammissibile, quella digeribile dal sistema.

Un’esemplificazione eloquente è costituita dai tre stereotipi della demonizzazione atlantista della Repubblica Popolare, trasformati in dogmi di fede incontestabili: 1) la Cina punta a dominare il mondo; 2) la Cina è un regime totalitario; 3) la Cina è un paese comunista, dove lo Stato controlla ogni aspetto della società, dell’economia e della vita degli individui.

Il ragionare non binario – che aiuta a non confondere la libertà di parola con quella di dire sciocchezze – suggerisce invece che: 1) non vi sono prove che la Cina intenda dominare il mondo; come ogni altra nazione cerca solo il suo legittimo spazio; 2) la Repubblica Popolare è un paese (da tempo) non totalitario e la sua dirigenza, con tutti i suoi limiti, gode di ampio consenso (nel 2019, 150 milioni di cinesi si sono recati all’estero e nessuno di essi ha fatto domanda di asilo politico in uno dei paesi visitati); 3) la società cinese non è il paradiso in terra, ma come ovunque un mondo complesso e talora contraddittorio, dove i poveri e una crescente classe media convivono con i ricchi, forse troppi, ma in proporzione non più che in Occidente. Le praterie della riflessione sarebbero a questo punto infinite, ma reputo che il punto sia sufficientemente chiaro. Premeva ricordare che ‘la propaganda è un’arte che nulla ha a che vedere con la verità’ (Gianluca Magi: Goebbels, 11 tattiche di manipolazione oscura), che ogni giorno il potere fabbrica di sana pianta calunnie e mistificazioni e che occorre tenere gli occhi aperti. Il conformismo rassicura, l’obbedienza deresponsabilizza. Il risultato è la regressione a livelli minimi di alfabetizzazione valoriale, politica e sociale, che si vuole refrattaria all’analisi critica, ma partigiana di sentimenti primitivi e facilmente manipolabili.

Ma il nostro destino non deve essere la sottomissione, prima di tutto dell’intelletto. Contrariamente a quanto si possa pensare, la sociopatia al potere ha bisogno di consenso, o quanto meno di silenzio, che è poi lo stesso. Non dobbiamo camminare come sonnambuli in un pianeta immerso nella distopia, divenendo complici inconsapevoli. Noi siamo ben più numerosi, e più umani. Possiamo costruire un mondo diverso, occorre solo coraggio e pazienza.

[1] http://www.informationclearinghouse.info/57311.htm

[2] https://www.wired.it/article/nato-s...shington spenderà qualcosa,canto suo, spender

-di Alberto Bradanini-

#TGP #Politica #Società

[Fonte: https://www.lafionda.org/2022/11/21/alcune-riflessioni-sulla-matrix-della-grande-menzogna/]
 
Avete fatto arrabbiare Orsini… ma grazie a Dio non ha avuto peli sulla lingua e vi ha risposto con tono!

 
LA GUERRA DOPO CHERSON

Il 9 novembre 2022, dietro suggerimento del Generale Surovikin, il Ministro della Difesa russo Sergej Šojgu ha ordinato il ritiro dei soldati russi dislocati sulla sponda destra del fiume Dnepr, comprendente la città di Cherson e una serie di piccoli insediamenti di campagna. La decisione, trasmessa in diretta televisiva su Rossija 24 ma molto probabilmente già presa da tempo, è stata preceduta dall’evacuazione di circa 120.000 civili filorussi, che in caso di ritorno all’Ucraina sarebbero stati vittima di quella resa dei conti già vista nelle altre località riconquistate da Kiev, dalla distruzione di numerosi ponti e dalla rimozione dalle strade di Cherson di bandiere russe e del monumento al fondatore della città Grigorij Potëmkin, prevedibile vittima della cancel culture al gusto di boršč. Nel giro di due giorni, in maniera ordinata, i circa trentamila soldati russi di stanza nella regione si sono spostati sulla riva sinistra del fiume, dove già da tempo era in corso la preparazione di nuove trincee, e mentre i soldati ucraini si avvicinavano cautamente a Cherson, tra l’entusiasmo della popolazione filoucraina e le persecuzioni contro i residui filorussi, l’esercito russo ha fatto saltare in aria il Ponte Antonovskij, che collega Cherson con la sponda orientale del fiume, determinando così anche simbolicamente la fine della ritirata.

Perché le truppe russe si sono ritirate da Cherson? Fino a qualche giorno fa, ogni cessione della riva destra sembrava essere fuori discussione. Oltre che sul piano storico e simbolico, essendo la prima città fondata nell’ambito di quella colonizzazione – voluta dalla Zarina Caterina II – delle steppe dell’attuale Ucraina meridionale che ha portato alla nascita della Novorossija, la città di Gannibal[1] e Potëmkin costituisce anche una preziosa testa di ponte verso Nikolaev e Odessa, nonché la punta di un’area cuscinetto a protezione della riva sinistra del Dnepr e quindi della Crimea. Tra il marzo e il maggio di quest’anno, sulla riva destra del Boristene, le truppe russe hanno conquistato un territorio lungo fino a cento chilometri e largo quaranta, e le ripetute controffensive ucraine che si susseguono da giugno si sono concluse quasi sempre con un bagno di sangue, con pochi guadagni territoriali. Almeno in teoria, quindi, le truppe russe potevano ancora conservare la città, specie considerando che la maggioranza della popolazione locale sembrava sostenere il dominio russo e che l’arrivo della stagione invernale renderà molto difficile l’organizzazione di iniziative offensive. Eppure, almeno sul piano militare, quella di lasciare Cherson è stata una decisione nel complesso sensata.

Sotto questo aspetto, infatti, i vantaggi di tale decisione sono evidenti. Sebbene sufficienti a conservare la regione, i trentamila soldati russi di stanza a Cherson erano insufficienti per fare un’offensiva su Nikolaev, che avrebbe creato un nuovo confine difendibile lungo il Bug meridionale e l’Ingul. La linea del fronte, quindi, si trovava in una zona pianeggiante che ben si prestava ad eventuali controffensive ucraine. In più, a partire da luglio, il ponte Antonovskij è stato ripetutamente colpito dai missili HIMARS forniti dagli USA, che pur non distruggendolo lo hanno reso inagibile, costringendo i Russi ad utilizzare dei ponti di barche per rifornire la riva destra. Il Dnepr, la cui larghezza è chilometrica, è invece la più importante barriera naturale tra il Volga e i Carpazi, ed oltre ad essere facilmente difendibile consente anche di liberare soldati da utilizzare nell’oblast’ di Zaporož’e, dove secondo molti report è possibile un’offensiva ucraina in direzione di Berdjansk e Melitopol’, e nel Donbass, dove il fronte è pressoché stazionario da settimane, con l’obiettivo di congelare i fronti o di completare alcune conquiste attualmente in corso (in particolare Artemovsk/Bachmut e Avdeevka) in attesa che l’arrivo dei rinforzi, la paralisi della logistica ucraina derivante dalla distruzione metodica delle infrastrutture energetiche e la fine della stagione invernale rendano possibile il ritorno all’offensiva.

A queste considerazioni, di carattere tattico, ne vanno aggiunte due di carattere strategico. Se il motivo ufficiale della guerra è la liberazione del Donbass, e più in generale di quei territori ucraini dove la maggior parte della popolazione si identifica nel concetto di Russkij Mir, nella prassi i principali obiettivi strategici russi sono creare un corridoio terrestre tra la Crimea e il Donbass, prevenendo un possibile strangolamento della Tauride tramite il Mar Nero e il Mar d’Azov[2], garantire alla Crimea l’autosufficienza idrica ed energetica e creare un confine difendibile a ovest della Russia. Per quanto riguarda il secondo punto risulta piuttosto evidente come, piuttosto che Cherson, il principale obiettivo strategico russo nella Chersonščina sia la città di Novaja Kachovka, sulla riva est del Boristene, punto di partenza del canale responsabile di gran parte delle forniture d’acqua per la penisola. La scarsità d’acqua, dopo tutto, è da sempre uno dei maggiori problemi della Crimea, e lo stesso trasferimento della Crimea all’Ucraina del 1954, ufficialmente motivato dal trecentesimo anniversario di quel Trattato di Perejaslav che la storiografia russa celebra da sempre come l’atto della riunificazione tra Russia e Ucraina, fu motivato in gran parte dalla costruzione del canale di cui sopra, tramite il quale la penisola avrebbe goduto di massicce forniture d’acqua ucraina. A seguito dell’annessione russa della Crimea del 2014, ufficialmente per debiti sulle forniture precedenti, l’Ucraina bloccò il flusso di acqua attraverso il canale, colpendo duramente la produzione agricola, e le forniture idriche sono riprese soltanto il 26 febbraio 2022, a seguito dell’arrivo delle forze russe a Novaja Kachovka.

Il secondo punto, invece, è più complesso. La Russia, probabilmente, avrebbe preferito arrivare al Dnestr, il fiume che il generale Suvorov vedeva come il limes occidentale del Russkij Mir. Il Paese, in questo modo, avrebbe conquistato Nikolaev e Odessa, privato l’Ucraina di un accesso al mare e ricongiunto la Transnistria alla madrepatria. La Russia, in cambio, avrebbe probabilmente dato il benestare all’annessione romena della Moldavia, del Budžak e dell’oblast’ di Černivci, che fino al 1940 appartenevano alla Romania. La sconfitta nella Battaglia di Voznesensk, tuttavia, ha bloccato un iniziale tentativo russo di raggiungere il Dnestr, e il ritiro da Cherson col connesso abbattimento dei ponti sul Dnepr ha reso quasi impossibile che ciò avvenga. Qualora i nuovi confini si dovessero attestare al Dnepr, tuttavia, il Cremlino vedrebbe il bicchiere mezzo pieno: la Russia rinuncerebbe per sempre ad Odessa, con la sua natura cosmopolita intimamente legata all’epoca imperiale e teatro di uno degli episodi più drammatici delle proteste filorusse del 2014 (il Massacro di Odessa), ma un confine sul Dnepr, che nel corso della storia ha svolto in più occasioni il ruolo di limes del mondo russo, garantirebbe al Paese un controllo quasi totale sulle coste settentrionali del Mar Nero, creando una barriera quasi invalicabile a difesa della Crimea e prevenendo il già menzionato strangolamento della principale porta di accesso della Russia ai mari caldi.

Sul piano politico, tuttavia, la situazione è ben diversa. Il ritiro da Cherson, più ancora dell’attentato al Ponte di Crimea – i rapidi tempi di ricostruzione delle campate distrutte, peraltro in tempi di guerra e di sanzioni, possono diventare anzi un motivo d’orgoglio – e della sconfitta tattica nella parte orientale dell’oblast’ di Char’kov, rappresenta per la Russia un boccone molto amaro. A differenza di quest’ultima, secondo la legge russa la parte occidentale dell’oblast’ di Cherson è ufficialmente territorio russo, e lasciarla dopo che la maggior parte della sua popolazione ha scelto l’annessione alla Russia in un referendum certamente discutibile, ma che non sarebbe stato possibile qualora almeno una parte della popolazione non fosse stata d’accordo, costituisce una palese perdita di credibilità. E, sebbene le autorità russe abbiano parlato di un ritiro temporaneo, una riconquista di Cherson nei prossimi mesi è praticamente impossibile (oltre a non rispondere a quelle logiche militari che adesso sono prevalenti nella gestione del conflitto).

È possibile che la perdita di Cherson consenta alla Russia di mantenere Berdjansk e Melitopol’, la cui eventuale perdita avrebbe implicato un danno non solo di immagine ma anche strategico; tuttavia la decisione ha avuto un forte impatto sul morale dei soldati, spesso increduli della decisione, mentre agli occhi di quei centoventimila profughi che molto probabilmente non vedranno mai più le loro case rasenta il tradimento. I rischi del ritiro da Cherson in termini di stabilità politica sono al momento scarsi, ma non è escluso che in futuro possano aumentare. Questi profughi, assieme ai reduci e ai nazionalisti, potrebbero infatti diventare la base di un movimento di massa, mentre già oggi il Partito Comunista attualmente all’opposizione ha presentato un’interrogazione alla Duma su quello che definisce “un ritiro senza combattere”, e il filosofo Aleksandr Dugin, in una misteriosa dichiarazione poi cancellata, dopo aver definito il ritiro da Cherson “l’ultima linea rossa accettabile” avrebbe affermato che al sovrano che non protegge i suoi sudditi “spetta il destino del Re delle piogge”, ossia la lapidazione. Una velata minaccia a Putin? Ad essere nell’occhio del ciclone, al momento, sono soprattutto la passata gestione dell’invasione, nel complesso misurata, e le residue componenti filoccidentali della politica e della popolazione russa; ma, in una guerra di faglia come quella in corso, l’accusa peggiore è il tradimento, e qualora ci dovessero essere sconfitte di rilievo lo Zar potrebbe essere oggetto di teorie del complotto affini alla Dolchstoßlegende nella Germania di Weimar che potrebbero sul lungo andare minarne la credibilità.

D’altro canto, però, la decisione di ritirarsi dalla riva occidentale del fiume Dnepr è stata accolta molto favorevolmente proprio da quei “falchi” che a suo tempo avevano fortemente criticato la gestione dell’operazione speciale, la ritrosia a convocare la mobilitazione almeno parziale e l’assenza di una campagna sistematica di bombardamenti alle infrastrutture strategiche sul modello, ad esempio, dello shock and awe applicato dagli USA in Iraq. Per Evgenij Prigožin, fondatore del Gruppo Wagner, quella di lasciare Cherson è stata “una decisione difficile, che però mostra la disponibilità del comando ad assumersi la responsabilità della vita dei soldati”. Il ritiro delle truppe con perdite minime, aggiunge Prigožin, “non onora le armi russe, ma sottolinea le qualità del comandante, che ha agito come un uomo che non ha paura della responsabilità”. La dichiarazione è stata seguita a stretto giro da quella di Kadyrov, che ha sottolineato la difficoltà di far pervenire approvvigionamenti nell’area di Cherson e il fatto che sia molto più facile organizzare la difesa sulla sponda sinistra del Boristene. Dichiarazioni che dimostrano il capitale politico del Generale Armageddon, che dopo aver impresso una decisa sterzata all’andamento dell’operazione speciale bombardando in maniera chirurgica le infrastrutture energetiche ucraine ha potuto permettersi di prendere una decisione impopolare, ma nel complesso utile al raggiungimento degli obiettivi strategici russi.

È poi possibile che il ritiro da Cherson sia parte di un accordo non scritto tra Russia e Stati Uniti, come ha affermato l’analista geopolitico brasiliano Pepe Escobar. Questi, in un comunicato su Telegram del 10 novembre, ha parlato di un accordo tra il Consigliere per la Sicurezza statunitense Jake Sullivan e la sua controparte russa Nikolaj Patrušev, in base al quale il Dnepr diventerà il nuovo confine tra Russia e Ucraina. L’accordo, fatto nel corso delle numerose telefonate tra i due – l’ultima risalente a soli tre giorni dall’annuncio del ritiro –, sarebbe stato presentato da Sullivan a Kiev nel corso della sua ultima visita, e l’Ucraina, ormai completamente dipendente dagli aiuti militari occidentali, non dovrà che firmarlo. Certamente nel Donbass si continua a combattere, ma sul Dnepr i giochi potrebbero essere fatti; e, qualora quest’ipotesi si dovesse rivelare vera, il Boristene tornerà a svolgere quel ruolo di limes tra la Russia e l’Occidente cattolico e protestante che ha svolto nell’oltre un secolo intercorso tra la Tregua di Andrusovo del 1667 e la Partizione della Polonia del 1793. Se non de jure, quantomeno de facto.

Le prove a sostegno della tesi del ritiro negoziato sono varie. A differenza di Francia e Ucraina, che all’annuncio del ritiro russo hanno temuto una trappola, negli USA la notizia è stata accolta senza grande sorpresa: la CNN ha definito il ritiro “umiliante, ma non sorprendente”[3], e la stessa amministrazione sembrava essere in qualche modo al corrente di quanto stesse accadendo. Già dagli inizi di ottobre si è molto parlato di trattative segrete tra Washington e Mosca, mediate da un Paese arabo che molto probabilmente è l’Arabia Saudita. Le telefonate tra il consigliere per la sicurezza nazionale russo Nikolaj Patrušev e la sua controparte statunitense Jake Sullivan, dal contenuto non rivelato, sono state numerose negli ultimi tempi, l’ultima è avvenuta a soli tre giorni dall’annuncio del ritiro[4], e secondo il “Wall Street Journal” quest’ultimo avrebbe invitato Zelenskij ad adottare una posizione negoziale “realistica” nelle trattative con Putin[5]. All’indomani dell’annuncio del ritiro russo, inoltre, il Capo dello Stato Maggiore Congiunto statunitense Mark Milley ha affermato che uno stallo militare invernale apre una “finestra di opportunità” per delle trattative di pace tra Russia e Ucraina, sottolineando come sia ora prioritario per l’Ucraina cementare i guadagni ottenuti, auspicando in ogni caso che le parti in conflitto accettino il principio che non possono raggiungere i loro obiettivi manu militari[6]. E, a seguito del recente Incidente di Przewodów, la Russia ha lodato la “misurata” risposta statunitense per bocca del portavoce di Putin Dmitrij Peskov[7].

Segnali di de-escalation, quelli da parte statunitense, determinati da vari fattori. Il principale è l’impossibilità di sostenere l’Ucraina ai ritmi dei mesi scorsi “finché sarà necessario”, per menzionare uno slogan che abbiamo sentito troppo spesso nei mesi scorsi. Le scorte di armamenti dell’Occidente si vanno esaurendo, come sostiene anche un’analisi di Bloomberg[8], e secondo l’analista geopolitico Andrea Gaspardo il picco delle forniture occidentali è stato già raggiunto tra giugno e luglio, per poi iniziare un calo lento ma costante. Il tutto mentre il potenziale russo inespresso è ancora enorme[9]. Il secondo è di tipo geostrategico: il vero nemico degli USA, in questo momento, non è Mosca ma Pechino, e proseguire ad oltranza il conflitto in Ucraina significa privare di armi Taipei, molto più importante di Kiev per gli Stati Uniti. Non a caso Milley, che in Ucraina è una colomba, sul Mar Cinese diventa un falco e di recente ha avvertito il fu Celeste Impero di “prendere lezioni dall’Ucraina” qualora cercasse di invadere l’ex Cina Nazionale[10]. Il terzo, infine, è la tenuta del fronte europeo, dove è in aumento il malcontento dell’opinione pubblica contro una guerra che causa un forte aumento dell’inflazione e gravi problemi di approvvigionamento di materie prime, e in parte del fronte interno, dove in linea di massima si sostiene l’Ucraina ma la maggioranza non è contraria a concessioni alla Russia. La guerra, come ricordiamo, è anche il prodotto della volontà anglosassone di ridimensionare un importante concorrente e di ridurre l’autonomia strategica europea, con particolare riferimento ai rifornimenti di idrocarburi; ma, in un contesto come quello attuale, tirare troppo la corda significa creare un effetto boomerang.

Il tutto ha creato non pochi attriti con l’Ucraina, come spesso accade nelle guerre di faglia tra i partecipanti di primo e di secondo livello (quelli direttamente coinvolti nel conflitto e quelli che vi partecipano, direttamente o indirettamente, a sostegno di qualcun altro). Inizialmente sotterranee, legate al rifiuto statunitense di creare una no-fly zone sull’Ucraina e di mandarle armi a lungo raggio come il lanciamissili ATACMS, le tensioni sono emerse in maniera sempre più chiara a seguito di attentati come l’omicidio di Dar’ja Dugina a Mosca e l’autobomba sul Ponte di Crimea, che gli stessi servizi segreti statunitensi, tramite soffiate al “New York Times”, hanno attribuito a quelli ucraini, confermando così la versione di Mosca. Le tensioni sono di recente sfociate in un aperto contrasto tra Biden e Zelenskij, ad esempio quando quest’ultimo ha smentito la versione ufficiale dell’incidente di Przewodów insistendo che il missile in questione fosse russo e non ucraino, mentre vari esponenti del Partito Repubblicano e personalità come il popolare opinionista Tucker Carlson si interrogano apertamente sull’opportunità di sostenere quello che ormai è diventato un alleato problematico, in stile Noriega o come l’ultimo Presidente del Vietnam del Sud Nguyễn Văn Thiệu.

Anche qua, però, le ragioni militari sono diverse da quelle politiche, e non tutti sono d’accordo con Milley nello Stato che più di ogni altro ha il potere di far finire la guerra. Pur non smentendo direttamente il Capo di Stato maggiore, infatti, personalità quali Biden, Blinken e lo stesso Sullivan hanno dichiarato che non faranno pressioni sull’Ucraina affinché si giunga ad una soluzione diplomatica, sottolineando che “spetta all’Ucraina decidere quando andare alle trattative”[11]. Le pressioni per continuare la guerra sono ancora troppo forti: la mozione con cui il caucus progressista del Partito Democratico ha invitato l’amministrazione Biden ad aprirsi alla prospettiva di una soluzione negoziata del conflitto e di creazione di una nuova architettura per la sicurezza europea è stata prontamente ritirata, e il mancato trionfo alle ultime elezioni di medio termine di un Partito Repubblicano ormai fortemente trumpiano non è certo di aiuto. Lo stesso invito a Zelenskij a mostrare una maggiore flessibilità nelle trattative va visto in una prospettiva in cui gli USA puntano a mantenere intatto il fronte occidentale, specialmente in un Europa dove non tutti vogliono rischiare una guerra senza fine.

Non va inoltre dimenticato che il fine ultimo della politica statunitense in Ucraina, oggi come nel 2014, è “dare una lezione” alla Russia, che la costringa ad accettare quel ruolo di potenza regionale che Obama le aveva di fatto assegnato all’indomani della crisi della Crimea e che funga da monito a tutte quelle potenze che possono sfidare il primato statunitense, Cina in primis. A tutto ciò si aggiunga un altro obiettivo strategico: rompere il potenziale asse strategico tra la Russia e l’Unione Europea, basato sulla complementarità tra le risorse naturali della prima e l’industria della seconda. Obiettivo strategico condiviso peraltro dal Regno Unito, che a seguito della Brexit ha aumentato le sue distanze da Francia e Germania e ha visto nei Paesi della cosiddetta “Europa di Mezzo” (in particolare Polonia, Paesi Baltici, Finlandia e Romania) una preziosa opportunità per creare un cuneo tra Russia e Germania, indebolendo entrambe, e ritagliarsi una sfera di influenza all’interno dell’Unione Europea. Il Regno Unito, in questo frangente, è ancora più radicale degli States, avendo in gioco interessi strategici diretti, e nello scorso aprile fu proprio l’allora Primo Ministro Boris Johnson a far fallire l’ormai imminente incontro tra Putin e Zelenskij, preludio alla stipula di un accordo di pace[12]. La spirale stagflazionista in cui è entrato il Regno Unito, almeno in parte legata alla guerra, potrebbero spingerlo a ridurre gli aiuti all’Ucraina, già oggi nettamente inferiori a quelli statunitensi[13], e forse anche a ridurre le spese militari, ma almeno una parte dell’amministrazione e degli apparati USA ha interesse a continuare la guerra, e lo stesso invito a Zelenskij a mostrare maggiore flessibilità nelle trattative va visto anche in quest’ottica. Il Presidente ucraino deve mostrarsi aperto al dialogo anche per rendere più accettabili le forniture di armi all’Ucraina agli occhi dell’opinione pubblica, soprattutto in Paesi come Italia, Francia e Germania.

Di conseguenza, è piuttosto difficile che il ritiro da Cherson sia la diretta conseguenza di trattative sotterranee. La presenza di contatti ad alto livello tra Russi e Statunitensi, ormai non più così segreti, è un dato di fatto, e non è improbabile che questi ultimi fossero al corrente della decisione russa. Ma i fattori militari che hanno influenzato la decisione russa hanno un peso non marginale, mentre al momento un eventuale accordo sotto traccia sui nuovi confini dell’Ucraina verrebbe al momento visto come un tradimento tanto a Washington quanto a Mosca. Ciò, tuttavia, non nega il fatto che la pace in Ucraina sarà quasi certamente il risultato di trattative dirette tra Russia e Stati Uniti, magari con l’intermediazione di una Turchia che pur essendo un membro NATO è in buoni rapporti con Mosca, e probabilmente implicherà un intero riassetto dell’Europa orientale, con riferimento ad almeno una parte degli altri conflitti congelati che coinvolgono la regione. E, in un contesto in cui la vittoria totale di una delle parti è al momento improbabile, le decisioni emotivamente difficili sono inevitabili: come scrisse Huntington nello Scontro di Civiltà, dopo tutto, “in una guerra di faglia il tradimento della propria razza è il prezzo da pagare per raggiungere la pace”[14]. Negli Accordi di Minsk la Russia ha dovuto tenere a freno l’irredentismo delle Repubbliche Popolari di Doneck e Lugansk, che hanno dovuto accettare, in linea di principio, l’idea di un reintegro nello Stato ucraino e la rinuncia alle città riconquistate dagli Ucraini nel corso della guerra, come Slavjansk e Lisičansk. Adesso, molto probabilmente, gli agnelli sacrificali saranno la Transnistria – che verosimilmente tornerà alla Moldavia – e la componente filorussa della popolazione di Cherson. Sull’altro lato del fronte, lo slogan “nulla sull’Ucraina senza l’Ucraina” si rivelerà al momento opportuno come un mero strumento retorico: nei conflitti di faglia la pace è il frutto di trattative tra i partecipanti di secondo e terzo livello, mentre i diretti interessati hanno un coinvolgimento limitato, e non di rado la pace viene di fatto imposta a dei contendenti ormai stremati, come dimostrano i casi di Bosnia e Irlanda del Nord. Il boccone amaro, molto probabilmente, sarà la rinuncia ai territori abitati da popolazioni filorusse, de facto se non de jure.

In linea di massima, la risoluzione del conflitto dovrebbe passare attraverso tre fasi: 1. La riduzione di intensità (o, in alternativa, una vittoria decisiva per una delle due parti); 2. La coreanizzazione del conflitto, con il cessate il fuoco e il congelamento delle posizioni al momento dello stesso; 3. Un accordo di pace.

Tuttavia, affinché si giunga a questo punto, sarebbe opportuno che tutte le parti arrivassero ad un punto in cui tutte le parti accettino un compromesso. “La divisione della Bosnia tra un 51% a Croati e Musulmani e un 49% ai Serbi”, scrisse sempre l’autore de Lo Scontro di Civiltà, “non era praticabile nel 1994, quando i Serbi controllavano il 70% del Paese, ma lo divenne allorché le offensive croate e musulmane ridussero il controllo serbo a meno della metà del territorio”[15]. Non molto diversa è la situazione ucraina attuale. Qualcosa di non molto diverso sta accadendo in Ucraina, e non c’è da stupirsi se il nodo principale non è l’adesione alla NATO (in linea di massima, le due parti si sono già accordate sul no dell’Ucraina alla NATO in cambio di garanzie di sicurezza occidentali), ma le questioni territoriali. La richiesta russa di riconoscere l’annessione della Crimea, delle Repubbliche del Donbass e delle oblasti di Zaporož’e e Cherson è al momento inaccettabile per l’Ucraina, che negli ultimi due mesi ha riguadagnato non poco terreno. Equamente inaccettabile, questa volta per la Russia, è la richiesta ucraina di un ritiro incondizionato dalle regioni contese come precondizione per l’avvio di trattative di pace, visto che il Paese, oltre a controllare ancora circa il 20% del territorio ucraino, nel prossimo futuro potrebbe vedere il vento cambiare a suo favore.

È probabile, pertanto, che una vera tregua si avrà soltanto se la paralisi della logistica ucraina determinerà una serie di sconfitte militari che portino l’Ucraina e i Paesi occidentali ad accettare l’idea che un compromesso è preferibile alla continuazione della guerra (l’altra opzione, ossia un collasso delle forze russe, è improbabile). Questo, molto probabilmente, avverrà non prima della prossima primavera, e anche allora il passaggio dalla tregua alla pace non sarà immediato. Nelle guerre di faglia, solitamente, le tregue sono essenzialmente uno strumento per leccarsi le ferite e riorganizzarsi, e gli Accordi di Minsk, che in pratica sono stati una tregua armata, non furono un’eccezione[16]. Una vera pace dovrebbe basarsi, oltre che su un generale riassetto dell’Europa centro-orientale, anche sulla ricostruzione dei rapporti russo-ucraini sulla base di nuovi principi e sul riconoscimento da entrambe le parti delle peculiari dinamiche interne all’Ucraina, sulla falsariga del preambolo di quegli Accordi del Venerdì Santo che misero fine al conflitto nordirlandese. Il riconoscimento da parte russa del fatto che, pur in un contesto di radici comuni, la maggior parte del popolo ucraino desidera una maggiore integrazione con l’Occidente, e il riconoscimento da parte ucraina che una sostanziale minoranza della popolazione del Paese desidera invece l’unione con la Russia o quanto meno relazioni strette con la Grande Madre, al momento rappresentano una sconfitta per entrambe le parti; ma, a meno di un collasso di una delle due parti, costituiscono il presupposto indispensabile per la costruzione di una pace più o meno permanente.

NOTE
[1] Il riferimento è a Ivan Gannibal, figlio di Abram (il “nero di Pietro il Grande” dell’opera di Puškin, di cui era pronipote) e ufficiale dell’esercito zarista.

[2] Il riferimento è alle basi navali che l’Ucraina avrebbe voluto realizzare nel Mar Nero e nel Mar d’Azov, con l’ausilio britannico.

[3] https://edition.cnn.com/

[4] https://www.reuters.com/

[5] https://english.almayadeen.net/

[6] https://apnews.com/

[7] https://www.ndtv.com/

[8] https://www.bloomberg.com/

[9] https://www.youtube.com/

[10] https://www.scmp.com/

[11] https://edition.cnn.com/

[12] https://www.pravda.com.ua/

[13] https://www.ifw-kiel.de/

[14] S.P. Huntington, Lo Scontro di Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milano 1996, p. 445.

[15] Ibidem, p. 446.

[16] Petro Porošenko, Presidente dell’Ucraina all’epoca dell’accordo, avrebbe in seguito affermato che gli Accordi di Minsk servivano all’Ucraina per dare 4-5 anni di tempo per riorganizzare le forze secondo gli standard NATO. La Russia, dal canto suo, non ha mai abbandonato l’idea di riportare l’Ucraina sotto la sua influenza.

-di Giuseppe Cappelluti-

#TGP #Russia #Ucraina#Geopolitica

[Fonte: https://www.eurasia-rivista.com/la-guerra-dopo-cherson/]
 
Nel febbraio di quest'anno, nelle settimane precedenti all'ingresso delle truppe russe in Donbass si discettava su giornali e talk show delle prospettive possibili.

A chi invitava a considerare come sensata, e anzi conveniente, la rinuncia dell'Ucraina all'ingresso nella Nato, l'accettazione di uno statuto di neutralità, e la concessione di un grado di autonomia amministrativa alle province russofone (come da accordi di Minsk II) - sempre nell'ambito dello stato ucraino, a questi gli esperti di regime ribattevano rabbiosamente che era una prospettiva inaccettabile, che ne andava della sovranità ucraina, che uno stato doveva avere il diritto di scegliere le proprie alleanze militari. (NB: l'autonomia amministrativa dell'Alto Adige è motivata dalla presenza del 69% di popolazione germanofona; nelle zone di Donetsk e Lugansk la popolazione russofona prima della guerra superava il 90%).

E ancora all'indomani dell'invasione, c'era chi raccomandava di intavolare il più rapidamente possibile trattative di pace invece di inviare armi, perché questo avrebbe prolungato indefinitamente il conflitto, e ciò sarebbe stato pagato duramente dagli ucraini in primo luogo e dall'Europa tutta in secondo luogo.

A questi gli stessi esperti a molla rispondevano stizziti che era una questione di sovranità, che c'era un aggressore e un aggredito, che non era il momento delle trattative, che l'Europa ne sarebbe uscita più forte di prima (ho un ricordo distinto di un noto giornalista e di un ex ambasciatore in uno studio televisivo che sostenevano con veemenza queste tesi in risposta al sottoscritto.)

Oggi, a nove mesi di distanza, l'Ucraina comincia ad apparire come un cumulo di macerie congelate e 6 milioni di profughi ucraini sono già arrivati nell'Unione Europea (la più grande crisi di rifugiati in Europa dal 1945) e almeno altrettanti si stanno preparando.

Per il solo anno in corso la stima dei costi vivi per l'ospitalità europea ammonta a 43 miliardi di euro. I morti al fronte sono nell'ordine di grandezza del centinaio di migliaia.

La colossale fornitura di armi da parte della Nato (tre volte il budget annuale russo) ha preso in buona parte la strada del mercato nero, dove si trovano oramai a prezzo di saldo missili terra-aria, mortai, mitragliatrici pesanti, ecc. (la criminalità organizzata se ne gioverà per decenni).

Quanto alla "sovranità" ucraina che andava difesa a tutti i costi, anche i più distratti sanno oggi che era una fiaba da tempo: è noto il supporto e sostegno americano al colpo di stato di Maidan, così come sappiamo delle entrate a gamba tesa dell'ex presidente Biden sui giudici ucraini che perseguivano gli affari ucraini del figlio Hunter.

Quanto all'idea che l'Ucraina "sovrana" non rappresentasse alcuna minaccia e non ci fosse nessuna concreta possibilità che diventasse parte della Nato, nel frattempo è emerso serenamente che da dopo gli accordi di Minsk II (2015) la Nato stava addestrando l'esercito ucraino, rifornendolo di armi, costruendo fortificazioni, e che la firma degli accordi era stata solo un espediente per prendere tempo e consentire all'Ucraina di rafforzarsi militarmente (testimonianza diretta dell'ex presidente Poroshenko, oltre che di diversi ufficiali USA).

Sempre nell'ottica della tutela della sovranità ucraina, nel frattempo la Russia si è stabilizzata in buona parte dei territori conquistati, Mariupol è stata addirittura già parzialmente ricostruita, si sono tenuti referendum di annessione, e la prospettiva che questi territori ritornino in mano ucraina è ritenuta risibile persino dai vertici americani.

Il conflitto si è oramai caratterizzato esplicitamente come un conflitto tra la Nato e la Russia, anche se nessuno vuole che ciò sia riconosciuto ufficialmente perché rappresenterebbe una deflagrazione mondiale. Sul territorio ucraino combattono oramai in sempre maggior misura "volontari" stranieri, con istruttori Nato, armamenti Nato, finanziamenti dei paesi Nato. L'esercito regolare ucraino ha perduto da tempo le truppe più "combat-ready" e rappresenta oramai solo la carne da macello per sanguinose sortite periodiche.

Intanto l'Europa è in piena stagflazione, con la progettazione in corso di nuovi stabilimenti da parte del comparto industriale che sta già avvenendo fuori dai confini europei.

Infatti il taglio politico netto avvenuto nei confronti della Russia ha creato una crisi terminale nell'approvvigionamento di energia e materie prime, giacché tutti i principali attori non direttamente subordinati agli USA stanno assaporando per la prima volta la possibilità di far valere il proprio potere contrattuale di fornitori di materie prime - potere contrattuale accresciuto enormemente con il quasi-blocco degli approvvigionamenti da Russia e Ucraina. Senza energia e materie prime l'Europa è un museo morente.

Come prevedibile e previsto da molti sin da febbraio, la strada presa nove mesi fa sta conducendo esattamente dove doveva condurre.

Non abbiamo "salvato gli ucraini", ma abbiamo alimentato e prolungato un processo che ne sta cancellando il paese e ne ha fatto morire decine di migliaia.

Non abbiamo "salvato la sovranità ucraina", sia perché essa era già quasi inesistente (ed oggi è ridotta a pupazzi e attori), sia perché lo stato ucraino si è dissolto, un quarto della sua popolazione è migrata, e le perdite territoriali saranno quasi certamente definitive.

In compenso abbiamo sventrato quel poco che rimaneva in piedi dell'Europa, che sta perdendo in tempi rapidissimi il suo unico vero "asset" competitivo, cioè le capacità di trasformazione industriale (in assenza di fonti energetiche abbondanti e a buon prezzo questa direzione è senza ritorno).

Ma magari qualcuno potrebbe sperare che, dopo tutto, a un tracollo spesso segue una palingenesi, e che magari sarà la volta buona, no?

Solo che a mettere la vera pietra tombale su qualsiasi speranza di rinascita sta la rilevazione del tappo strutturale che blocca ogni possibilità di consapevolezza e rinnovamento: tutto il circo mediatico degli "esperti" e degli "accreditati", tutta la banda di falliti di successo, di paraninfi del potere che creano e plasmano la famosa "opinione pubblica" sono lì, fermi in sella, e continueranno la loro azione di avvelenamento, manipolazione e inganno a tempo indefinito.

di Andrea Zhok

#TGP #Russia #Ucraina #Europa #USA #Geopolitica

Fonte: https://www.facebook.com/andrea.zho...J6eWejDCDhuW5LuNr49yGMM4Z2bsBmLUhohT22wWWMQHl
 
Lo sviluppo della Marina Nazionale Cinese

Negli ultimi 30 anni la Cina è diventata una vera e propria potenza economico-politica, in questo contesto il governo di Pechino, per poter espandere la propria influenza globale ha finanziato e sviluppato il proprio esercito nazionale (ELP). Il corpo militare maggiormente coinvolto in tale sviluppo è stato la Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione. Oggi la Marina Cinese si configura come la più grande al mondo in termini di mezzi disponibili, tale espansione dal 2020 ha infatti portato alla costruzione di circa 350 navi militari cinesi.

La Cina inizialmente si afferma come potenza difensiva per poi successivamente evolversi ed espandersi oltre i propri confini. Negli anni 70 infatti mentre l’URSS iniziava ad imporre la propria potenza nel Pacifico, la Cina per paura di un’ingerenza militare sovietica comprese l’importanza della difesa delle coste del Pacifico.

Con il successivo avvento di Deng al potere, negli anni 80, si passò da una strategia marittima basata sulla difesa delle coste ad una difesa off shore. L’ammiraglio Lin Huaquing, considerato il padre delle strategie marittime cinesi contemporanee e comandante della flotta cinese dal 1982 al 1987, gettò le basi dell’“Off shore defence” basata su 3 punti peculiari attraverso i quali la marina militare cinese si sarebbe dovuta evolvere: 1) implementazione della difesa costiera; 2) controllo della zona economica esclusiva 3) estensione dell’area strategica cinese oltre Malacca e il Golfo del Bengala.

Questa strategia, seppur concentrata sulla “Two Island Chain Strategy” e dunque sul controllo delle coste Pacifiche e del Mar Cinese Meridionale, faceva riferimento ad una dimensione internazionale e prospettava l’espansione del sea power cinese, sviluppo che avrebbe poi portato alla futura competizione con la controparte americana.

La strategia marittima cinese attuale fa riferimento alle dottrine mahaniane secondo le quali una nazione per poter accrescere la propria potenza dovrebbe incrementare il proprio potere marittimo in ambito globale. Tali dottrine sono infatti state incluse nel cosiddetto Libro Bianco cinese della difesa del 2015, da cui si comprende lo spostamento da una visione “maoista”, e dunque basata sulla terra ferma, ad una visione “mahaniana” basata sul controllo dei mari.

La corrente strategia marittima cinese è basata su due importanti direttrici:

1) L’affermazione delle proprie pretese territoriali nel Mar Cinese Meridionale ed Orientale;

2)L’affermazione della propria potenza nell’Oceano Indiano.

Nel primo caso il governo di Pechino avanza rivendicazioni storiche sul Mar Cinese Meridionale risalenti ad alcune esplorazioni navali del XV secolo ma il reale interesse è rivolto all’importanza economico-strategica di questa area, data la presenza dello stretto di Malacca. Le controversie riguardano due arcipelaghi protagonisti di opposte rivendicazioni da parte di Stati costieri dell’Asia Orientale: le isole Paracel, rivendicate per intero da Cina, Taiwan e Vietnam; e le isole Spratly, contese tra Cina, Taiwan, Vietnam, Filippine, Brunei e Malaysia.

Il Mar Cinese Meridionale ed Orientale costituisce una vera e propria zona di tensione tra Stati Uniti d’America, Taiwan, Giappone e Cina. L’obiettivo cinese è di estendere il proprio dominio militare sull’intero mare e di espandere la propria sovranità soprattutto sulle Isole Senkaku (da tempo contese con il Giappone) e su Taiwan (la cui capitale è leader nella produzione di semiconduttori). In quest’ottica nel 2022 la Cina ha completamente militarizzato ben 3 isole artificiali precedentemente costruite dal governo di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.

L’ulteriore obiettivo strategico marittimo messo in atto dalla Cina è il controllo dell’Oceano Indiano poichè rappresenterebbe per il governo cinese la possibilità di espandere il proprio sea power e di isolare l’India attraverso la cosiddetta “Pearl String Strategy”. Tale strategia si basa sull’acquisizione di porti molto ravvicinati all’India finalizzati alla totale emarginazione di questa potenza. Un esempio di questi porti sono il porto Gwadar in Pakistan, il porto Hambantota in Sri Lanka e il porto di Chittagong in Bangladesh. Tali porti, oltre ad avere un’importanza commerciale per la Cina, sono destinati ad un uso duale e dunque anche ad una possibile futura militarizzazione.

L’elezione di Xi Jinping nel 2013 a Presidente della Repubblica Popolare Cinese ha determinato una vera e propria riforma radicale dell’Esercito Popolare Cinese e un conseguente sviluppo della Marina Cinese. Xi Jinping ha sottolineato l’importanza dello sviluppo della tecnologia nell’ambito militare, in particolare nel campo della Cybersecurity e AI.

Nel 2021 è stato incrementato il budget per le spese militari del 6,8% e nei prossimi cinque anni è stato previsto un aumento di oltre il 7% della spesa per la ricerca e lo sviluppo di scienza e tecnologia.

La Marina Cinese dal 2017 ha conosciuto una vera e propria espansione, in termini numerici soltanto nel 2021 sono state immesse in servizio ben 22 navi da combattimento. Nel dettaglio, sono state progettate 2 grandi unità d’assalto anfibio Type 075, 3 cacciatorpediniere Type 055 (in realtà, per caratteristiche/capacità operative, degli incrociatori), 9 corvette Type 056A, un sottomarino lanciamissili balistici a propulsione nucleare Type 094A e 7 cacciatorpediniere Type 052D.

Nel giugno del 2022 è stata varata la prima super portaerei cinese (classe Type 003). La nave denominata Fujian (CV-18) è la terza porta aerei della Marina Cinese in grado di ospitare velivoli ad ala fissa. La Type 003 presenta però un vantaggio rispetto alle altre classi di portaerei poiché ha una maggior capacità riguardante la sua componente aerea imbarcata. Inoltre, questa nave presenta un meccanismo di catapulta magnetica simile alle rivali navi statunitensi. Ma se i motori di quest’ultime sono costruiti a propulsione nucleare, la Type 003 presenta ancora motori a propulsione convenzionale. Probabilmente questa nave sarà destinata ad operazioni nel Pacifico, le quali saranno facilitate dai numerosi progressi compiuti dal governo di Pechino nel settore della difesa cinese nello sviluppo di aerei da combattimento, droni, cacciatorpediniere e navi logistiche.

Il principale obiettivo di Xi Jinping entro il 2050 è trasformare la Cina in grande potenza militare in grado di poter rivaleggiare con la Marina statunitense. Tale obiettivo sarà perseguito facendo leva sullo sviluppo di tecnologie da poter applicare in ambito strategico-militare.

In questa corsa agli armamenti e alle tecnologia la Cina ha aumentato le collaborazioni accademiche con l’Europa. Il progetto di inchiesta #ChinaScienceInvestigation stima, infatti, che all’interno dell’Unione Europea ci siano 3000 ricerche accademiche basate sullo sviluppo delle tecnologie con scienziati legati all’esercito cinese. In tale classifica l’Italia si colloca al settimo posto contando ben 123 collaborazioni con le istituzioni militari cinesi. Queste collaborazioni preoccupano gli Stati Uniti d’America e le intelligence europee poiché si teme un’ingerenza cinese nell’apparato politico dell’Unione Europea, nonostante la Cina abbia dichiarato che lo sviluppo della difesa nazionale cinese sia finalizzato ad esigenze di sicurezza ed alla crescita delle forze pacifiche mondiali.

-di CHIARA PECORARO-

#TGP #Cina #Marina #Geopolitica

[Fonte: https://www.geopolitica.info/sviluppo-marina-nazionale-cinese/]
 
Fired AP Reporter Who ‘Risked Triggering WWIII’ Actually Did Nothing Wrong
NOVEMBER 25, 2022 GEOPOLITICS101 LEAVE A COMMENT
On Tuesday we reported that the Associated Press had fired reporter James LaPorta, two days before his birthday, over an erroneous report which cited a ‘senior US intelligence official,’ who claimed that a Russian missile fired into Poland had killed two civilians.

If true, the bombshell development could have potentially triggered ‘Article 5‘ – the mutual defense agreement between NATO members, risking WWIII.

AP later retracted the story after it was revealed that Ukraine fired the missile, and the outlet issued the following correction which pinned blame on the anonymous intelligence official;

In earlier versions of a story published November 15, 2022, The Associated Press reported erroneously, based on information from a senior American intelligence official who spoke on condition of anonymity, that Russian missiles had crossed into Poland and killed two people. Subsequent reporting showed that the missiles were Russian-made and most likely fired by Ukraine in defense against a Russian attack.

Five days after the report, LaPorta was fired. But Slack messages obtained by Semafor reveal that he did nothing wrong – aside from working for AP in the first place.

The messages begin with LaPorta passing along a tip from a “senior American intelligence official” who was “vetted by Ron Nixon.” Nixon is an Associated Press vice president.

Next, editor Lisa Leff asked if the wire service could run with the narrative despite having a single source – which is against AP‘s rules for anonymous sources.

“that call is above my pay grade,” LaPorta replied.

Another AP reporter, Vanessa Gera, suggests moving forward with the report, writing, “I can’t imagine a US intelligence official would be wrong on this.“

Leff then asks PaPorta if he is “in position to work up an urgent” – to which he replies, “No, I’m actually at a doctor’s appointment. What I passed is all I know at the moment.”

Then, Gera and Leff decide to run with it.

In short, LaPorta – a former USMC infantryman, was fired after forwarding a tip from a vetted source, and then demurring when asked if he thought they should run with it.

He has since been ordered not to comment on the situation, saying that he “would love to comment on the record, but I have been ordered by the AP to not comment.” As such, Zero Hedge has not reached out for comment.

Oddly (or maybe there’s a perfectly good reason for it), journalist John Leichester’s name was also on the byline of the article in question despite being nowhere in the slack conversation – though he wasn’t fired.

While LaPorta said Nixon had vetted his source, Nixon later said he did not know that the source was being cited for the missile story, according to people who spoke to David Bauder, an Associated Press reporter.

The Associated Press has taken additional disciplinary action but declined to say against whom that action was taken. There have been no reports of any person besides LaPorta losing a job, including John Leicester, who was also listed on the byline.

According to Bauder, Leicester was not involved with the anonymously sourced material being placed into the story. –The Epoch Times

Most importantly, however, who was the anonymous ‘senior US intelligence official’ that fed LaPorta a false narrative which risked WWIII?

https://geopolitics.co/2022/11/25/f...-triggering-wwiii-actually-did-nothing-wrong/
 
The Corporate Media Deference That Endangers Us All
NOVEMBER 25, 2022 GEOPOLITICS101 1 COMMENT
The Associated Press journalist who reported a U.S. intelligence official’s false claim that Russia had launched missiles at Poland last week has been fired.

As we discussed previously, AP’s anonymously sourced report which said, “A senior U.S. intelligence official says Russian missiles crossed into NATO member Poland, killing two people” went viral because of the massive implications of direct hot warfare erupting between Russia and the NATO alliance.

AP subsequently retracted its story as the mainstream political/media class came to accept that it was in fact a Ukrainian missile that had struck Poland.

AP’s firing of reporter James LaPorta looks at this time to be the end point of any accountability for the circulation of this extremely dangerous falsehood.

AP spokesperson Lauren Easton says no disciplinary action will be taken against the editors who waved the bogus story through, and to this day the public has been kept in the dark about the identity of the U.S. official who fed such extremely egregious misinformation or disinformation to the public through the mainstream press.

It is utterly inexcusable for AP to continue to protect the anonymity of a government official who fed them such a profoundly significant falsehood.

This didn’t just affect AP staff, it affected the whole world; we deserve to know what happened and who was responsible, and AP has no business obstructing that knowledge from us.

LaPorta’s firing looks like this is yet another instance where the least powerful person involved in a debacle is being made to take the fall for it.

A powerful intelligence official will suffer no consequences for feeding false information to the press — thereby ensuring that it will happen again — and no disciplinary action will be taken against LaPorta’s superiors, despite the absolute buffoonery that subsequent reporting has revealed on their part.

In an article titled “Associated Press reporter fired over erroneous story on Russian attack,” The Washington Post reports the following (emphasis added):

“I can’t imagine a US intelligence official would be wrong on this.”

Can you imagine not being able to imagine a U.S. intelligence official being wrong?

This would be an unacceptable position for any educated adult to hold, much less a journalist, still less an editor, and still less an editor of one of the most influential news agencies on earth.

These are the people who publish the news reports we read to find out what’s happening in the world. This is the baby-brained level of thinking these people are serving the public interest with.

Antiwar commentator Daniel Larison writes the following of the AP editor’s shocking quote:

“Skepticism about official claims should always be the watchword for journalists and analysts. These are claims that need more scrutiny than usual rather than less. If you can’t imagine that an intelligence official could get something important wrong, whether by accident or on purpose, you are taking far too many things for granted that need to be questioned and checked out first.

Intelligence officials of many governments feed information to journalists and have done so practically ever since there was a popular press to feed information to, and that information certainly should not be trusted just because an official source hands it over. It is also always possible for intelligence officials to just get things wrong, whether it is because they are relying on faulty information or because they were too hasty in reaching conclusions about what they think they know.

Whether the AP’s source was feeding them a line or was simply mistaken, a claim as provocative and serious as this one should have been checked out much more thoroughly before it got anywhere near publication. The AP report in this case seems to have been a combination of a story that was “too good to check” and a culture of deference to official sources in which the editors didn’t feel compelled to make the effort to check.”

“Skepticism about official claims should always be the watchword for journalists and analysts. These are claims that need more scrutiny than usual rather than less. If you can’t imagine that an intelligence official could get something important wrong, whether by accident or on purpose, you are taking far too many things for granted that need to be questioned and checked out first.

Intelligence officials of many governments feed information to journalists and have done so practically ever since there was a popular press to feed information to, and that information certainly should not be trusted just because an official source hands it over. It is also always possible for intelligence officials to just get things wrong, whether it is because they are relying on faulty information or because they were too hasty in reaching conclusions about what they think they know.

Whether the AP’s source was feeding them a line or was simply mistaken, a claim as provocative and serious as this one should have been checked out much more thoroughly before it got anywhere near publication. The AP report in this case seems to have been a combination of a story that was “too good to check” and a culture of deference to official sources in which the editors didn’t feel compelled to make the effort to check.”


Indeed, the only reason the press receive such explicit protections in the U.S. Constitution is because they are supposed to hold the powerful to account.

[In his 1971 opinion in the Pentagon Papers case, U.S. Supreme Court Justice Hugo Black wrote: “In the First Amendment the Founding Fathers gave the free press the protection it must have to fulfill its essential role in our democracy. The press was to serve the governed, not the governors. The Government’s power to censor the press was abolished so that the press would remain forever free to censure the Government.”]
If the editors of a wildly influential news agency will just unquestioningly parrot whatever they are fed by government officials while simultaneously protecting those officials with anonymity, they are not holding the powerful to account, and are in fact not meaningfully different from state propagandists.

They are state propagandists. Which is probably why they are sipping lattes in the AP newsroom while Julian Assange languishes in prison.

As Jacobin’s Branko Marcetic observed, this is far from the first time AP has given the cover of anonymity to US government officials circulating bogus claims of potentially dangerous consequence, like the time it reported an official’s evidence-free assertion which later proved false that Iran had carried out an attack on four oil tankers off the coast of the United Arab Emirates, or the time it let another one anonymously claim that “Iran may try to take advantage of America’s troop withdrawals from Iraq and Afghanistan.”

So to recap —

Powerful government official who fed AP a false story: Zero accountability
AP editor who asked if a report should immediately be published upon receipt of the story: Zero accountability
Second AP editor who says she can’t imagine a U.S. intelligence official would be wrong: Zero accountability
Journalist who wrote the story: Singular accountability
In a sane society, power and responsibility would go hand in hand. A disaster would be blamed on the most powerful people involved in its occurrence. In our society it’s generally the exact opposite, with the rank-and-file taking all of the responsibility and none of the power.

Our rulers lie to us, propagandize us, endanger us, impoverish us, destroy journalism, start wars, kill our biosphere and make our world dark and confusing, and they suffer no consequences for it.

We cannot allow them to continue holding all of the power and none of the responsibility. This is backwards and must end.



https://geopolitics.co/2022/11/25/the-corporate-media-deference-that-endangers-us-all/
 
“LA RUSSIA È LONTANA DALL’ARRENDERSI”: L’ASSENZA DI UNA SUA SCONFITTA AFFRETTA I COLLOQUI DI PACE.

(NDR - La seguente analisi può presentare diversi passi controversi, ma fornisce alcuni spunti di riflessione interessanti dato che raccoglie il punto di vista di un autore proveniente dal mondo arabo. Ci scusiamo in anticipo per la traduzione non perfettamente scorrevole.)

“L’Ucraina ha lo slancio, ma la Russia è ben lontana dall’arrendersi”. È quanto ha dichiarato il ministro della Difesa britannico Ben Wallace, dopo la ritirata dell’esercito russo dalla sponda occidentale di Kherson. Non c’è dubbio che il ritiro di un esercito di una superpotenza dalla capitale di Kherson sia considerato una perdita significativa e un insulto per loro – anche se la Russia sta combattendo contro quaranta Paesi riuniti in una sala operativa militare che dirige la guerra nella base statunitense di Ramstein, in Germania. Inoltre, il ritiro è avvenuto una settimana dopo che il presidente Vladimir Putin ha dichiarato la regione di Kherson parte della Russia. Tuttavia, l’uscita dalla riva occidentale del fiume Dnipro, sul lato più significativo della provincia di Kherson, sulla riva occidentale, ha permesso alla Russia di fortificare la sua presa su tutti i territori occupati. Potrebbe anche aprire la strada a un negoziato per il cessate il fuoco. Washington ha bisogno di consolidare le sue conquiste militari prima di andare al tavolo dei negoziati e insistere sulla cessazione delle ostilità.

Gli Stati Uniti stanno già discutendo i piani di negoziazione dopo essersi resi conto di aver teso una trappola alla Russia, ma di esserci caduti insieme agli alleati occidentali. La Russia non si lascia scoraggiare e utilizza circa il 20% del suo personale militare professionale (1,1 milioni di uomini). Ha reclutato ulteriori forze mobilitate e sta mantenendo il resto dell’esercito per una potenziale guerra più ampia contro la NATO. Le perdite umane russe sul campo di battaglia ucraino sono state ricostruite da una nuova ondata di mobilitazione, non dall’esercito professionale. Il Cremlino è impegnato a ricostruire un esercito moderno per far fronte alle armi e alle tattiche degli eserciti occidentali e ad aumentare la produzione di droni, missili e armi più avanzate. Questa guerra sembra necessaria e preziosa per il Cremlino a molti livelli, tra cui il rinnovamento dell’esercito che non si è confrontato con un’esperienza unica per decenni, l’affrontare le nuove sfide belliche e il trarre lezioni dagli ultimi nove mesi di guerra contro le tattiche di combattimento della NATO in Ucraina.

Non c’è dubbio che sia il Presidente Joe Biden che Vladimir Putin abbiano fatto valutazioni sbagliate all’inizio del confronto in Ucraina, di come si sarebbe sviluppato e di come sarebbe finito. L’amministrazione statunitense non vedeva l’ora di vedere la Russia coinvolta in un lungo pantano in Ucraina, simile a quello sovietico in Afghanistan nel 1979, ed era fiduciosa che Mosca sarebbe stata sconfitta. Questo è quanto ha rivelato uno Stato membro della NATO e dell’UE, il primo ministro ungherese Viktor Orban, affermando che gli Stati Uniti credevano che Putin sarebbe stato rovesciato e che l’economia russa sarebbe stata distrutta a causa delle sanzioni occidentali e del suo ruolo in Ucraina. Le aspettative di Biden sono ben lungi dall’essere soddisfatte e le sanzioni UE/USA “non cambiano il corso della guerra e gli ucraini non ne usciranno vincitori”. Tuttavia, gli Stati Uniti sono riusciti a vendere il loro gas a un prezzo quattro volte superiore a quello di mercato, le nazioni della NATO si sono unificate e la maggior parte dei Paesi dell’UE ha appoggiato gli Stati Uniti. Tutti questi sono indubbiamente risultati significativi, ma per quanto tempo?

D’altra parte, la Russia ha commesso gravi errori fin dall’inizio della guerra, pensando che l’Europa fosse divisa, che l’Ucraina non avrebbe combattuto e si sarebbe comportata come nel 2014, quando la Russia ha annesso la Crimea e si aspettava che Kiev dichiarasse la neutralità. Dopo tutto, la Crimea era dominata da solidi sentimenti e cultura filo-russi e solo il 18% era di madrelingua ucraina. Secondo il Ministero dell’Istruzione della Crimea, nel 2008 nella penisola c’erano 555 scuole con il russo come lingua di insegnamento e tra le 6 e le 15 scuole in cui l’insegnamento è in ucraino e tataro di Crimea.

Il Presidente Putin ha probabilmente pensato che avere scie di carri armati lunghe 64 km, a decine di chilometri da Kiev (a Ozera e Hostomel, a nord della capitale) fosse forse sufficiente per minacciare il governo e intimidirlo a firmare un accordo di neutralità. Il lungo convoglio militare russo è stato soggetto a facili molestie da parte delle forze ucraine dotate di missili anticarro a guida laser della NATO che hanno causato gravi danni alle truppe statiche dopo aver distrutto gran parte della sua linea di rifornimento di rivitalizzazione nelle retrovie.

La Russia voleva che l’Ucraina non entrasse nella NATO, che l’esercito ucraino ponesse fine alle uccisioni dei russofoni del Donbass, che il diritto all’autodeterminazione linguistica e che l’OSCE supervisionasse le elezioni come deciso negli accordi di Minsk-1 e due del 2014 e 2015. Il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy temeva il contraccolpo dei partiti politici nazionalisti di estrema destra se il suo governo avesse attuato l’accordo e ha rifiutato gli accordi di Minsk poco prima dell’inizio della guerra, sfidando la Russia.

Il Cremlino non si è reso conto che gli Stati Uniti hanno addestrato gli ucraini dal 2015 per il giorno in cui avrebbero combattuto contro l’esercito russo, e non permetteranno a Kyiv di arrendersi. Al contrario, gli Stati Uniti sono riusciti a incoraggiare l’Ucraina a combattere fino all’ultimo ucraino, indipendentemente dalle pesanti perdite di uomini e infrastrutture.

A febbraio, la maggior parte delle ambasciate straniere ha evacuato Kiev, pensando che la Russia si sarebbe comportata esattamente come gli Stati Uniti in Iraq (e in altre guerre), facendo piovere missili sulla capitale e distruggendo il Paese prima di far avanzare la fanteria. Mosca ha ritenuto che non fosse necessario imitare lo stile di guerra americano e ha preso in considerazione il legame familiare tra Ucraina e Russia. Questa si è rivelata una valutazione russa sostanzialmente errata. Inoltre, una volta impegnata nella guerra, la Russia ha dimostrato di non avere le capacità militari convenzionali per occupare tutta l’Ucraina, anche se il 20% del Paese era già sotto il controllo dell’esercito di Mosca contro l’intera macchina da guerra della NATO.

Non c’è dubbio che l’esercito russo non fosse all’altezza delle ambizioni e degli obiettivi del Presidente Putin e che condurre una guerra classica contro gli eserciti NATO riuniti in una battaglia classica sia destinato a fallire. I primi mesi di combattimenti in Ucraina hanno costretto il Cremlino a rivoluzionare l’esercito e l’equipaggiamento per imboccare la strada della guerra moderna, spingendo il Presidente Putin a cambiare le tattiche militari e a ridurre gli obiettivi e le aspettative.

Nelle ultime settimane, infatti, la Russia ha cambiato la sua dottrina militare nei confronti dell’Ucraina e sta adottando un approccio militare più pesante dopo aver tolto i guanti. La decisione russa di distruggere finora più della metà delle infrastrutture ucraine con missili di precisione a lungo raggio e il ritiro dalla capitale Kherson hanno salvato migliaia di soldati russi da una potenziale sconfitta. Ha anche fornito una finestra di opportunità per fermare la guerra, o almeno preparare le circostanze per raggiungere una cessazione delle ostilità tra Stati Uniti e Russia, firmata dall’Ucraina. In effetti, i leader statunitensi hanno iniziato a chiedere negoziati, dal momento che la possibilità di rompere le difese russe o di impedire a Mosca di raggiungere la maggior parte dei suoi obiettivi non era più possibile.

A Kherson, l’esercito ucraino non rappresentava una minaccia immediata per le forze armate russe sulla riva occidentale del Dnipro. Oleksiy Arestovych, consigliere ucraino del presidente Volodymyr Zelenskyy, dubitava delle intenzioni di ritiro della Russia, soprattutto perché le linee di difesa erano ancora intatte. Inoltre, Oleksii Reznikov, ministro della Difesa ucraino, ha affermato che “la Russia ha bisogno di almeno una settimana per ritirare 40.000 truppe ed equipaggiamenti” dalla sponda occidentale del vasto fiume Dnipro. Ma il Cremlino ha completato il ritiro in sole 48 ore, sorprendendo tutti coloro che hanno trattato con cautela i rapidi sviluppi per paura di cadere in una trappola russa nella città di Kherson.

Nella scienza militare, mantenere il terreno a costo di subire pesanti perdite non è un’opzione intelligente per i leader militari. Durante le prime settimane della battaglia, le forze russe si sono ritirate dai dintorni di Kiev e, qualche mese dopo, da Kharkiv. Pertanto, non è sorprendente che il Cremlino abbia raggruppato l’esercito sulla sponda orientale del fiume Dnipro senza pressione militare durante la ritirata, perché offre diverse prospettive difensive future e strategiche per Mosca.

La ritirata è stata il risultato di una valutazione militare dei comandanti sul campo, seguita dall’approvazione del massimo responsabile politico, il Presidente Putin. La potenziale perdita di molti uomini sul campo di battaglia e la possibilità di convincere gli Stati Uniti a fermare la guerra ritirandosi dalla capitale Kherson e costruendo una solida linea di difesa sulla sponda orientale sono stati sufficienti per ordinare ed eseguire la ritirata.

Le forze ucraine avrebbero potuto colpire le linee di rifornimento che attraversano il ponte che collega la sponda occidentale a quella orientale, mettendo in pericolo più di 30.000 truppe russe se l’Ucraina avesse deciso di spingere le sue forze al fronte in tempo. Assediare migliaia di soldati ed esporli alla morte o alla resa sarebbe una perdita strategica che potrebbe far cadere l’intera leadership militare e politica, compreso il Presidente Putin.

La sponda occidentale si trova sul basso fiume Dnieper ed è più vulnerabile alle inondazioni. Se l’Ucraina avesse deciso di far saltare la diga della centrale elettrica di Kakhovka – che ha subito perdite a causa dei precisi lanciatori HIMARS di fabbricazione americana dell’esercito ucraino – la parte occidentale di Kherson sarebbe affondata, insieme a 80 insediamenti. In uno scenario del genere, il movimento di trentamila soldati russi all’interno della provincia sarebbe stato impossibile da sostenere qualsiasi attacco frontale ucraino significativo.

Per quanto riguarda il completamento della ritirata russa, le forze ucraine che hanno schierato i loro uomini all’interno della città di Kherson hanno di fatto camminato “dentro la trappola” da cui l’esercito del Cremlino è uscito. Pertanto, qualsiasi rischio di un futuro attacco significativo deciso da Kyiv verso la sponda orientale la esporrebbe alla distruzione o all’inondazione – a seconda della portata dell’attacco. Così, la linea di difesa naturale – il fiume Dnipro – fornisce all’esercito russo una garanzia di autoprotezione che è difficile da attraversare per gli ucraini senza essere visti, traccia nuovi confini e invia messaggi all’Occidente sul fatto che qualsiasi futura battaglia per liberare altri territori occupati dalla Russia è diventata inutile.

La Russia ha mantenuto la maggior parte della parte orientale di Kherson, tre volte l’area da cui le forze russe si sono ritirate, per rimanere una barriera inespugnabile che protegge la penisola di Crimea, che il presidente Zelensky ha promesso di liberare. Mosca sta anche mantenendo il controllo del Mar d’Azov e assicurando il flusso di acque dolci verso la Crimea e altre aree sotto la sua influenza.

Il presidente Joe Biden aveva ragione quando ha detto che la Russia non ha ottenuto ciò che voleva ottenere. Per questo Putin ha cambiato i suoi obiettivi per limitare la sua guerra e accetta di mantenere il controllo di Donbas, Zaporizhia e della maggior parte di Kherson.

La strategia della Russia è diventata difensiva a Kherson e offensiva in altre aree, impiegando le forze in eccesso ritirate da Kherson per completare il controllo di tutto il Donbas e investendole in un attacco nelle regioni di Luhansk, dove i combattimenti si sono intensificati.

Il Cremlino ha scelto di consolidare le posizioni acquisite, evitando di esaurire il proprio esercito e di prosciugare le capacità dell’Occidente. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato: “L’Occidente sembra attaccare la Russia all’infinito”. Ma i leader militari occidentali hanno iniziato a lamentarsi, alzando la voce perché stavano esaurendo le armi da inviare in Ucraina e a causa del grave grado di inflazione.

Inoltre, l’amministrazione statunitense ha rivelato una differenza di opinioni tra il comandante delle forze americane, il generale Mark Milley, che ha consigliato di usare la diplomazia, mentre il segretario di Stato Anthony Bliken e il consigliere per la sicurezza nazionale Jack Sullivan non erano d’accordo. Ciò indica che, da un punto di vista militare, non c’è più speranza di prosciugare l’economia russa o di sconfiggere i suoi soldati sul campo di battaglia.

Pertanto, dal punto di vista occidentale, la battaglia deve essere fermata prima che i danni collaterali aumentino (non sconfiggendo la Russia, Mosca consegnerà armi letali – missili ipersonici – all’Iran, nemico degli Stati Uniti). Di conseguenza, Washington potrebbe non avere più il controllo delle reazioni dei suoi alleati a causa dei movimenti di piazza in Europa, che chiedono la fine dell’aumento dei prezzi, la fine della guerra in Ucraina e che i suoi leader promuovano negoziati diplomatici.

Indipendentemente dalle vittorie tattiche dell’esercito ucraino sul terreno, la guerra non si fermerà se la diplomazia non sarà la scelta dei principali belligeranti. I campi di battaglia in qualsiasi guerra sono sempre stati instabili e vengono utilizzati solo per migliorare i negoziati di una parte o dell’altra. Gli Stati Uniti non sono riusciti a prosciugare l’economia russa e a rovesciare il Presidente Putin. La guerra ha invece stremato l’Occidente, che si aspettava di trascinare la Russia nella trappola ucraina e non ha previsto l’effetto boomerang che avrebbe colpito le popolazioni occidentali. Pertanto, la battaglia in Ucraina è diventata senza orizzonte, soprattutto perché l’inverno si sta avvicinando rapidamente, e Mosca non abbandonerà i suoi obiettivi o gli interi 100.000 km quadrati che occupa.

La Russia continua a resistere, impegnata in feroci battaglie su vari fronti e bombardando settimanalmente l’Ucraina con centinaia di missili di precisione a lungo raggio, bombardando e distruggendo le infrastrutture ucraine. Il valore dei danni alle infrastrutture ammonta finora a 750 miliardi di dollari e non si limiterà a questa cifra se la guerra continuerà.

Non importa quanto durerà la guerra, sarà il tavolo dei negoziati a decidere la fine della battaglia. Il problema è chi annuncerà per primo la sua sconfitta: gli Stati Uniti o l’Europa? La Russia controlla 100.000 chilometri quadrati di territorio ucraino e non ne uscirà assolutamente perdente. La Russia ha sfidato l’unilateralismo degli Stati Uniti, che è stato messo in discussione, e altri Paesi avranno ora più coraggio di sfidare Washington. Il processo non è più arrestabile. L’India e il Pakistan, solo per citarne alcuni, hanno respinto le sanzioni unilaterali di Stati Uniti e Unione Europea sull’energia russa. Due terzi del mondo si rifiutano di sostenere Washington nella sua lotta contro la Russia. Il risultato finale di questa battaglia avrà conseguenze terribili per il perdente tra le due superpotenze. Tuttavia, in questo processo, gli ucraini sono senza dubbio le maggiori vittime perdenti.

-di Elijah Magnier-

#TGP #Russia #Ucraina #USA

[Fonte: https://ejmagnier.com/2022/11/20/la...a-sua-sconfitta-affretta-i-colloqui-di-pace/]
 
https://libya360.wordpress.com/2022...rrupt-elites-are-profiting-from-the-conflict/

Officials and oligarchs have diverted much of the financial support sent to Kiev
Since the beginning of Russia’s military offensive in Ukraine, the United States, the European Union – and their allies – have provided Kiev with $126 billion worth of aid, a number almost equal to the country’s entire GDP. Moreover, millions of Ukrainians have found refuge in the EU where they were given housing, food, work permits, and emotional support. The scope is huge, even by western standards. Considering that the bloc has been funding Kiev while coping with an economic and energy crisis of its own, the assistance is perhaps especially notable.
Kiev bases its endless funding requests on the collapse of its economy, due to the war, and its need to “resist Russian aggression.” But is the aid reaching its intended destination?
The Monaco Battalion
While Ukraine has undergone a general mobilization affecting all men under the age of 60, many former and current high-ranking officials, politicians, businessmen, and oligarchs have moved to safety abroad – mainly to the EU.
The mass flight of Ukrainian elites started even prior to the armed conflict. On February 14, 2022, 37 deputies from the Ukrainian president’s parliamentary faction “Servant of the People” suddenly went “missing.” Had MPs not been banned from leaving the country the very next day, others would’ve definitely joined them. Meanwhile, former officials and oligarchs enjoyed more freedom to move around. According to the Italian newspaper La Repubblica, 20 business jets took off from Kiev’s Boryspol airport on the 14th as well.
Tycoons were at the front of the line. Entrepreneur and MP Vadim Novinsky, businessmen Vasily Khmelnitsky and Vadim Stolar, Vadim Nesterenko, and Andrey Stavnitzer all left the country on charter flights. Millionaire politician Igor Abramovich booked a private flight to Austria for 50 people – taking relatives, business partners, and fellow party members aboard. Oligarchs flew from Kiev to Nice, Munich, Vienna, Cyprus, and other EU destinations. Another group of businessmen took off from Odessa on private planes. The owner of Vostok Bank departed for Israel, while the head of the Transship group flew to Limassol. An ex-governor of the Odessa region, Stalkanat’s Vladimir Nemirovsky, also left the country.
In the summer and early fall of 2022, ‘Ukrainska Pravda’ prepared several investigative documentaries about fit-for-service Ukrainian billionaires and officials spotted vacationing on the Côte d’Azur during the war. A movie with the ironic title “The Monaco Battalion” shows Ukrainian oligarchs resting at their villas, mansions, and on yachts. In the first part, we see businessman Konstantin Zhevago, who is included on Interpol’s wanted list, relaxing on his private yacht worth $70 million. The yacht graces the shoreline of the Côte d’Azur as Zhevago’s family disembarks. Kharkov entrepreneur Alexander Yaroslavsky, who promised to sell his yacht and transfer the funds towards the restoration of Kharkov, can be seen sailing alongside.‘Ukrainska Pravda’ journalists also got a glimpse of the Surkis brothers in France, who’re currently renting apartments worth €2 million per year. Meanwhile, a $300,000 Bentley belonging to Ukrainian businessman Vadim Ermolaev was spotted near the casino in Monaco, and Eduard Kohan, the co-founder of Euroenergotrade, was seen at one of Monte Carlo’s chic hotels.
A whole colony of Ukrainian oligarchs has apparently taken up residence in the elite French commune of Cap-Ferrat. Land developer Vadim Solar, oligarchs Dmitry Firtash, Vitaly Khomutynnik, and Sergey Lovochkin are among those enjoying high life in the middle of the war. The Cap-Ferrat villa once belonging to King Leopold II of Belgium was bought by the richest Ukrainian oligarch Rinat Akhmetov. His neighbors are Alexander Davtyan, President of the Investment Group DAD LLC, and Vladislav Gelzin, a former deputy of the Donetsk Regional Council.
As the creators of the film repeatedly emphasize, deputies and businessmen of “pro-Russian” parliamentary factions left the country during the war. Yet many active supporters of the current government also prefer to defend their homeland from abroad.
‘Ukrainska Pravda’ managed to interview Andrei Kholodov, an MP from Vladimir Zelensky’s faction “Servant of the People”, from his current residence in Vienna. The Austrian capital was also chosen by nationalist Nikita Poturaev and Sergei Melnichuk, a former head of the Aidar battalion known for war crimes reported by Amnesty International. The former head of the Constitutional Court of Ukraine, 59-year-old Alexander Tupitsky, and the 45-year-old ex-prosecutor general of Ukraine Ruslan Ryaboshapka also preferred foreign “trenches.”
Members of the Ukrainian parliament are in no hurry to adopt vitally important laws for the country during wartime. According to the Telegram channel “Volyn News,” as of March 11, 2022, more than 20 MPs had moved abroad for unspecified reasons. The geography is extensive: Great Britain, Poland, Qatar, Spain, France, Austria, Romania, Hungary, UAE, Moldova, Israel, etc. In March, the Prosecutor General’s Office of Ukraine launched an investigation into the actions of six parliamentarians who have remained abroad.
Apparently, neither war nor punishment can put Ukrainian legislators to work. Only 99 deputies out of 450 attended the session of the Parliament on July 20. Presumably distracted by summer, the Côte d’Azur, the Maldives, and yachts… As for defending Ukraine itself – just leave it to the foreign volunteers, they say.Where’s all the military and humanitarian aid going?
Some western benefactors have recently noticed that most of the military and humanitarian aid never reaches Ukraine’s army or ordinary citizens.
In an original documentary, CBS reported that about 70% of military aid failed to find its way to the intended beneficiaries and donor countries are often unable to control its intended use. According to the creators of the report, some of the weapons are sold on the black market. As US Marine Corps veteran Andy Milburn said, “I can tell you unarguably that on the frontline units these things are not getting there. Drones, Switchblades, IFAKs. They’re not, alright. Body armor, helmets, you name it.”
The Grayzone writes that weapons and humanitarian aid provided by the West to the Ukrainian military is being stolen along the way and never reaches the soldiers. At the same time, Ukrainian MPs recently gave themselves a 70% pay raise. The author of the piece argues that billions of dollars from the USA and the EU have been diverted.
A Ukrainian soldier named Ivan told journalists about western funds never reaching the front: “Imagine telling an American soldier that we are using our personal cars in the war, and we’re also responsible for paying for repairs and fuel. We’re buying our own body armor and helmets. We don’t have observation tools or cameras, so soldiers have to pop their heads out to see what’s coming, which means at any moment, a rocket or tank can tear their heads off.”
Samantha Morris, a medical doctor from the US, drew attention to the theft of medical supplies and the overall corruption: “The lead doctor at the military base in Sumy has ordered medical supplies from and for the military at different points in time, and he has had 15 trucks of supplies completely disappear,” she said. The doctors couldn’t even set up courses for medical assistants until a friend of the Sumy region governor interceded.
CNN talked to a retired US colonel who said that Ukrainian troops are short on supplies. Small arms, medical equipment, field hospitals and a lot more are under the control of private organizations – more concerned about stealing money than saving the lives of their compatriots.As Stephen Myers, a former member of the US Department of State Advisory Committee on International Economic Policy, insisted, “There is little to prevent a field commander from diverting some of the equipment to buyers, aka the Russians, the Chinese, the Iranians or whomever, while claiming the equipment and weapons were destroyed…”
Thousands of tons of humanitarian aid is being stolen. In September, the National Anti-Corruption Bureau of Ukraine (NABU) proved that the head of the Office of the President, Andrei Yermak, his deputy Kirill Tymoshenko, the head of “The Servant of the People” faction David Arakhamiya and his friend Vemir Davityan were behind the large-scale theft of humanitarian aid in the Zaporozhye region. Zaporozhye officials Starukh, Nekrasova, Sherbina, and Kurtev only superficially carried out the task of distributing aid. In six months, they organized the theft of 22 sea containers, 389 railway cars, and 220 trucks. Humanitarian aid was sold in ATB and Selpo – supermarkets owned by Gennady Butkevich and Vladimir Kostelman, respectively. Of course, Tymoshenko, Nekrasova and Davityan all became “refugees” and found asylum in Vienna.
Admittedly, not everyone is on the run. Andrei Yarmolsky, the scandalous former deputy head of the Volyn regional administration – accused of stealing humanitarian aid, supplying defective bulletproof vests, and illegally moving men out of the country – was promoted. He now works for the National Security and Defense Council.
Medical supplies are also being stolen. The Telegraph reportsthat “some of the donated supplies later made their way onto the hospitals’ pharmacy shelves: priced, and listed for sale”. Health workers appropriate medicine, bandages, and medical equipment, and resell them to patients for whom they were intended to be free, the article says.
A similar story was told by the aforementioned doctor Dr Morris: “I got a call from a nurse at a military hospital in Dnipro. She said the president of the hospital had stolen all the pain medications to resell them, and that the wounded soldiers being treated there had no pain relief. She begged us to hand-deliver pain medications to her. She said she would hide them from the hospital president so that they’d reach the soldiers. But who can you trust? Was the hospital president really stealing the medications, or was she trying to con us into giving her pain medications for her to sell or use? Who knows. Everyone is lying.”
War for some, Gucci for others
Enormous cash flows from Western countries are continuously used by corrupt Ukrainian officials for personal enrichment and to acquire luxury goods.
In a recently busted corruption scheme, Odessa customs smuggled shirts, backpacks, sports shoes, belts, and other luxury items by Givenchy, Gucci, Polo, Dolce & Gabbana, Michael Kors, Chanel, Louis Vuitton, and Armani under the guise of army equipment. The documents, declaring the cargo as “for the needs of the Armed Forces of Ukraine,” were signed by the acting head of the Odessa customs Vitaly Zakolodyazhny. According to MP Alexander Dubinsky, this is a common theft scheme. “The work of the customs is unsatisfactory because while some are fighting at the front, others are making money under the guise of their customs uniforms,” the parliamentarian said.To take another example, in May 2022, Western countries abolished customs duties for Ukraine. Within a week, over 14,000 passenger cars were imported into the country. As the Deputy Minister of Infrastructure Mustafa Nayem commented, “Considering we’re a country at war, our partners in Poland, Slovakia, and Romania were quite surprised by this fast-paced upgrade to our vehicle fleet.”
As they go about acquiring luxurious clothes and cars, the thieves are also taking care to withdraw capital from Ukraine.
According to the Bureau of Economic Security of Ukraine, Ukraine’s budget is missing UAH 4.5 billion worth of taxes from agrotraders: “In August-September 2022, almost 12 million tons of grain crops and oil estimated at UAH 137 billion were exported through the customs territory of Ukraine. Of these, almost 4 million tons were exported by fake companies existing only on paper.” Moreover, “most of the non-resident companies to which grain is exported are high-risk and involved in criminal investigations.” Is this the “grain deal” that the global community is actively cheering? It looks like Ukrainian fraudsters are corrupting not just their own country, but foreign states as well. And this is just one example out of many.
When the Surkis brothers left Ukraine, they took $17 million with them. But that’s just a trifle compared to the “heroes of the Euromaidan.” According to former People’s Deputy of Ukraine Oleg Tsarev, after the outbreak of hostilities leading Ukrainian politicians sent both their capital and their families abroad.
He mentions that the parents and relatives of President Vladimir Zelensky and his wife all left the country. Zelensky’s predecessor, former president Petr Poroshenko, moved not just his children but also about a billion US dollars in cash to the UK.
The same applies to other major Ukrainian officials: former Minister of Internal Affairs Arsen Avakov, the head of the Office of the President Andriy Yermak, the second President of Ukraine Leonid Kuchma, the former Prime Minister of Ukraine Arseniy Yatsenyuk and many others all took their families and fortunes, estimated at around a billion dollars, out of the country. And that’s not to mention the numerous politically-affiliated oligarchs.
Scammers of smaller stature can “individually join the EU” as well. A system of bribery allows military-age males to leave the country. According to Izvestia, the fee is currently between $8,000 and $10,000. The Ukrainian media also actively reports on people paying to cross the border.
The sympathy of Westerners towards a country at war is understandable. But while some countries are doing their upmost to aid Ukraine – even while facing an economic crisis themselves – corrupt Ukrainian officials are using the funding to amass personal fortunes and live the high life at fancy resorts. And all at the expense of taxpayers in the West.
In 2015, Arseniy Yatsenyuk, upon leaving the post of the Prime Minister of Ukraine, openly declared that he had become a billionaire. It is yet to be seen how many new Ukrainian super rich tycoons – nurtured by foreign military aid – will appear in the West by the end of the conflict.
 
Perché ampie fasce della società hanno improvvisamente accettato di mascherare i bambini o di impedire alle persone di visitare i propri cari, anche quando erano in punto di morte?
Ne parliamo con Mattias Desmet, professore di psicologia clinica e autore di "Psicologia del totalitarismo", uno dei maggiori esperti mondiali del fenomeno noto come Formazione della Massa.

"Il vero motivo per cui si adagiano sulla propaganda è sempre perché porta a un nuovo legame sociale, perché li libera dall'ansia, perché permette loro di indirizzare la frustrazione e l'aggressività verso qualcosa".
Mattias Desmet


 
ho avuto il coraggio di ascoltarlo interamente....... sentire per credere! Questa è la propaganda trumpista ( Repubblicana) statunitense.

e non è che sono democratico.





 
Ucraina: la riconquista della Crimea, un feticcio per prolungare la guerra

“Non c’è una soluzione alla guerra in Ucraina senza la liberazione della Crimea. Altre strade sarebbero una perdita di tempo”. Così Zelensky ieri. Tradotto: non si siederà ad alcun tavolo negoziale, se la Russia non accetta preventivamente di cedere la Crimea. Un altro modo per dire che non negozierà affatto con Mosca, dal momento che è dal 2014, anno dell’annessione, che Mosca afferma che l’appartenenza della Crimea alla Russia è fuori discussione.

Nessuna tregua, nessun negoziato, rifiutando così le aperture di Mosca sul tema. Tale la follia del guerrafondaio di Kiev, che peraltro sta cercando in tutti i modi di coinvolgere in maniera aperta la Nato nel conflitto, cioè di dare inizio alla Terza guerra mondiale, com’è stato palese nella vicenda del missile ucraino lanciato o finito per caso in Polonia (sul punto rimandiamo all’articolo dal titolo “Porre fine alle follie di Volodymyr Zelensky” di Philip Giraldi)(1).

Al di là delle implicazioni più generali delle decisione di rifiutare le trattative, per poi lamentarsi che i russi continuano a bombardare, aspetto inevitabile della guerra alla quale Zelensky e i suoi sponsor non vogliono porre fine, è molto istruttiva la storia recente della Crimea, raccontata da Nicolai Petro su Responsible Statecraft.

Le aspirazioni della Crimea a la repressione ucraina
“È noto – scrive Petro – che nel 1954 la regione fu trasferita dalla SFSR russa (Repubblica socialista federativa sovietica) alla SSR ucraina (Repubblica socialista sovietica) come ‘dono’ al popolo ucraino in onore del 300° anniversario del Pereyaslavl Rada che unì l’Ucraina alla Russia”.

“Meno noto, invece, è che nel gennaio 1991, mentre l’URSS si stava disintegrando, il governo regionale della Crimea decise di indire un referendum sul ripristino dell’autonomia della Crimea. Quasi l’84% degli elettori registrati partecipò alla votazione e il 93% di essi votò per la sovranità della Crimea“.

“Ciò ha aperto la porta alla potenziale separazione della Crimea sia dall’URSS che dalla SSR ucraina, consentendole così potenzialmente di aderire al nuovo Trattato di Unione, proposto allora da Mikhail Gorbaciov, come membro indipendente”.

“Il 12 febbraio 1991, il Soviet Supremo della SSR ucraina (il suo principale organo legislativo) riconobbe quei risultati. Il 4 settembre 1991, il Soviet Supremo dell’attuale Repubblica Autonoma di Crimea (ACR) proclamò la sovranità della regione, ma aggiunse che intendeva creare uno stato democratico sovrano ma all’interno dell’Ucraina”.

“È in questo contesto di sovranità regionale che il 54% della Crimea votò nel dicembre 1991 a favore dell’indipendenza ucraina [dall’Unione sovietica], con un’affluenza alle urne del 65%, la più bassa di qualsiasi altra regione dell’Ucraina”.

“Fin dall’inizio, però, le due parti avevano interpretazioni diametralmente opposte di ciò che significava ‘sovranità’ della Crimea”, intendendo Kiev dare una certa autonomia alla regione, ma non un effettivo status di indipendenza.

Date le premesse, si andò allo scontro: il 5 maggio 1992, il Soviet Supremo della Repubblica Autonoma di Crimea “dichiarò la totale indipendenza dall’Ucraina, annunciando un nuovo referendum che doveva tenersi nell’agosto 1992. Il parlamento ucraino dichiarò illegale l’indipendenza della Crimea, autorizzando il presidente Kravchuk a utilizzare qualsiasi mezzo necessario per impedirla“.

Lo scontro fu evitato: la Crimea revocò la decisione e trattò per uno status di autonomia all’interno dell’Ucraina. Fu una soluzione solo “temporanea”, perché “non si era affrontata la questione centrale: il desiderio di gran parte della popolazione della Crimea di far parte della Russia piuttosto che dell’Ucraina”.

La questione riemerse “nel 1994, quando Yuri Meshkov e il suo partito ‘Russia Bloc’ vinse le elezioni per la presidenza della Crimea con una piattaforma che sosteneva la riunificazione con la Russia”.

“Ancora una volta, una crisi fu scongiurata tra il 16 e il 17 marzo 1995, quando il presidente ucraino Leonid Kuchma, dopo essersi consultato con il presidente russo Boris Eltsin e averne ricevuto il sostegno, inviò le forze speciali ucraine per arrestare i membri del governo della Crimea. Meshkov fu deportato in Russia e, quello stesso giorno, la Rada [il parlamento ucraino] abrogò la costituzione della Crimea e abolì la presidenza della Crimea”.

Ma le aspirazioni filo-russe furono solo sopite. “in una intervista del 2018, l’ultimo primo ministro della Crimea nominato dall’Ucraina, Anatoly Mogiloyv, dichiarò che la Crimea è sempre stata ‘una regione russa‘, aggiungendo di aver ripetutamente avvertito Kiev che, se si fosse rifiutata di concedere una maggiore autonomia alla penisola, essa si sarebbe precipitata tra le braccia della Russia”.

L’annessione alla Russia
Non meraviglia, dunque, che quando nel 2014 la Russia inviò il suo esercito in Crimea, non dovette sparare un solo colpo per prenderne il controllo. Nessuna vittima, l’invasione più facile e pacifica della storia dell’umanità (questo non lo ricorda Petro, ma val la pena rammentarlo).

Peraltro, l’invasione avvenne dopo il colpo di Stato di Maidan, quando Kiev, rifiutando di trattare con le regioni del Donbass che chiedevano autonomia, inviò contro di esse il proprio esercito, che venne incenerito dopo mesi di guerra (la Russia allora poteva prendere il controllo di tutta l’Ucraina, ormai disarmata, ma non lo fece).

Dopo l’arrivo dell’esercito russo in Crimea, fu indetto un referendum che sancì l’annessione. Tale referendum non venne ovviamente accettato né da Kiev né dall’Occidente, che li bollò come falsati.

Detto questo, però, Petro ricorda come successivamente, “una serie di sondaggi sponsorizzati dall’Occidente hanno evidenziato un alto livello di sostegno alla riunificazione con la Russia. Un sondaggio Pew dell’aprile 2014 ha rivelato che il 91% degli intervistati della Crimea riteneva che il referendum del 2014 fosse libero ed equo”.

“Un sondaggio del giugno 2014 realizzato da Gallup ha mostrato che quasi l’83% della popolazione della Crimea (94% tra quelli di etnia russa e il 68% tra quelli di etnia ucraina) pensava che il referendum del 2014 riflettesse le opinioni della popolazione. Un sondaggio della primavera 2017 condotto dal Centro per gli studi internazionali e dell’Europa orientale con sede in Germania ha rilevato che, se gli fosse stato chiesto di votare di nuovo, il 79% degli intervistati avrebbe espresso lo stesso voto”.

Peraltro, il duro braccio di ferro avviato da Kiev contro la regione reproba non ha giovato alla sua causa, in particolare la decisione di tagliare l’acqua potabile, con la Russia in seria difficoltà a supplire ai rifornimenti necessari.

Tornando a Petro, egli annota come “la storia della Crimea dal 1991 offre una vivida illustrazione di come il nazionalismo possa portare le élite nazionali all’autoillusione. Conoscendo perfettamente le aspirazioni di autonomia di lunga data della regione, i politici nazionalisti di Kiev hanno scelto di ignorarle o sopprimerle”.

Da cui la decisione non forzata di aderire alla Russia, che invece ha saputo gestire con pragmatismo le diverse anime della penisola, come annota Petro, in particolare l’etnia tatara, sulla quale l’Occidente aveva puntato per dar vita a una resistenza all’invasore (2), sbagliando i calcoli.

Insomma, la popolazione della Crimea non sembra avere alcun desiderio di tornare sotto il controllo di Kiev, né tale reintegrazione è presa molto in considerazione dagli alleati dell’Ucraina, che sanno bene come al termine della guerra, quando ci si arriverà, il compromesso tra le parti non riporterà la penisola tra le braccia di Kiev. Così, più che un obiettivo da perseguire, la riconquista della Crimea appare un feticcio da brandire perché la macelleria prosegua.

Note:

1) http://ronpaulinstitute.org/archive...tting-an-end-to-volodymyr-zelensky-s-follies/

2) https://www.theatlantic.com/ideas/a...ar-crimean-tatars-stalin-soviet-union/629824/

di Davide Malacaria

#TGP #Ucraina #Crimea #Russia

[Fonte: https://piccolenote.ilgiornale.it/m...-crimea-un-feticcio-per-prolungare-la-guerra]
 
QATAR, C’È ALTRO OLTRE IL FOOTBALL

Mentre il campionato del mondo di football è in corso in Qatar, molte voci si sono levate contro il ricchissimo emirato per diverse ragioni: dalla ripresa oscura assegnazione della competizione (avvenuta nel 2010), alla violazione dei diritti dei lavoratori stranieri coinvolti nei cantieri per il campionato, alle limitazioni dei diritti civili e personali per finire all’indiscriminato abbattimento di cani. E questo senza le patetiche giustificazioni della FIFA e il sostegno ottenuto dal Summit della Lega Araba di Algeri agli inizi di Novembre (entrambi obbligati, e in quanto tali, totalmente ipocriti).

Tuttavia, queste accuse, già di per sé gravi (e conosciute da tempo), non illustrano completamente l’ambigua politica dell’emirato. Da anni Doha ha iniziato una politica di visibilità e penetrazione a livello internazionale, focalizzato ad assicurarsi la benevolenza e l’attenzione della comunità internazionale, corroborato da enormi risorse finanziarie, acquisti spropositati di armamenti di ogni tipo e di elevata sofisticazione (e costo…), partecipazione a operazioni militari internazionali, come il rovesciamento del regime di Gheddafi (notizie stampa citarono l’irruzione di forze speciali qatariote nel grande complesso di Bab al-Azizia a Tripoli).

Si potrebbe osservare che le scelte del Qatar e la sua frenetica ricerca di visibilità sia una risposta obbligata a un insieme di debolezze che lo renderebbero appetibile: vicini ingombranti e animati da smanie egemoniche, territorio piccolo, scarsa popolazione e carente identità nazionale, risorse energetiche importanti (il Qatar è il quinto produttore mondiale di gas naturale dopo USA, Russia, Cina e Iran, con 177 milioni di m3, a dati del 2021, questo mentre la produzione petrolifera si è ridotta a 1,8 milioni di barili al giorno con tendenza a ulteriori riduzioni).

Specialmente la disponibilità di gas naturale ha permesso alla comunità internazionale, soprattutto agli stati che ne sono acquirenti, di far passare sotto silenzio le zone oscure della governance dell’emirato. Come sempre "pecunia non olet" e le prediche sui diritti umani si indirizzano solo verso alcuni (e mai altri).

Nella sua multiforme attività diplomatica, il Qatar, ha ospitato i colloqui e gli accordi (foto) tra l’amministrazione Trump e i talebani afghani (che hanno portato alla vergognosa fuga da Kabul), ma allo stesso tempo continua a ospitare le sessioni di dialogo dei negoziati in Chad, per la regione dei Grandi Laghi e il Sud Sudan, patrocinati dall’ONU.

Al contempo ha iniziato una sempre più forte contrapposizione alle mire egemoniche dell’Arabia Saudita e dei suoi stati satelliti (UAE, Kuwait, Bahrein) all’interno del GCC (Gulf Cooperation Council), ma anche della Lega Araba e della OIC (Organizzazione per la Conferenza Islamica).

La partecipazione del Qatar alla coalizione guidata da Riyadh per fronteggiare le vittoriose forze yemenite di obbedienza sciita ha aumentato la divaricazione tra Doha e l’Arabia Saudita, cosa che faceva il paio con la rivalità tra queste due nazioni nel padrinaggio delle diverse milizie siriane antigovernative nella guerra civile che devasta il paese del levante dal 2011 e che ha visto il progressivo avvicinamento del Qatar alla Turchia e all’Iran.

Nel 2017 questa polarizzazione ha raggiunto gli estremi ha spinto quattro paesi arabi – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto – a rompere le relazioni diplomatiche con il Qatar, dopo che nell’estate di quell’anno, anche a fronte di gravi perdite umane subite, si ritira dalla coalizione impegnata nella guerra in Yemen. Queste nazioni hanno accusato il Qatar di sostenere vari gruppi terroristici e settari volti a destabilizzare la regione, tra cui il gruppo dei Fratelli Musulmani, Daesh (ISIS) e Al-Qaeda, promuovendo costantemente i piani di questi gruppi attraverso i suoi media, sostenere le attività dei gruppi terroristici sostenuti dall'Iran nel governatorato di Qatif, in Arabia Saudita, e Bahrain, finanziandoli e ospitandoli e utilizzando il canale satellitare Al Jazeera come megafono dei loro messaggi. Lo stesso anno, i quattro paesi arabi hanno inserito 59 individui e 12 organizzazioni con sede o finanziate dal Qatar in una lista di terroristi. I quattro paesi hanno anche espulso i cittadini qatarioti e chiuso tutti i loro confini al Qatar, bandito le trasmissioni del canale televisivo (di proprietà statale) Al Jazeera. I sauditi hanno accusato il Qatar di "abbracciare vari gruppi terroristici e settari volti a destabilizzare la regione, tra cui il gruppo dei Fratelli Musulmani, Daesh (ISIS) e Al-Qaeda..." e tale era l’animosità che Riyadh era arrivata ad ipotizzare la costruzione di un canale artificiale per trasformare l’emirato da penisola a isola.

La cooperazione con la Turchia è stata importantissima per il Qatar, che ha visto in Ankara una assicurazione contro possibili blitz militari sauditi.

Per fare fronte al minaccioso isolamento, il Qatar ha consolidato i suoi legami con la Turchia, per lungo tempo protettrice dei Fratelli Musulmani e in rapporti burrascosi, anche se per ragioni differenti, sia con Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti.

Nell’ottobre 2015 è stata attivata la Forza Combinata Qatar-Turchia, acquartierata presso la base militare di Tariq bin Ziyad fuori Doha, inizialmente con circa 300 militari turchi, poi incrementati a 2.000 e poi a 5.000; a questi si sono aggiunte visite e esercitazioni di reparti aerei (e un flusso ininterrotto di aiuti alimentari quando iniziò l’embargo e la chiusura dello spazio aereo) e in quel caso si parlò di un asse Ankara-Teheran-Doha. Questa situazione si è trascinata sino all’inizio del 2021, con la riapertura dei confini terrestri con l’Arabia Saudita e quelli aerei e marittimi con le altre nazioni del GCC (con l’esclusione dell’Oman, che non si era piegato alle pressioni saudite e non ha mai interrotto le relazioni con Doha).

Accanto alle assicurazioni fornite dal volubile Erdogan, l’altra maggiore garanzia di sicurezza alla sua integrità, il Qatar l’ha trovata negli USA. Gli USA vi mantengono importanti assetti aerei e, sino al 2020, anche una presenza militare terrestre (poi trasferita in Giordania).

Come questo si accordi con il sostegno finanziario che il Qatar da tempo dà ad Hamas e altri gruppi radicali palestinesi, di cui molti leader sono ospitati nella piccola penisola, resta poco chiaro, anche alla luce del fatto che nel luglio 2021, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha avviato un'indagine sul presunto sostegno del Qatar al Corpo dei Pasdaran, il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (definiti da Washington nel 2019 come movimento terrorista).

Dopo più di tre anni di durissimo embargo (politico, logistico ed economico), il Qatar ha ripreso le relazioni con i paesi del GCC e l’Egitto. L’occasione formale della riconciliazione è stato il vertice in Kuwait dell’organizzazione regionale del gennaio 2021 che, sebbene facente parte del gruppo di paesi ostili al Qatar, si era speso come intermediario tra le due parti (e non come millantato dalla stampa marocchina, "da Rabat").

Anche l’Iran, considerato il vero oggetto della guerra diplomatica contro Doha, si è congratulato, noblesse oblige, sottolineando la “capacità del popolo qatariota di resistere alle pressioni esterne”.

Effettivamente, il Qatar è sgusciato dall’embargo senza rispondere, e ancor meno, rinunciare, alle accuse lanciate dai Paesi della coalizione: il sostegno al “terrorismo islamista” (in particolar modo ai Fratelli Musulmani, messi al bando da tutti e quattro i Paesi coinvolti) e i rapporti ambigui nei confronti con l’Iran.

È un fatto consolidato che il Qatar abbia sostenuto il radicalismo islamico anche e ben prima dell’esplodere della crisi diplomatica e, a parte il Bahrein (di fatto occupato dal 2011 da truppe saudite e degli EAU sotto l’usbergo di fittizia forza di pace inviata dal GCC per sostenere il governo dello emiro, che pure ha una popolazione quasi totalmente araba, ma di rito sciita) il Qatar era il paese più prossimo all’Iran.

Il crollo dei prezzi del petrolio del 2020 e l’esplosione di quelli del gas a seguito della aggressione russa all’Ucraina, hanno da una parte indebolito i paesi petroliferi del Golfo e allo stesso tempo rafforzato il Qatar (che ha brevemente abbandonato l’OPEC, accusandolo di essere uno strumento della politica egemonica saudita), che ha visto allungarsi la lista dei potenziali acquirenti, ancor meno che prima disposti a sollevare questioni che infastidiscano Doha. Si vuole evitare a tutti i costi un nuovo rinsaldamento dell’asse con Teheran, con pesanti conseguenze politiche e energetiche di grande portata.

Analogamente al timore di un nuovo asse con l’Iran, i paesi del Golfo non vogliono lasciare alla Turchia e alla erratica guida di Erdogan un'occasione per riaffacciarsi nelle regione mettendo Doha troppo sotto pressione, memori che anche grazie agli aiuti militari e alimentari di Ankara, il Qatar ha resistito al loro embargo, che nei loro piani avrebbe dovuto piegare l’emirato ribelle.

In sostanza il Qatar è rientrato nel GCC senza cedere su nessuno dei punti mossi dai Paesi della coalizione (e dei retrostanti timori dei clienti del gas naturale, che hanno dovuto ingoiare il rospo) e ha ampliato ulteriormente il suo spazio di manovra.

In vista della Coppa del Mondo, il Qatar ha compiuto enormi sforzi per abbellire la propria immagine nell'opinione pubblica mondiale e silenziare le accuse di lunga data nel dare rifugio ai terroristi e incoraggiare il terrorismo e l'estremismo. A causa della Coppa del Mondo di Doha, il Qatar ha giocato bene con l'Occidente come parte del suo sforzo per fare pensare che stia contribuendo alla sicurezza e alla stabilità in Medio Oriente mentre ospita e protegge gruppi pericolosi propri per la sicurezza dell’Occidente stesso.

In realtà il Qatar non è considerato un amico né da parte dell’Occidente né da parte dei suoi medesimi ‘alleati’ arabi. In effetti, il sostegno da parte del Qatar alla jihad globale rimane fonte di preoccupazione per molti che vedono come Doha, uno scomodo ma necessario partner: ha usato le sue infinite risorse inondando di doni, sponsorizzazioni di ogni tipo, contributi finanziari a Università e gruppi di riflessione, investendo in influenti gruppi editoriali e prestigiose società.

Finché il Qatar continuerà a finanziare e ospitare la leadership di Hamas, e finché continuerà a utilizzare Al-Jazeera per incoraggiare la jihad e l'estremismo, l'unico vero gioco che l'emirato sta giocando, a parte la Coppa del Mondo (dove la sua selezione nazionale è stata ovviamente eliminata dopo solo due partite, mostrando la strumentalità della sua offerta di ospitare il girone), è quello di una partita pericolosa.

-di Enrico Magnani-

#TGP #Qatar #Politica #Sport #Mondiali

[Fonte: Qatar, c’è altro oltre il football]
 
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Lockdown: ora Trudeau e Bassetti difendono le proteste in Cina (sconfessandosi da soli)

«Tutti in Cina dovrebbero essere autorizzati a protestare. Continueremo ad assicurarci che la Cina sappia che sosterremo i diritti umani e le persone che si esprimono». Così il Primo Ministro canadese Justin Trudeau ha appoggiato martedì i manifestanti in Cina, difendendo il loro diritto di protestare contro la politica di “tolleranza zero” al Covid, che ha visto il susseguirsi di lockdown molto rigidi e i test Pcr quasi quotidiani della popolazione. Trudeau ha aggiunto che è importante che le autorità cinesi rispettino il diritto dei giornalisti a informare, «a fare il loro lavoro».

PM JUSTIN TRUDEAU: “EVERYONE IN CHINA SHOULD BE ALLOWED TO PROTEST. WE WILL CONTINUE TO ENSURE THAT CHINA KNOWS WE WILL STAND FOR HUMAN RIGHTS AND WITH PEOPLE WHO ARE EXPRESSING THEMSELVES.” PIC.TWITTER.COM/AAMRXLGUUS

— TRUE NORTH (@TRUENORTHCENTRE) NOVEMBER 29, 2022

Dietro l’apparente anelito per la libertà a supporto della libera informazione e delle proteste in Cina, c’è lo stesso leader politico che, pochi mesi fa, ha adottato misure repressive e liberticide contro il Freedom Convoy. Il premier canadese, che ora si appella alla libertà di protesta e di espressione, è lo stesso che tra fine gennaio e febbraio ha schiacciato con la violenza le rivendicazioni dei camionisti contro l’abolizione dell’obbligo vaccinale per i lavoratori transfrontalieri voluto dal governo. Quando la protesta si è diffusa a macchia d’olio oltreoceano ad altri Paesi, Trudeau si è visto costretto a scappare e a invocare l’Emergencies Act, un provvedimento che ha autorizzato il Governo ad adottare “misure temporanee speciali”. La polizia ha inoltre represso con la violenza le proteste usando spray urticanti e granate stordenti, arrestando i manifestanti e rimorchiando i veicoli. Come se non bastasse, il governo canadese ha congelato i conti bancari di alcune persone ritenute coinvolte nelle proteste, dimostrando che l’allarme lanciato da ricercatori e attivisti negli ultimi anni era tutt’altro che una paranoia cospirazionista: con l’identità e la moneta digitali si rischia di reprimere il dissenso cancellando con un click la liquidità di coloro che dovessero manifestare contro il Sistema.

Se tali grottesche contorsioni mentali fanno breccia su coloro che hanno la memoria corta e si sono già dimenticati le misure liberticide adottate dal governo canadese che, è bene ricordarlo, sono state tra le più radicali al mondo, a essere vittima di una simile forma di bipensiero orwelliano è, nel nostro Paese, Matteo Bassetti.

LE VIOLENTE PROTESTE DI PIAZZA IN CINA CONTRO LA POLITICA DELLO “0 #COVID19” SPERO POSSANO RAPPRESENTARE PER I CINESI UN NUOVO INIZIO. CHE IL COVID POSSA RAPPRESENTARE PER LORO, QUELLO CHE PIAZZA #TIENAMMEN HA RAPPRESENTATO PER TUTTO IL MONDO. LA SCINTILLA PER LA LIBERTÀ

— MATTEO BASSETTI (@PROFMBASSETTI) NOVEMBER 28, 2022

A cinguettare un post a sostegno delle proteste cinesi e a parlare di “scintilla di libertà” è lo stesso infettivologo che, non solo non ha mai speso una sola parola a sostegno delle proteste contro il Green Pass nel nostro Paese, ma a dicembre del 2021 invocava l’obbligo vaccinale e auspicava l’intervento dei carabinieri per i No vax: «Per queste persone ci vorrebbe l’obbligo vaccinale, ma quello serio: ti mando i carabinieri a casa a prenderti».

Lo stesso Bassetti, che ora paragona le proteste in Cina a quelle di Piazza Tienanmen del 1989 e su Facebook critica la politica cinese zero Covid, giudicandola «assolutamente sbagliata, antiscientifica, assurda e autoreferenziale», è lo stesso che nell’agosto 2021 equiparava gli scettici del siero a “terroristi”: «Vanno trattati come tali, sono un movimento sovversivo, sono dei terroristi». Bassetti, che è stato complice nel processo di criminalizzazione del dissenso, ora, paradossalmente, saluta i manifestanti in Cina come eroi rivoluzionari.

Il popolo del web si è scatenato contro Trudeau e Bassetti, rinfacciando loro, chi con rabbia e chi con ironia, la falsità mostrata e ricordando quanto da questi sostenuto fino a pochi mesi fa.

La schizofrenia delle dichiarazioni di leader ed esperti che si sconfessano da soli, sta manifestando il cortocircuito delle politiche adottate per il contrasto della pandemia, ora che sempre più studi scientifici ne stanno avvalorando non solo l’inconsistenza, ma anche gli errori macroscopici che hanno portato alla costituzione di nuove forme di autoritarismo tecno-sanitario fatto di compressione delle libertà, vessazioni e discriminazioni, creando un pericoloso precedente per le democrazie occidentali.

Se cambiare opinione è assolutamente lecito, piegare la verità alle proprie esigenze, falsare il passato, ingannare l’opinione pubblica appare semplicemente un espediente retorico, una tattica propagandistica, una forma di convenienza per ricucirsi un’aura di credibilità e riciclarsi quando il castello di carte inizia a sgretolarsi perché il vento cambia.

-di Enrica Perucchietti-

#TGP #Politica #Canada #Italia #Cina #Lockdown

[Fonte: Lockdown: ora Trudeau e Bassetti difendono le proteste in Cina (sconfessandosi da soli)]
 
Oskar Lafontaine: “L’Europa paga la codardia dei suoi stessi leader”

Proponiamo l'intervista a Oskar Lafontaine, ex ministro delle Finanze tedesco e leader del partito socialdemocratico, fatta dalla testata Deutsche Wirtschaftsnachrichten

Il Deutsche Wirtschaftsnachrichten parla con Oskar Lafontaine del declino economico della Germania, della guerra per procura tra Russia e Nato in Ucraina e del perché auspica il ritiro delle truppe americane dalla Germania

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Cosa succede ora che i gasdotti Nordstream 1 e Nordstream 2 sono stati fatti saltare?

Oskar Lafontaine: L’esplosione dei due gasdotti è una dichiarazione di guerra alla Germania ed è patetico e vile che il governo tedesco voglia nascondere l’incidente sotto il tappeto. Dice di sapere qualcosa, ma non può dirlo per motivi di sicurezza nazionale. I passeri lo fischiano dai tetti da molto tempo: Gli Stati Uniti hanno eseguito direttamente l’attacco o almeno hanno dato il via libera. Senza la conoscenza e l’approvazione di Washington, non sarebbe stato possibile distruggere gli oleodotti, che costituiscono un attacco al nostro Paese, colpiscono la nostra economia nel profondo e vanno contro i nostri interessi geostrategici. È stato un atto ostile contro la Repubblica Federale – e non solo verso di essa, ma anche – che chiarisce ancora una volta che dobbiamo liberarci dalla tutela degli americani.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Nel suo nuovo libro “Ami, it´s time to go!” lei chiede il ritiro delle truppe americane dalla Germania. Non è irrealistico?

Oskar Lafontaine: Naturalmente non accadrà da un giorno all’altro, ma l’obiettivo deve essere chiaro: il ritiro di tutte le strutture militari e delle armi nucleari statunitensi dalla Germania e la chiusura della base aerea di Ramstein. Dobbiamo lavorare con costanza verso questo obiettivo e allo stesso tempo costruire un’architettura di sicurezza europea, perché la NATO, guidata dagli Stati Uniti, è obsoleta, come ha riconosciuto nel frattempo anche il Presidente francese Emmanuel Macron. Questo perché la NATO ha smesso da tempo di essere un’alleanza difensiva, ma piuttosto uno strumento per rafforzare la pretesa degli Stati Uniti di rimanere l’unica potenza mondiale. Tuttavia, dovremmo formulare i nostri interessi, che non sono affatto congruenti con quelli degli Stati Uniti.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Lei dice che gli americani sono responsabili dell’esplosione degli oleodotti. Credete davvero che rinuncerebbero alla Germania senza combattere?

Oskar Lafontaine: No, sarà un po’ complicato, ma non vedo alternative. Se noi e gli altri Paesi europei resteremo sotto la tutela degli Stati Uniti, questi ci spingeranno verso il precipizio per proteggere i loro interessi. Dobbiamo quindi ampliare lentamente il nostro raggio d’azione, preferibilmente insieme alla Francia. Come Peter Scholl-Latour, molti anni fa anch’io ho invocato un’alleanza franco-tedesca. A quel punto anche la difesa dei due Stati potrebbe essere integrata, come nucleo di un’Europa indipendente. Per usare un’espressione ormai trita e ritrita: stiamo vivendo le doglie della fase di transizione da un ordine mondiale unipolare a uno multipolare. E qui si pone la questione se prenderemo un posto indipendente in questo nuovo ordine mondiale o se ci lasceremo trascinare nei conflitti di Washington con Mosca e Pechino come vassalli degli Stati Uniti. In questo caso possiamo solo perdere.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Dovremo esaminare nuovamente questo aspetto. L’influenza americana sulla politica e sui media tedeschi è infinitamente grande. Come pensate di guadagnare spazio di manovra?

Oskar Lafontaine: Ha funzionato sotto cancellieri come Willy Brandt, Helmut Schmidt, Helmut Kohl e Gerhard Schröder. Almeno durante alcuni conflitti avevano in mente gli interessi tedeschi e non li hanno gettati in mare per obbedienza. Quando si è a capo di un Paese, occorre anche una spina dorsale. L’immagine del Cancelliere Scholz in piedi come uno scolaretto accanto al Presidente degli Stati Uniti Biden quando ha annunciato che il Nordstream 2 non sarebbe stato realizzato è stata un’umiliazione. E a ciò si aggiungono il Ministro degli Esteri tedesco, che fa da pappagallo alla propaganda statunitense, e il Ministro dell’Economia, che vuole “servire da leader”. Non si può assecondare più di così.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: A che tipo di gioco giocano Baerbock e Habeck?

Oskar Lafontaine: Per quanto riguarda la signora Baerbock, vorrei intervenire in sua difesa. Non sta giocando. Probabilmente è davvero così sempliciotta. E Habeck è completamente sopraffatto nel suo ufficio.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Nel suo libro cita Machiavelli: “Non è colui che per primo prende le armi ad essere l’istigatore del disastro, ma colui che lo costringe”. Si riferisce al conflitto in Ucraina?

Oskar Lafontaine: Naturalmente, mi riferisco anche al conflitto ucraino, iniziato con il colpo di stato del Maidan di Kiev nel 2014. Da allora, gli Stati Uniti e i loro vassalli occidentali armano l’Ucraina e la preparano sistematicamente alla guerra contro la Russia. In questo modo, l’Ucraina è diventata un membro de facto della NATO, anche se non de jure. Questa storia è stata scientemente ignorata dai politici occidentali e dai media mainstream.

Tuttavia, l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo è stata una violazione imperdonabile del diritto internazionale. Le persone muoiono ogni giorno e tutti coloro che, a Mosca, a Kiev o a Washington, sono responsabili del fatto che non c’è ancora un cessate il fuoco, si stanno assumendo un pesante fardello di colpa. Per oltre 100 anni, l’obiettivo dichiarato della politica statunitense è stato quello di impedire a tutti i costi che l’industria e la tecnologia tedesche si fondessero con le materie prime russe. È assolutamente chiaro che abbiamo a che fare con una guerra per procura degli Stati Uniti contro la Russia, preparata da tempo. È imperdonabile che la SPD abbia tradito in questo modo l’eredità di Willy Brandt e la sua politica di distensione e non abbia nemmeno insistito seriamente sul rispetto degli accordi di Minsk.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: E? Gli Stati Uniti hanno raggiunto i loro obiettivi di guerra?

Oskar Lafontaine: Sì e no. In termini di limitazione delle relazioni tra la Federazione Russa e l’UE, hanno avuto un grande successo. Sono anche riusciti a mettere fuori gioco, per il momento, l’UE e la Germania come potenziali rivali geostrategici ed economici. Ancor più che prima del conflitto ucraino, ora determinano le politiche degli Stati dell’UE, anche grazie ai politici compiacenti di Berlino e Bruxelles. Possono vendere il loro sporco gas ottenuto con il fracking e l’industria degli armamenti statunitense fa affari con le bombe.

D’altra parte, non sono riusciti a “rovinare la Russia”, come ha detto la signora Baerbock, uno dei loro portavoce, rovesciando Putin e installando un governo fantoccio a Mosca per ottenere un migliore accesso alle materie prime russe come ai tempi di Eltsin. E ho l’impressione che gli Stati Uniti si rendano conto che stanno mordendo il granito. Nonostante le massicce forniture di armi all’Ucraina e l’invio di numerosi “consiglieri militari”, la Russia, una potenza nucleare, non può essere sconfitta militarmente. Inoltre, le sanzioni occidentali si stanno rivelando un boomerang: stanno danneggiando gli Stati occidentali più della Russia e porteranno alla deindustrializzazione, alla disoccupazione e alla povertà. La popolazione attiva in Europa sta pagando il prezzo delle ambizioni di potere mondiale di un’élite impazzita a Washington e della codardia dei leader europei.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Quindi da qui in poi è tutto in discesa?

Oskar Lafontaine: Dobbiamo urgentemente garantire la fine del conflitto in Ucraina. E questo sarà possibile solo se gli Stati Uniti abbandoneranno il loro piano di mettere in ginocchio la Russia, prima di affrontare la Cina. Per questo è necessaria un’iniziativa europea, che deve partire da Francia e Germania.

Se non lo faremo, e se non troveremo presto un accordo con la Russia sulle importazioni di materie prime ed energetiche, l’economia della Germania e dell’Europa andrà a rotoli e i partiti di destra diventeranno sempre più forti in Europa.

-Traduzione di Marco Pondrelli per Marx21.it da https://deutsche-wirtschafts-nachrichten.de-

#TGP #UE #USA #Russia #Germania #Nato #Geopolitica

[Fonte: Oskar Lafontaine: “L’Europa paga la codardia dei suoi stessi leader”]
 
Oskar Lafontaine, ex ministro delle Finanze tedesco e leader del partito socialdemocratico, ha rilasciato dichiarazioni pesantissime circa il comportamento dell’Europa e della Germania in questa crisi geopolitica, di cui la guerra in Ucraina è solo la parte visibile, e ha lanciato accuse precise nei confronti degli Stati Uniti. Senza mezzi termini, Lafontaine ha attribuito agli americani l’attacco al North Stream(«sono responsabili direttamente o indirettamente») ed ha dichiarato che è da considerarsi come un atto di guerra nei confronti della Germania. Il politico tedesco ha poi spiegato che la Germania, e in generale l’Europa, devono emanciparsi dagli Stati Uniti ed ha chiesto che l’attuale leadership tedesca chieda il ritiro di tutte le strutture militari e delle armi nucleari statunitensi presenti in Germania.

Oskar Lafontaine è stato un politico di primo piano del partito socialdemocratico SPD con cui, nel 1990 fu candidato a cancelliere perdendo le elezioni contro il cristianodemocratico Kohl. Nel 1995 viene eletto Presidente dell’SPD, che porta alla vittoria delle elezioni nel 1998. Nel governo socialdemocratico nato da quelle elezioni, Lafontaine ricoprì l’incarico di Ministro delle finanze, dimettendosi l’anno seguente in aperta polemica con il cancelliere Schröder; sempre per tale motivo, si dimise dalla carica di Presidente della SPD. Il politico tedesco ha lasciato definitivamente la SPD per fondare, nel 2007, il partito politico di sinistra radicale Die Linke, di cui viene nominato Presidente, rimando in carica fino al 2010.

Durante un’intervista rilasciata a Deutsche Wirtschafts Nachrichten, Lafontaine ha detto: «L’esplosione dei due gasdotti è unadichiarazione di guerra alla Germania ed è patetico e vile che il governo tedesco voglia nascondere l’incidente sotto il tappeto. Dice di sapere qualcosa, ma non può dirlo per motivi di sicurezza nazionale». Poi prosegue: «I passeri lo fischiano dai tetti da molto tempo: gli Stati Uniti hanno eseguito direttamente l’attacco o almeno hanno dato il via libera. Senza la conoscenza e l’approvazione di Washington, non sarebbe stato possibile distruggere gli oleodotti, che costituiscono un attacco al nostro Paese, colpiscono la nostra economia nel profondo e vanno contro i nostri interessi geostrategici. È stato un atto ostile contro la Repubblica Federale – non solo contro di essa, ma anche – che chiarisce ancora una volta che dobbiamoliberarci dalla tutela degli americani».

Per quanto concerne la presenza militare statunitense in Germania e sulla NATO, Lafontaine ha dichiarato: «Il ritiro di tutte le strutture militari e delle armi nucleari statunitensi dalla Germania e la chiusura della base aerea di Ramstein. Dobbiamo lavorare con costanza verso questo obiettivo e allo stesso tempo costruire un’architettura di sicurezza europea, perché la NATO, guidata dagli Stati Uniti, è obsoleta [..] Questo perché la NATO ha smesso da tempo di essere un’alleanza difensiva, ma piuttosto uno strumento per rafforzare la pretesa degli Stati Uniti di rimanere l’unica potenza mondiale. In ogni caso, dovremmo formulare i nostri interessi, che non sono affatto congruenti con quelli degli Stati Uniti».

Per il politico tedesco è arrivato il momento di renderci indipendenti dagli Stati Uniti e di giocare la propria partita in autonomia in un mondo multipolare e in dialogo con le altre potenze. Al contrario, qualora non avvenisse, secondo Lafontaine l’Europa potrà soltanto soccombere sotto i colpi dei conflitti in cui saremo trascinarti da Washington per sostenere i propri interessi. Lafontaine è stato netto e chiaro: «L’Europa paga il prezzo della vigliaccheria dei suoi stessi leader».

Poi, Lafontaine attacca il Cancelliere Scholz, definito «scolaretto» in merito alla questione dei gasdotti, e parla di «umiliazione» per la Germania; la Ministro degli Esteri Baerbock è stata invece definita «sempliciotta» e il suo ministero come «pappagallo alla propaganda statunitense». E sulle sanzioni alla Russia ha affermato: «Stanno danneggiando gli Stati occidentali più della Russia e porteranno alla deindustrializzazione, alla disoccupazione e alla povertà».

[di Michele Manfrin]

https://www.lindipendente.online/20...lex-leader-tedesco-lafontaine-scuote-leuropa/
 
CRESCE LA CAPACITA' MISSILISTICA DELLA COREA DEL NORD

Da decenni ormai la Corea del Nord è uno dei paesi più attivi nell'ambito dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e dei vettori missilistici sviluppati al fine di diventarne i vettori. Ora, dopo che il 18 novembre 2022, la Corea del Nord ha effettuato il suo ultimo test missilistico e mentre le indiscrezioni lasciate filtrare dalle agenzie di intelligence fanno presagire l'effettuazione di un nuovo test nucleare (il settimo nella storia del paese), è necessario fare una breve ricapitolazione perché, come se la situazione geopolitica mondiale non fosse già abbastanza complicata, anche gli equilibri politico-militari nella penisola coreana hanno incominciato a scricchiolare vistosamente, ed è bene non farci cogliere impreparati un'altra volta.

Il 18 novembre i nordcoreani hanno testato, ufficialmente con pieno successo, un missile intercontinentale del tipo Hwasong-17, che i giapponesi accreditano essere dotato della capacità di colpire con una testata del peso di 3500 chilogrammi un obiettivo situato ad oltre 15.000 chilometri di distanza.

Precedentemente, il 24 di marzo di quest'anno, i nordcoreani avevano testato un altro Hwasong-17 appartenente però ad uno dei primi modelli assemblati in maniera sperimentale. Nel test di novembre sembra invece che il missile lanciato appartenga alla versione definitiva, ora finalmente pronta per la produzione di massa. È necessario inoltre ricordare che lo Hwasong-17 non è stato l'unico missile balistico intercontinentale (ICBM) che i nordcoreani hanno testato con successo ed accettato per il servizio nelle loro Forze Missilistiche Strategiche nel corso di quest'anno, dato che precedentemente avevano fatto lo stesso anche con i missili Hwasong-14 e Hwasong-15.

Al di là delle singole tipologie e sigle di missili, ciò che tutti noi non dovremmo assolutamente dimenticare è la “visione d'insieme”. È quello che hanno fatto in queste ultime settimane gli analisti giapponesi, e le conclusioni alle quali sono giunti non sono affatto confortanti.

La Corea del Nord è entrata nel club delle “potenze missilistiche” nel periodo compreso tra il 1976 ed il 1981 quando i sovietici cedettero al paese un importante stock di missili balistici a corto raggio del tipo R-17 ed R-300 Ebrus, più noti in Occidente con il nome di SS-1c Scud-B ed SS-1d Scud-C, assieme ai veicoli lanciatori associati (i cosiddetti TEL).

Prima di allora, le uniche armi a lungo raggio in dotazione alle Forze Armate Nordcoreane (formalmente l'Esercito del Popolo Coreano) erano i razzi d'artiglieria sempre di origine sovietica 2K6 Luna e 9K52 Luna-M e le loro rispettive copie nordcoreane Hwasong-1 e Hwasong-3. La Corea del Nord introdusse molto rapidamente questi primi missili balistici nel proprio strumento militare arrivando presto a produrne delle copie migliorate, note rispettivamente con il nome di Hwasong-5 e Hwasong-6.

Il 9 di aprile del 1984 la Corea del Nord effettuò il primo lancio di un missile balistico di progettazione nazionale, marcando così l'inizio di una nuova era nei rapporti militari nella penisola coreana.

Dal 1984 ad oggi sono passato 38 anni e, nonostante tre diversi “sovrani” si siano succeduti sul “trono dei Kim”, l'imperativo di sviluppare un arsenale missilistico tale da poter garantire un efficacie sistema di deterrenza è sempre rimasto un chiodo fisso per la leadership di Pyongyang e nemmeno il regno relativamente “modernizzatore” di Kim Jong-un (ultimo membro della “dinastia”) ha cambiato questa fondamentale realtà dei fatti. Anzi, sotto l'ultimo rampollo della famiglia reggente di Pyongyang, il ritmo dei test missilistici ha visto un incremento persino accresciuto. Su un totale di 182 test missilistici effettuati dalla Corea del Nord dal 1984 sino ad oggi, infatti, 15 avvennero nel corso della leadership di Kim Il-sung, primo leader e padre della patria, 16 furono compiuti da suo figlio e successore Kim Jong-il, e ben 151 sono stati effettuati da Kim Jong-un!

Particolarmente impressionante è stata la brusca accelerazione alla quale abbiamo assistito nel corso del 2022, con ben 31 eventi programmati che hanno portato al lancio di una pluralità di missili in contemporanea, appartenenti sia a modelli già in servizio che ad altri nuovi di zecca.

Come se non bastasse, Kim Jong-un ha anche aumentato lo sforzo nella direzione di raggiungere la piena autonomia nucleare. Se il primo ad accarezzare l'idea di possedere la “Bomba” era già stato suo nonno, e suo padre aveva effettuato due test a basso potenziale, il Kim nipote ne ha già organizzati quattro in soli 10 anni di “regno” e pare ne stia ora preparando un altro entro la fine dell'anno.

Un ultimo elemento di preoccupazione riguarda la potenza delle testate nucleari nordcoreane, passate da un potenziale di non più di 2 kilotoni (primo test nucleare del 9 ottobre 2006) a ben 280 kilotoni dell'ultimo test (3 settembre 2017).

È ormai palese il fatto che la Corea del Nord abbia intenzione, complice la propizia situazione geopolitica mondiale, di giungere “quam maximis itineribus” a possedere un credibile scudo missilistico e nucleare strategico da usare come deterrente nei confronti degli Stati Uniti e dei loro alleati in modo tale da farli desistere dal proposito di espandere le loro posizioni in Asia orientale.

-di Andrea Gaspardo-

#TGP #CoreaDelNord #Geopolitica

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