E' morto l'economista John Kenneth Galbraith

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E' morto l'economista John Kenneth Galbraith
Aveva 97 anni, fu consigliere di Roosvelt, Kennedy e Clinton
30/4/2006



John Kenneth Galbraith
WASHINGTON. È morto a Boston all'età di 97 anni John Kenneth Galbraith, professore di Harvard che acquistò rinomanza mondiale come economista "liberal". A dare la notizia ai media americani è stato il figlio Allen: il professor Galbraith è deceduto all'ospedale Mount Auburn di Cambridge, alle porte di Boston, per non meglio precisate cause naturali. Canadese di nascita, Galbraith fu consigliere economico dei presidenti democratici Franklin D. Roosevelt e Bill Clinton e fu ambasciatore in India del presidente John F. Kennedy.

Galbraith, uno degli autori più letti nella storia delle scienze economiche , scrisse 33 libri, tra cui negli anni '60 "La società opulenta" che, secondo quanto scrive oggi il New York Times, aveva costretto la nazione americana a riesaminare i suoi valori. In quell'opera aveva sostenuto che gli Stati Uniti erano diventati ricchi in merci di consumo, ma poveri nel campo dei servizi sociali.

Scrittore fluido ed in grado di spiegare con semplicità anche gli argomenti più complessi, Galbraith era spesso consultato dai responsabili politici anche se, scrive il Nyt, i suoi pareri erano più spesso ignorati che seguiti. Galbraith partecipò per quasi 70 anni al dibattito politico americano, dagli anni 30 agli anni 90, influenzando le idee dei dirigenti del partito democratico.

In particolare fu consigliere del presidente John Kennedy, per il quale fu anche ambasciatore in India. Anche se alla fine ruppe con il presidente Lyndon Johnson sulla guerra in Vietnam, contribuì a elaborare il suo programma di "Grande societa" e scrisse il discorso presidenziale in cui quel programma venne illustrato.
 
quote..today is largely remembered for introducing phrases as....
Few had spoken before of a 'consumer society'..or worried about
the implications of structuring an economy solely round consumption...unquote
Questa società consumistica non ha provocato molti danni a JKG
vista la veneranda età raggiunta (97)...
come sempre si critica qualcosa e se ne godono i vantaggi...

p.s. è solo una puntura di spillo...devo anche aver letto un suo libro...
 
no comment...
 

Allegati

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Volevo riportare qualche frase celebre dell'economista scomparso:

Economics is extremely useful as a form of employment for economists.

In economics, the majority is always wrong.

E quella che mi piace di più, riguardo all'attuale sistema monetario / finanziario:

The process by which banks create money is so simple that the mind is repelled.
 
il mio post era puramente polemico
 
nat64 ha scritto:
Beh... come non rendere omaggio a questa grande figura di economista e oserei dire anche filosofo:

Se l'economia ,grazie al rapido sviluppo industriale ,e' divenuta una delle scienze fondamentali di questo secolo ,John kenneth Galbraith e' di conseguenza una delle menti piu' brillanti del nostro tempo .
Nel 1958 scuote il mondo accademico con la pubblicazione de "La societa' opulenta" ,il testo di economia tra i piu' discussi degli ultimi decenni .Con encomiabile spregiudicatezza teoretica ,nonche' chiarezza analitica, il saggio propone un'acuta e articolata critica alla "dittatura della produzione " imperante nelle societa' ipersviluppate ,volte ad indurre bisogni fittizi tramite l'uso e l'abuso dello strumento pubblicitario ,con la saturazione del mercato a netto discapito dei beni intrinsecamente utili.Ma non mancano vivide stoccate a problemi come l'abuso e l'illusione delle teorie monetariste ,ai problemi dell'equilibrio sociale e delle ineguaglianze,degli investimenti ,al ruolo delle poverta' ,alla sicurezza ,alla sopravvivenza.

Un testo su cui si e' formata la mia cultura economica e la mia coscienza critica in tema di capitalismo sostenibile e sul concetto di fondo che dietro tutte queste problematiche il protagonista di riferimento e' senza dubbio alcuno l'uomo.

:bow: :bow: :bow:
non ho letto Galbraith (forse un libro ma almeno 30 anni fa..)
mi chiedo come avrebbe risolto il problema dei disoccupati
senza un eccessivo consumismo.....sarà anche deleterio
sotto certi aspetti...ma mi pare che crei posti di lavoro
o no? o sono lavori inutili ai quali potremmo (potrebbero, i lavoratori)
rinunciare?
grazie per le cortesi, come sempre, risposte
 
ramirez ha scritto:
non ho letto Galbraith (forse un libro ma almeno 30 anni fa..)
mi chiedo come avrebbe risolto il problema dei disoccupati
senza un eccessivo consumismo.....sarà anche deleterio
sotto certi aspetti...ma mi pare che crei posti di lavoro
o no? o sono lavori inutili ai quali potremmo (potrebbero, i lavoratori)
rinunciare?
grazie per le cortesi, come sempre, risposte

E' il classico socialdemocratico (io li chiamo socialcomunisti):
- Reddito minimo garantito
- riduzione del numero di giorni lavorativi
- Favorevole alla teoria di Keynes, al New Deal e al Welfare State (ultimamente dice di spostare il costo e il peso delle garanzie del moderno Welfare State sull’imposizione fiscale, togliendolo dal costo del lavoro)
Se campava altri 10 anni, ci avrebbe detto che anche cosi' non va (NDR).
 
claudio_rome ha scritto:
ultimamente dice di spostare il costo e il peso delle garanzie del moderno Welfare State sull’imposizione fiscale, togliendolo dal costo del lavoro

Dipende da cosa si intende per welfare, poi è evidente che anche la migliore distribuzione di questo costo porta un sistema alla bancarotta se vengono a mancare i criteri di assegnazione e di gestione.
Però è un altro discorso e Galbraith ha avuto la fortuna di non essere a contatto con la realtà italiana.

In ogni caso non aiuterebbe la solita "competitività" perchè quella ci confronta con paesi che il welfare manco sanno che significa, quindi per loro non è un costo. Sarebbe solo una ripartizione, in alcuni casi, più equa dell'attuale per questa voce di bilancio.
 
skymap ha scritto:
Dipende da cosa si intende per welfare, poi è evidente che anche la migliore distribuzione di questo costo porta un sistema alla bancarotta se vengono a mancare i criteri di assegnazione e di gestione.
Però è un altro discorso e Galbraith ha avuto la fortuna di non essere a contatto con la realtà italiana.

In ogni caso non aiuterebbe la solita "competitività" perchè quella ci confronta con paesi che il welfare manco sanno che significa, quindi per loro non è un costo. Sarebbe solo una ripartizione, in alcuni casi, più equa dell'attuale per questa voce di bilancio.

E' il welfare state che va abolito.

Si e' visto che caricare troppo i costi sociali sul costo del lavoro e' stato un errore. Adesso propongono di caricare i costi sociali (non piu' dal lavoro) ma sull'imposizione fiscale (ricetta che mi sembra vogliono seguire anche i nostri governanti)

Vedrai tra 10 anni, dopo che si accorgeranno che il loro rimedio avra' fatto enormi danni all'economia .... si inventeranno un terzo rimedio .....

Il rimedio e' uno solo, tagliare i costi!
 
nat64 ha scritto:
Io non ho ricette nel merito del problema della disoccupazione e in genere diffido di chi propone ricette miracolose senza progetti di sostenibilita' alla base .
Di sicuro c'e' che i consumi sono il motore delle economie progredite e fondate sul capitale (di rischio o di impresa) e sono in genere forieri di sviluppo economico ed occupazionale.
Il consumismo fine a se stesso di contro alimenta ,se non contornato da razionali impieghi dei capitali, distorsioni indotte da pessime allocazioni delle risorse.
Un bene reale e' destinato a durare finche' vi sara' necessita' di tale bene e insieme dureranno tutte le implicazioni economiche ad esso riconducibili.
I beni e i bisogni fittizi ,in quanto tali ,vivono stagioni che rischiano di compromettere quanto di buono viene fatto dall'altro lato della piazza (beni e bisogni reali )in quanto le risorse in genere hanno caratteristiche di limitatezza ,a meno di pensare di poter stampare ricchezza a piacere.
Da notare che l'eccessivo consumismo si appalesa anche nell'iirazionale consumo dei beni e bisogni reali


Post piacevole e condivisibile.
L'unico dubbio (se vuoi retorico) e' che nessuno mi sa spiegare CHI decide QUALI sono i "consumi fine a se stessi" e li sa distinguere dai "consumi di beni e bisogni reali".

Forse una televisione pubblica che irradia programmi culturali indicando i consumi "giusti" dai consumi "ingiusti"? E chi mettiamo come redattore capo? Colui che "capisce" i consumi "giusti"? E in base a quale logica questo redattore capo "capisce" i consumi "giusti" da quelli "ingiusti"?


Forse un comitato di politici? Un gruppo parlamentare? La chiesa?

Personalmente a me non piacciono interventi "dall'alto" nella mia scelta di cosa consumare o meno.
Preferisco il libero arbitrio, anche quello condizionato dalla pubblicita'. Anche se questo vuol dire andare a mangiare fuori tutte le sere (che c'e' di male?) Oppure cambiare telefonino una volta alla settimana o quello che ti pare..
 
nat64 ha scritto:
in quanto le risorse in genere hanno caratteristiche di limitatezza ,a meno di pensare di poter stampare ricchezza a piacere.

Forse e' cosi' e forse no. Qualche anno fa' la pensavo anch'io cosi'. Dopo 3 anni negli USA mi sono convinto del contrario. Sono piu' che convinto che qualsiasi prodotto si puo' consumare, buttare, ricliclare e riprodurre (anche diverso dal prodotto originale).
 
Ho bisogno di una informazione...e chiedo a voi esperti.
Il libro citato all'inizio del 3d, "La società opulenta", che dovrebbe essere un po' vecchiotto, se scritto nel '58, esiste in qualche edizione italiana?
(Ho sempre i soliti problemi di traduzione...)
Ringrazio in anticipo chi mi saprà dare una risposta.
 
marpessa ha scritto:
Ho bisogno di una informazione...e chiedo a voi esperti.
Il libro citato all'inizio del 3d, "La società opulenta", che dovrebbe essere un po' vecchiotto, se scritto nel '58, esiste in qualche edizione italiana?
(Ho sempre i soliti problemi di traduzione...)
Ringrazio in anticipo chi mi saprà dare una risposta.

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Obituary
John Kenneth Galbraith
May 4th 2006
From The Economist print edition

John Kenneth Galbraith, economist and public intellectual, died on April 29th, aged 97


ABOVE a large oak bookcase in John Kenneth Galbraith's elegant sitting room in Cambridge, Massachusetts, a framed sampler was displayed. “Galbraith's First Law”, read the meticulous red and blue cross-stitch: “Modesty is a vastly overrated virtue.” He thoroughly believed it. Save for his humble origins on a farm in Ontario, little about Mr Galbraith or his life was modest.

At six foot eight, he was a giant. Intellectually he was equally towering, a man who spent more than seven decades either on the stage of American public policy—as a bureaucrat in Franklin Roosevelt's New Deal, a confidante of John Kennedy and adviser to countless other Democrats—or loudly lambasting Washington from offstage left, as a Harvard professor.


For several of those decades, Mr Galbraith—much to the chagrin of his academic colleagues—could claim to be the best-known economist in the world. His books, more than 40 of them, were spectacularly successful. All this made him an extraordinary public intellectual. But for many, particularly on America's left, he was much more. Mr Galbraith embodied a creed (a broad scepticism of markets and unshakeable belief in a strong state to balance them) and an era, the 1960s, when that sort of liberalism reached its peak. In many eyes, and perhaps his own, Mr Galbraith was America's Great Liberal Economist, the intellectual heir to John Maynard Keynes, whose contributions to economics are underappreciated by a profession obsessed with mathematical formulae.

He was certainly Keynes's heir in his passion for the trenches of public policy, his recognition that economics could and should be accessible, and his way with words. A devotee of Trollope and Evelyn Waugh—“Scoop” was a favourite—Mr Galbraith strove to perfect his prose, reworking each passage at least five times. “It was usually on about the fourth day that I put in that note of spontaneity for which I am known,” he once admitted.

Bons mots, however, seemed to come naturally to him. “Economists are economical, among other things, of ideas; most make those of their graduate days last a lifetime.” “Wealth is not without its advantages, and the case to the contrary, although it has often been made, has never proved widely persuasive.” As Kennedy's ambassador to India, Mr Galbraith preferred to write to the president direct: sending letters through the State Department, he told Kennedy, was “like fornicating through a mattress”.

Where Mr Galbraith differed from Keynes, and from other Great Economists such as Milton Friedman, was that he produced no robust economic theories. Robert Skidelsky, Keynes's biographer, thought that he lacked “the theoretical brilliance, or perhaps merely interest”. In fact, Mr Galbraith disdained a theoretical approach to economics. This was more than a simple aversion to mathematical formulae. The greatest problem with economics, he argued, was its “wilful denial of the presence of power and political interests”. By positing an idealised world of perfect competition, economic theory assumed away the factors that drove societies.

Mr Galbraith was thus less an economist than a mixture of sociologist, political scientist and journalist. His three most influential books were snapshots of the America of their time. In “American Capitalism” (1952), giant firms were balanced by the “countervailing power” of, for instance, unions; in “The Affluent Society” (1958), massive private consumption coexisted with public decay; in “The New Industrial State” (1967), producers held all the economic power and competition was irrelevant. Time proved especially unkind to that idea.

His faith in government, born of the searing experience of the Depression, verged sometimes on the bizarre. In 1973, for instance, he argued that America's few-hundred biggest companies should be brought into public ownership. Yet if Mr Galbraith was often wrong, he nonetheless gave much to American public life. “The Affluent Society” not only changed the way the country viewed itself, but gave new phrases to the language: “Conventional wisdom”, “the bland leading the bland”, “private opulence and public squalor”. Amartya Sen, the Indian economist, said that reading it was like reading “Hamlet”: “You realise where [all the quotations] came from”.

Competition in Gstaad
Long after Mr Galbraith's brand of big-government liberalism fell out of favour, he remained its standard-bearer. His acerbic comments on public policy were always worth reading. In private matters he was not partisan, and could count Bill Buckley, the conservative intellectual, among his closest friends. In the local bookstore in Gstaad, where they both went skiing, they would battle to get their books the best spot in the window.

A decade ago, Mr Galbraith lamented that old age brought an annoying affliction he called the “Still Syndrome”. People would constantly note that he was “still” doing things: still “interested in politics” when he showed up at a meeting, “still imbibing” when he had a drink and “still that way” when his eyes lit up on seeing a beautiful woman. The Still Syndrome lasted an immodestly long time. Its passing has left America poorer.
 
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