Dizionario BORSACCHINI

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Addison

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--- IL BORSACCHINI UNIVERSALE ---

Dizionario di lingua volgare (anzi volgarissima) d'uso del popolo


Sapere 'na sega

Incommensurabile risulta l'ambito applicativo della locuzione in oggetto, in virtù anche delle estensioni figurate collegate al lèmma "sega" ("capire una sega", "vedere una sega", " 'mportare una sega"), vero e proprio pilastro dell'espressione popolare di basso registro nell'indicare piccola o ridotta quantità di alcunché o entità trascurabile e di nessun momento.

Numerosi studiosi, specie della School of Philadelphia, si sono reiteratamente chiesti il nesso logico dell'associazione tra il concetto di esiguità e pochezza ed il complesso procedurale che presiede all'attività masturbatoria,traendone le ben note conseguenze sintetizzate nella Carta di Ponsacco del 1986 con il Postulato del Galimberti: «Gira e rigira, 'un ci s'è capito 'na sega» (cfr. ONANO GALIMBERTI - Una sega al giorno leva il medico di torno, Marciana Marina 1965).

La Storia, invece, come sempre ci sovviene riportandoci diverse celebri citazioni dei Grandi in cui l'assunto è ribadito con forza:
il Frullavento, ad esempio riferisce di una memorabile risposta di Giulio Cesare alle sue truppe che temevano di bagnarsi i sandali nell'attraversare il Rubicone: «De manu stuprationibus nolo scire...» (non voglio sape' di seghe...) con la quale si introduce per la prima volta la corrispondenza concettuale tra 'sega' ed 'inezia'.

«Non so 'na sega...» è pertanto la corretta ed elegante locuzione tipicamente attribuita allo studente prima della prova d'esame o dell'interrogazione di matematica,
ma «...sai 'na sega te...» è anche la consueta risposta alle discettazioni dell'esperto da bar intorno alla formazione della Nazionale,
ed ancora: «giovane, qui 'un si vede 'na sega...» dirà appropriatamente il garzone ben educato accidentalmente sedutosi al cinema dietro un signore alto e corpulento,
nonché: «mi fa 'na sega a me...» affermerà con sussiego, tuffandosi nelle acque gelide del mare di Dicembre ad Antignano, l'impavido nuotatore, le cui palle, convenientemente indurite per il freddo e distaccatesi dal natural supporto, saranno festosamente appese dalla moglie ai rami dell'albero di Natale.

Un particolare grazie all'Accademia Della Farina Di Semi Di Lino.

Saluti,
Addison.
 
'un ti sai leva' un dito di 'ulo
(it.: non ti sai levare un dito di c ulo).

Sapida ed immediata locuzione di palese ed incontrovertibile officina labronica.
Non riteniamo sia necessario dare al lettore alcuna spiegazione sulla sua origine e sul suo significato, ma ne raccomandiamo il fantasioso ed icastico costrutto, mettendone altresì in luce - ancorché non ve ne sia bisogno - la fulminante figurazione del concetto di disutilità, che deriva dall'incapacità del soggetto di togliere il proprio dito dall'orifizio anale.
Tale concetto però, lascia peraltro intatto ed irrisolto il complesso di motivazioni per le quali ci se l'era ficcato dentro.

È un enigma di etica pirandelliana oppure un only begetter montaliano quello che viene proposto da questa espressione così pesantemente ardita ma al tempo stesso effimera come un 'gelsomino notturno'?

«Chi di noi - si chiede con comprensibile angustia esistenziale padre Piombanti - è disposto infine ad infilarsi un dito in c ulo per dimostrare che è in grado, poi, di saperselo levare...?»

Segnaliamo ai ricercatori e agli studiosi della materia che la locuzione in oggetto si può ancora udire in casa di mia sorella Argia ogni qual volta si ripresenta la vexata quaestio dell'intasamento periodico dell'acquaio di cucina; in tale frangente infatti mio cognato Oreste immancabilmente dice:
«..lascia stare Argia, non lo chiamare l'idraulico, ci penso io a stasa' l'acquaio..»;
al ché la sullodata, quanto mai opportunamente, risponde:
«..ma cosa voi stasa' te... 'un ti sai leva' nemmeno un dito di 'ulo».

Un particolare grazie all'Accademia Della Farina Di Semi Di Lino.

Saluti,
Addison.
 
Potrei sapere cosa riporta il dizionario alla voce "tegame" rinvenibile nella frase "ir tegame de tu mà"?
E grazie.
 
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«Nel Dizionario Ragionato di Lingua Volgare (anzi volgarissima) d'Usa del Popolo alla fine del Secondo Millennio», alla lettera "T" ho trovato solamente questa ;)

Topa

Rappresenta senza meno, la più esauriente e nota definizione dell'organo genitale femminile in area toscana, nella quale non mancano peraltro pericolosi sintomi di barbaro tralignamento, specie tra le giovani generazioni.
Valgano pertanto sul piano linguistico gli ammaestramenti contenuti alla voce 'trombare' e alla voce 'puppe' e le considerazioni ontologiche espresse alle voci 'potta' e 'fia' che considero, la prima, un superbo sinonimo del lèmma in oggetto, e la seconda un'alternativa di minor impatto fonetico ma di analogo portato semantico.
Né mi sento di negare una certa simpatia per il fiorentino «pàssera», tenero e bonario ma ugualmente pregnante e toscanamente malizioso, con il merito in più di ricondurre i due organi genitali, femminile (pàssera) e maschile (uccello), ad una inopinata par condicio naturalistica ed ecologica, per la gioia degli aderenti al WWF e ad onore di «questa bella famiglia d'erbe e d'animali».

Vale la pena di segnalare, in appendice alle disquizioni intorno al repertorio nutrito di vocaboli che connotano l'organo genitale femminile, come il lèmma «topa» abbia anche assunto la bizzarra connotazione, squisitamente livornese, di dare nome popolare a un pane dolce ripieno di zibibbo, che i fornai preparavano con gli avanzi della pasta, per accontentare i bambini delle clienti.
Fino agli anni cinquanta non era raro sentir dire nelle botteghe, durante la pesata del pane:
«Un chilo e mezzo, sposa, e un po' di topa ar bimbo...» con finto scandalo delle massaie che facevano la spesa e grasse risate degli avventori.
Non si conosce l'origine di questo costume, né la ragione dell'allusione, a meno che non ci si voglia ricondurre alla nota filosofia popolare per cui «un po' di topa 'un guasta mai» o al detto «chi ha topa ha pane, chi ha c-azzo ha fame», perfetta metafora della condizione sociale del basso ceto labronico d'ogni epoca.

Un particolare grazie all'Accademia Della Farina Di Semi Di Lino.

Saluti e grazie,
Addison.
 
Levassi di 'ulo
(it.: levarsi di c-ulo).

Un vero e proprio pilastro della ricca e colorita parlata livornese.
La lectio facilior suggerisce un'immediata traduzione con il generico ''togliere il disturbo'' per la quale non mancano gli esempi anche nella classicità:
«lo duca a me: "leviamosi di 'ulo..." /
disse tastando le sudate palle»
:
così Virgilio a Dante di fronte all'ira di Caronte nella prima stesura della Commedia, scritta dopo quell'operazione alle emorroidi, che gli procurò ansia e dolore più della sconfitta di Campaldino.

Per non tradire comunque la pregnanza semantica dell'espressione vorremmo però aggiungere una breve nota e offrire al lettore un panorama più vasto.

Appare evidente che in qualche modo l'espressione stessa, risulta antitetica di quella più gnomica ''andare nel c-ulo (a qualcuno)'', cioè servirsi della sodomia per dimostrare (a qualcuno) sostanziale indifferenza per la sua persona.

Alla luce di queste considerazioni rifulge la bella citazione del Devoto Greggio parodiata dall'Eneide di Virgilio:
«E come disse Enea /
al figlioletto Julo: /
"Andiamo bimbo, mio /
leviamosi di 'ulo!"»
:
il che se equivale ad una sollecitazione ad allontanarsi dal tragico teatro dell'assalto alla città di *****, rappresenta anche un evidente eufemismo che vela la più complessa situazione emotiva dell'eroe «... che si stava caándo addosso dalla paura».

In appendice è doveroso aggiungere che l'espressione in questione è assai usata nel linguaggio diplomatico internazionale come invito alla smobilitazione di truppe da postazioni strategiche:
«L'ameriàni si sono levàti di 'ulo!...»,
fu il primo annuncio di Radio Hanoi all'indomani del disimpegno militare statunitense nel Vietnam.


Un particolare grazie all'Accademia Della Farina Di Semi Di Lino.

Saluti e grazie,
Addison.
 
Il pane e la sassata

Vigorosa ed altisonante espressione di largo uso toscano ma anche di riconosciuta accezione italiana.
Ci piace evidenziare come i due termini si pongano in drammatica contrapposizione per ricreare una condizione esistenziale di scabro ed essenziale disagio, quale quello di chi è costretto a subire angherie e vessazioni in virtù d'elementari necessità di sopravvivenza.

Pur non essendo in grado di far riferimento ad alcun fatto storico o della tradizione orale, accettiamo volentieri la teoria di Bucciantino Bucciantini (noto castratore di animali domestici del Casentino verso la fine dell'800), che attribuisce la locuzione in oggetto al costume, invero deprecabile ma assai invalso tra i popoli primitivi del Pian di Pisa, di attirare i cani randagi con l'offerta d'un pezzo di pane per poi prenderli a sassate.

Wilfrido Camiciotti-Sudati già esponente della corrente filosofica dei Sadici Sudici di Montenero, ricorda, nel suo volume "Cani e natidancani", che questo costume - in area labronica - fu velocemente esteso ai rapporti sociali di contenzioso tra animali di specie diversa e proverbialmente contrapposti, quali suocera-nuora, operaio-padrone, etc., per cui la locuzione «dare il pane e la sassata» passò a denotare un ambiguo ed invero inaffidabile atteggiamento tendente dapprima ad accattivarsi la fiducia di alcuno, per poi successivamente recargli grave offesa o lesione.
«Roba da buidiulo...» annota con severità il mi' 'ognato Oreste nel suo ponderoso trattato di antropologia criminale, ampiamente desunto dal Beccaria, dal significativo titolo:
Se trovo chi m'ha rubbato la biciretta lo sfaccio a forza di picchi nella ghigna che dopo 'un lo rionosce più nemmeno 'r budello disu 'ma' cane. Ed. Le Sughere 1985.

Un particolare grazie all'Accademia Della Farina Di Semi Di Lino.

Saluti,
Addison.
 
:D:D:D:D:D
(anche se son pisano)
 
non sarà che adeso per leggere qualche cosa di PC dovremo andare sull'arena??

Un po' di divertente distrazione è proprio utile fra tanta serietà.
:clap: :clap:
 
3D meritorio
OK! ;)
 
Ma vedi te che ho trovato

Potta

Il Devoto-Oli, laconicamente, definisce: sostantivo femminile, regionale triviale = vulva.
Il Lotti ne fa ascendere l'etimo all'antica designazione della pentola di terracotta, confermato dall'inglese pot.

Noi non possiamo nascondere la nostra diffidenza nei confronti di chi si ostina a chiamare vulva l'organo genitale femminile, termine parascientifico e foneticamente sgradevole che suggerisce un apparato insidioso e avvolgente come una pianta carnivora.

Pur non negando una infantile inclinazione per il dolce e morbido topa, evocatore di segreti pelami intravisti tra la coscia e il corpo in epoche pre-consumistiche, dobbiamo riaffermare il potere gnomico e paralizzante, tutto toscano, del lèmma potta.

Ed intendiamo tralasciare i pur consistenti riferimenti classici per andare al nòcciolo della questione: non vi è dubbio che in area livornese il termine sviluppi un portato del tutto peculiare, laddove in altre regioni funge da sinonimo colorito dell'organo genitale femminile o da traslato figurato di esso.

A Livorno la 'potta' è in primo luogo veicolo semantico di ostentazione di sé stessa, assommando nel pube rigonfio e doviziosamente baffuto, pregi e difetti di chi lo possiede. «...Boia, che potta!...», diversamente da «... boia, che fìa!...», si pone come un giudizio etico sullo spessore complessivo delI'archetipo femminino piuttosto che come un criterio estetico di apprezzamento delle grazie muliebri.

Un particolare grazie all'Accademia Della Farina Di Semi Di Lino.

Saluti,
Addison.

http://youtube.com/watch?v=jZC1-JHZ1-U
 
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