Fabrizio De André

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Mastica e sputa
Da una parte il miele
Mastica e sputa
Dall'altra la cera
Mastica e sputa
Prima che venga neve
Luce luce lontana
Più bassa delle stelle
Sarà la stessa mano
Che ti accende e ti spegne
Ho visto Nina volare
Tra le corde dell'altalena
Un giorno la prenderò
Come fa il vento alla schiena
E se lo sa mio padre
Dovrò cambiar paese
Se mio padre lo sa
M'imbarcherò sul mare
Mastica e sputa
Da una parte il miele
Mastica e sputa
Dall'altra la cera
Mastica e sputa
Prima che faccia neve
Stanotte e venuta l'ombra
L'ombra che mi fa il verso
Le ho mostrato il coltello
E la mia maschera di gelso
E se lo sa mio padre
Mi metterò in cammino
Se mio padre lo sa
M'imbarcherò lontano
Mastica e sputa
Da una parte la cera
Mastica e sputa
Dall'altra parte il miele
Mastica e sputa
Prima che metta neve
Ho visto Nina volare
Tra le corde dell'altalena
Un giorno la prenderò
Come fa il vento alla schiena
Luce luce lontana
Che si accende e si spegne
Quale sarà la mano
Che illumina le stelle
Mastica e sputa
Prima che venga neve
Fonte: Musixmatch
Compositori: Ivano Fossati / Fabrizio De Andre'
Testo di Ho visto Nina volare © Nuvole Edizioni Musicali Sas, Il Volatore Srl, Universal Music Publishing Ricordi Srl


Nina e De André, 80 anni volando sull’altalena​

Nina Manfieri
“Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena…”, eppure io me la ricordo diversamente. Era un bambino quello che spesso si accaparrava l’altalena della casa del mezzadro, si sedeva sul seggiolino e volava. Chi lo spingeva era una bambina. Lui si chiamava Fabrizio, e lei Nina.
Ho visto Nina volare è la canzone che Fabrizio De André ha inserito nel suo ultimo album, Anime salve. Un brano che mi ha dedicato e che parla di noi, della nostra infanzia spensierata all’insegna della libertà, mentre a pochi metri di distanza la guerra imperversava.
Fabrizio De André
Nina Manfieri
Io e Fabrizio siamo nati nello stesso anno, il 1940, siamo cresciuti insieme a Revignano d’Asti. Avevamo due anni quando la famiglia De André acquistò la cascina accanto a quella dove viveva la mia famiglia. Erano sfollati in Piemonte perché il padre era ricercato dai fascisti per aver dato rifugio ad alcuni ebrei nella sua scuola. Il professor De André arrivò con la moglie Luisa, i figli – con Fabrizio c’era il fratello maggiore, Mauro – la madre e la suocera. Poi la guerra finì, ma loro se ne andarono solo nel 1950.
Io, Mauro e Fabrizio eravamo gli unici bambini, quindi fu naturale diventare compagni di giochi. Ben presto rimanemmo solo io e Bicio – così lo chiamavamo tutti. Suo fratello era più grande, molto riservato e solitario, noi invece eravamo due zingarelli scalmanati che passavano le giornate all’aria aperta a correre tra i campi, a fare scherzi, a giocare con gli animali, e ad andare sull’altalena: era il nostro gioco di ogni giorno, d’estate. La nostra è stata un’infanzia felice e Fabrizio è qui che ha scoperto il suo grande amore per la natura, gli animali e la vita di campagna. Ricordo che spesso, quando litigavamo, lui mi diceva in un perfetto dialetto piemontese: «Ricordati Nina, s’am fai anrabié at spus pi nen!» (Ricordati che se mi fai arrabbiare non ti sposo più). Probabilmente devo averlo fatto arrabbiare, visto che non solo non mi ha mai sposata, ma non si è mai più fatto vedere fino al 1997.
Io sono sempre rimasta alla Cascina dell’Orto invece, mi sono sposata, ho avuto due figli, ho vissuto con mia madre e la famiglia di mio marito. Poco è cambiato negli anni, fino al 20 settembre del 1997. Era un sabato come tanti altri, io ero all’ombra di una pianta e stavo mettendo i peperoni in composta. Mio marito Antonio mi si avvicinò con un’espressione sorpresa e mi disse solo: «Al cancello c’è De André». Subito pensai che fosse uno scherzo, ma poi andai a vedere, ed era proprio vero. Fabrizio era lì, quarant’anni dopo. L’idea che mi ero fatta di lui negli anni era che, diventato una celebrità, un personaggio famoso, fosse cambiato, fosse diventato un signore sofisticato, ed invece l’uomo che mi trovai davanti era la persona più semplice e alla mano che potessi immaginare. Tornammo indietro nel tempo, a quei due bambini che non ci avevano mai abbandonato ed erano rimasti dentro di noi in attesa del giorno in cui ci saremmo rivisti. Fabrizio volle rivedere i nostri luoghi, la casa dove era cresciuto, il portico, la sorgente e il pozzetto delle salamandre dove da bambini passavamo le ore ed i pomeriggi interi, per poi tornare a casa con l’acqua fresca per le nostre famiglie. De André – a volte mi viene da chiamarlo per cognome – si stupì di come ogni cosa fosse rimasta intatta nel tempo, esattamente identica a come lui se la ricordava.
Mi fece moltissime domande su quei nostri anni spensierati, mi chiese se mi ricordavo come si chiamasse l’asinella che suo padre gli aveva regalato il Natale del 1944. Si chiamava Lidia, e io me lo ricordavo perfettamente. Ripensammo insieme alle canzoni popolari che si cantavano durante la guerra, alle parole che non avevamo dimenticato e a tutto ciò che amavamo, come il pane che faceva ogni giorno mia nonna. Fabrizio rimase con noi quattro ore: gli offrimmo del Moscato ma lui lo rifiutò, erano più di dieci anni che aveva smesso di bere. In compenso fumava una sigaretta dietro l’altra, quelle non le avrebbe mai abbandonate. Gli chiesi perché non fosse tornato prima. Lui non mi diede una vera e propria risposta, solo mi disse: «Ti ho ricordata in una canzone». Io mi commossi, proprio come era successo l’anno precedente, quando l’avevo ascoltata per la prima volta.
Fabrizio De André
Fabrizio e Nina con l’asinella Lidia
Mio figlio era tornato a casa un pomeriggio e mi aveva detto che De André doveva avermi dedicato una canzone. Io avevo dato poco peso a questa rivelazione, non poteva essere vero. Poi, però, la ascoltai e vidi il videoclip in televisione: c’erano due bambini, una femmina e un maschio, una bicicletta, delle corse a perdifiato per i campi. Non ebbi più dubbi, quella canzone era per me, i ricordi, l’altalena, il miele delle api che tanto ci interessava osservare, il padre che aveva dovuto cambiar paese. Mi emozionai immensamente: io non avevo dimenticato Fabrizio, e in quel momento ebbi la prova che lui non aveva dimenticato me.
Alla fine di quel pomeriggio, quando Fabrizio si congedò, ci abbracciammo e ci tenemmo stretti per qualche istante. Ebbi la netta sensazione che quel saluto non fosse un arrivederci, ma un addio. Purtroppo, non mi sbagliavo.
Oggi Fabrizio compirebbe ottant’anni, io li faccio tra un mese: sono una nonna felice che si gode la sua famiglia. Penso a come lui sarebbe oggi, e nitidamente lo vedo a fare il contadino nella sua Sardegna, lontano dai riflettori e dai palchi che tano lo mettevano a disagio. Lo vedo circondato dalla natura e dagli animali e penso che – potendosi permettere di sognare – potrebbe essere anche qui, alla Cascina dell’Orto… quella sì che sarebbe un’autentica meraviglia.

Nina e De André, 80 anni volando sull'altalena - Limina | Rivista Culturale Online
 
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Crêuza de mä
Umbre de muri muri de mainé
dunde ne vegnì duve l’è ch’ané
da ‘n scitu duve a l’ûn-a a se mustra nûa
e a neutte a n’à puntou u cutellu ä gua
e a muntä l’àse gh’é restou Diu
u Diàu l’é in çë e u s’è gh’è faetu u nìu
ne sciurtìmmu da u mä pe sciugà e osse da u Dria
a a funtan-a di cumbi ‘nta cä de pria.
E ‘nt’a cä de pria chi ghe saià
int’à cä du Dria che u nu l’è mainà
gente de Lûgan facce da mandillä
qui che du luassu preferiscian l’ä
figge de famiggia udù de bun
che ti peu ammiàle senza u gundun.
E a ‘ste panse veue cose che daià
cose da beive, cose da mangiä
frittûa de pigneu giancu de Purtufin
çervelle de bae ‘nt’u meximu vin
lasagne da fiddià ai quattru tucchi
paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi.
E ‘nt’a barca du vin ghe naveghiemu ‘nsc’i scheuggi
emigranti du rìe cu’i cioi ‘nt’i euggi
finché u matin crescià da puéilu rechéugge
frè di ganeuffeni e dè figge
bacan d’a corda marsa d’aegua e de sä
che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na creuza de mä.
Creuza di mare
Ombre di facce facce di marinai
da dove venite dov’è che andate
da un posto dove la luna si mostra nuda
e la notte ci ha puntato il coltello alla gola
e a montare l’asino c’è rimasto Dio
il Diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido
usciamo dal mare per asciugare le ossa dall’Andrea
alla fontana dei colombi nella casa di pietra.
E nella casa di pietra chi ci sarà
nella casa dell’Andrea che non è marinaio
gente di Lugano facce da tagliaborse
quelli che della spigola preferiscono l’ala
ragazze di famiglia, odore di buono
che puoi guardarle senza preservativo.
E a queste pance vuote cosa gli darà
cosa da bere, cosa da mangiare
frittura di pesciolini, bianco di Portofino
cervelle di agnello nello stesso vino
lasagne da tagliare ai quattro sughi
pasticcio in agrodolce di lepre di tegole.
E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli
emigranti della risata con i chiodi negli occhi
finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere
fratello dei garofani e delle ragazze
padrone della corda marcia d’acqua e di sale
che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare

In Liguria la crêuza è una mulattiera, spesso con dei gradoni sconnessi, che sale verso la collina o che dal verde arriva verso il mare. È accompagnata da muri a secco, a volte con dei cocci di vetro colorati sopra, sembrano delle sentinelle. È un limite. Un confine che nella canzone simbolo di De André fa da sfondo a istantanee di piccole grandi umanità. Per i liguri e per chi ama la Liguria, paradossalmente, la crêuza non “chiude” in un limite stretto fra due mura, ma porta verso uno spazio aperto, per questo è un luogo dell’anima. Un’anima ferita a morte dopo il crollo di Ponte Morandi, il 14 agosto 2018.
Oggi Genova, a due anni di distanza da quel buio infinito, ha un nuovo Ponte e guarda al futuro. Ma non dimentica e non può farlo. La nuova versione di “Crêuza de mä”, ideata dalla vedova di De André, Dori Ghezzi, e curata musicalmente da Mauro Pagani, già co-autore e arrangiatore della versione originale del 1984, deve essere calata in questa attualità o rischia di essere compresa solo marginalmente. Si tratta di una nuova edizione, a cui hanno contribuito diciotto artisti, nata per stringersi attorno alla città e alla sua riscossa, sulle parole e le note di una canzone simbolo. Molti dei nomi scelti sono azzeccati, altri meno. Attenzione: la questione non è la pronuncia più o meno corretta delle parole in genovese, ma l’intensità nel cantarla. Anche perché la forza di “Crêuza de mä” non è stata, come banalmente spesso si crede, solo aver fatto assurgere il genovese a lingua ascoltata a livello nazionale e internazionale, ma l’averla legato a suoni, parole e riferimenti di varie culture mediterranee e non, riallacciandosi alla storia multietnica e multiforme di Genova e quindi dell’Italia.
I grandi mix di timbri vocali difficilmente, soprattutto su canzoni di questo tipo, funzionano. L’iconico attacco del brano è intatto, con la voce dello stesso De André. Inevitabilmente, fra gli artisti scelti, c’è chi si lega alle parole del brano, chi le fa sue, mentre altri le ripetono come una messa cantata. Le parti assegnate a Vasco Rossi, Vittorio De Scalzi, Vinicio Capossela, Giua, Guccini, Cristiano De André e Fossati, solo per fare alcuni esempi, seppur nella brevità del contributo, sono sulla pelle degli stessi artisti, hanno una vibrazione tutta loro.
E si sente. Fresu accarezza il testo con la sua tromba. La sostituzione delle voci del Mercato del Pesce di Genova, registrate da De André per la parte finale della canzone, con quelle di Jack Savoretti e Sananda Maitreya può comprensibilmente far storcere il naso. Quelle urla catturate dalla pancia della gente che affollava quel luogo di scambio così legato alle radici della città, non sono sostituibili. La resa finale, al netto di alcune zone d’ombra, regge, grazie e soprattutto alla regia di Pagani. Se poi questa versione la si paragona a interpretazioni come quella di Morgan tradotta tragicamente in italiano, non si può che apprezzare, soprattutto nel coro di voci che affolla il ritornello, quel ciondolante “.eianda euè” più denso e forte rispetto all’originale come se fossero più abbracci.

Un’ultima considerazione: proprio per le premesse fatte, sarebbe stato significativo veder comparire in questa canzone almeno uno di quei ragazzi che, in questi anni, hanno saputo raccontare Genova meglio di tanti cantautori contemporanei. Tedua, Izi, Bresh, solo per fare alcuni nomi della scena rap ligure, riconosciuta a livello nazionale e sempre distintasi per visceralità e intensità dei testi, non ci sono. La questione non è il volere per forza schierare un rapper (anche gli Ex-Otago, nel campo pop, si sarebbero potuti prendere in considerazione), ma poiché la canzone nasce come lettera d’amore per il futuro della città e del Paese, sarebbe stato bello quel futuro, in questo caso artistico, vederlo in parte rappresentato.

I diciotto artisti e le parti di testo cantate: Fabrizio De André (Umbre de muri, muri de mainé dunde ne vegnì duve l'è ch'ané), Mina (Da 'n scitu duve a l'ûn-a a se mustra nûa e a neutte a n'à puntou u cutellu ä gua), Zucchero (E a muntä l'àse gh'é restou Diu, u Diàu l'é in çë e u s'è gh'è faetu u nìu), Diodato (Ne sciurtìmmu da u mä pe sciugà e osse da u Dria), Gianna Nannini (E a funtan-a di cumbi 'nta cä de pria), Mauro Pagani (E 'nt'a cä de pria chi ghe saià),
Giua (Int'à cä du Dria che u nu l'è mainà), Vinicio Capossela (Gente de Lûgan, facce da mandillä, qui che du luassu preferiscian l'ä), Vasco Rossi (Figge de famiggia udù de bun che ti peu ammiàle senza u gundun), Paolo Fresu, Vittorio De Scalzi (E a 'ste panse veue cose ghe daià, cose da beive, cose da mangiä, frittûa de pigneu, giancu de Purtufin, cervelle de bae 'nt'u meximu vin), Antonella Ruggiero (Lasagne da fiddià ai quattru tucchi), Francesco Guccini (Paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi), Ivano Fossati (E 'nt'a barca du vin ghe naveghiemu 'nsc'i scheuggi, emigranti du rìe cu'i cioi 'nt'i euggi), Ornella Vanoni (Finché u matin crescià da puéilu rechéugge), Giuliano Sangiorgi (Frè di ganeuffeni e dè figge), Cristiano De André (Bacan d'a corda marsa d'aegua e de sä che a ne liga e a ne porta 'nte 'na creuza de mä) e Jack Savoretti, Sananda Maitreya.

(Claudio Cabona)

√ La nuova versione di “Crêuza de mä”: l’ascolto. Il testo: chi canta cosa.
 

Lengua 'nfeuga Jamin-a
lua de pelle scûa
cu'a bucca spalancà
morsciu de carne dûa

stella neigra ch'a lûxe
me veuggiu demuâ
'nte l'ûmidu duçe
de l'amë dû teu arveà

ma seu Jamin-a
ti me perdunié
se nu riûsciò a ésse porcu
cumme i teu pensë

destacchete Jamin-a
lerfe de ûga spin-a
fatt'ammiâ Jamin-a
roggiu de mussa pin-a

e u muru 'ntu sûù
sûgu de sä de cheusce
duve gh'è pei gh'è amù
sultan-a de e bagasce
dagghe cianìn Jamin-a

nu navegâ de spunda
primma ch'à cuæ ch'à munta e a chin-a
nu me se desfe 'nte l'unda
e l'ûrtimu respiu Jamin-a

regin-a muaé de e sambe
me u tegnu pe sciurtï vivu
da u gruppu de e teu gambe

Lingua infuocata Jamin-a
lupa di pelle scura
con la bocca spalancata
morso di carne soda

Stella nera che brilla
mi voglio divertire
nell'umido dolce
del miele del tuo alveare

Sorella mia Jamin-a
mi perdonerai
se non riuscirò a essere porco
come i tuoi pensieri

Staccati Jamin-a
labbra di uva spina
fatti guardare Jamina
getto di fica sazia

E la faccia nel sudore
sugo di sale di cosce
dove c'è pelo c'è amore
sultana delle *****
vacci piano Jamina

Non navigare di sponda
prima che la voglia che sale e scende
non mi si disfi nell'onda
e l'ultimo respiro Jamina

Regina madre delle sambe
me lo tengo per uscire vivo
dal nodo delle tue gambe

Jamin-a è un'amica algerina. Tutti quanti ma soprattutto la stampa più retriva ha detto che era una prostituta ed è invece una splendida compagna di viaggio. Ce ne fossero di Jamine! Voglio dire: è una Bocca di Rosa vista attraverso un'esperienza personale. Ed è forse l'unica canzone erotica del mio repertorio.
[Fabrizio De André, in Alfredo Franchini, Uomini e donne di Fabrizio De André, pp. 73-74]
Canzone dal contenuto hard [...]. Non chiamatela prostituta, fareste adirare l'autore che l'ha scritta pensando a una belva del sesso. Chi è Jamin-a? [...] Jamin-a è la compagna di un viaggio erotico che ogni marinaio spera, o meglio pretende d'incontrare in ogni porto dopo le pericolose bordate subite per colpa di un mare nemico o di un comandante malaccorto. A Genova c'è un detto popolare - ricorda Fabrizio - che riferito alla gente che naviga e tradotto in italiano, recita: "Cara moglie, passato il monte di Portofino torno libero e scapolo". Jamin-a è quindi il compenso che il marinaio pretende di ricevere per il proprio rischio, per la sua pericolosa ginnastica d'obbedienza di fronte all'avventura.
[Alfredo Franchini, Uomini e donne di Fabrizio De André, p. 45]
Attravero i suoni e le urla del mercato del pesce di Genova, Jamin-a ci conduce nel mondo dell'erotismo. Non si può definirla una prostituta, anche se è chiamata sultana delle bagasce: è una macchina perfetta del sesso, è un'instancabile goditrice dei beni della carne, è quella donna della quale si terrebbe nascosto perfino il desiderio, ma che molti vorrebbero incontrare, almeno una volta, nel loro navigare. Gli aggettivi per definirla si sprecano: lingua infuocata - lupa di pelle scura - morso di carne soda - sugo di salse di cosce - stella nera che brilla - labbra di uva spina... Il linguaggio è tenuto sempre lontano dalla volgarità ed il testo non ha niente da invidiare ad alcune poesie di Catullo, anche se, nella traduzione in italiano, questo aspetto può andare perso.
[Matteo Borsani - Luca Maciacchini, Anima salva, p. 137]
 

Canzone Del Maggio

E’ il primo, vero brano di Storia Di Un Impiegato.
Il giovane impiegato, protagonista dell’album, non era dietro le barricate durante il ’68. Non è la sua voce quella che in Canzone Del Maggio sta accusando chi non c’era di essere direttamente responsabile del fallimento.
É come se l’impiegato provasse a immaginare l’accusa che gli verrebbe mossa da chi c’era durante le rivolte.
De André in questa canzone mette in luce l’immobilismo, la paura e la scarsa solidarietà del gregge nei confronti di quelle poche pecore che provano a combattere la casta dei lupi.

[...]

Canzone Del Maggio, Fabrizio De André: Testo Originale e Significato





Inizialmente il testo di Canzone Del Maggio era più crudo. Censurato su pressioni della casa discografica, De André e Bentivoglio lo cambiano in un secondo momento...

La versione originale


Voi non potete fermare il vento

Gli fate solo perdere tempo.
 

La chiamavano bocca di rosa
Metteva l'amore, metteva l'amore
La chiamavano bocca di rosa
Metteva l'amore sopra ogni cosa
Appena scese alla stazione
Nel paesino di Sant'Ilario
Tutti si accorsero con uno sguardo
Che non si trattava di un missionario
C'è chi l'amore lo fa per noia
Chi se lo sceglie per professione
Bocca di rosa né l'uno né l'altro
Lei lo faceva per passione
Ma la passione spesso conduce
A soddisfare le proprie voglie
Senza indagare se il concupito
Ha il cuore libero oppure ha moglie
E fu così che da un giorno all'altro
Bocca di rosa si tirò addosso
L'ira funesta delle cagnette
A cui aveva sottratto l'osso
Ma le comari d'un paesino
Non brillano certo in iniziativa
Le contromisure fino a quel punto
Si limitavano all'invettiva
Si sa che la gente dà buoni consigli
Sentendosi come Gesù nel tempio
Si sa che la gente dà buoni consigli
Se non può più dare cattivo esempio
Così una vecchia mai stata moglie
Senza mai figli, senza più voglie
Si prese la briga e di certo il gusto
Di dare a tutte il consiglio giusto
E rivolgendosi alle cornute
Le apostrofò con parole argute
"Il furto d'amore sarà punito"
Disse "dall'ordine costituito"
E quelle andarono dal commissario
E dissero senza parafrasare
"Quella schifosa ha già troppi clienti
Più di un consorzio alimentare"
Ed arrivarono quattro gendarmi
Con i pennacchi, con i pennacchi
Ed arrivarono quattro gendarmi
Con i pennacchi e con le armi
Spesso gli sbirri e i carabinieri
Al proprio dovere vengono meno
Ma non quando sono in alta uniforme
E l'accompagnarono al primo treno
Alla stazione c'erano tutti
Dal commissario al sacrestano
Alla stazione c'erano tutti
Con gli occhi rossi e il cappello in mano
A salutare chi per un poco
Senza pretese, senza pretese
A salutare chi per un poco
Portò l'amore nel paese
C'era un cartello giallo
Con una scritta nera
Diceva "addio bocca di rosa
Con te se ne parte la primavera"
Ma una notizia un po' originale
Non ha bisogno di alcun giornale
Come una freccia dall'arco scocca
Vola veloce di bocca in bocca
E alla stazione successiva
Molta più gente di quando partiva
Chi mandò un bacio, chi gettò un fiore
Chi si prenota per due ore
Persino il parroco che non disprezza
Fra un miserere e un'estrema unzione
Il bene effimero della bellezza
La vuole accanto in processione
E con la Vergine in prima fila
E bocca di rosa poco lontano
Si porta a spasso per il paese
L'amore sacro e l'amor profano
Fonte: LyricFind
Compositori: Fabrizio De Andrè / Gian Piero Reverberi / Roberto Ferri
Testo di Bocca di rosa © BMG Rights Management, Sony/ATV Music Publishing LLC, Universal Music Publishing Group
 

Quando la morte mi chiamerà
forse qualcuno protesterà
dopo aver letto nel testamento
quel che gli lascio in eredità
non maleditemi non serve a niente
tanto all'inferno ci sarò già

ai protettori delle battone
lascio un impiego da ragioniere
perché provetti nel loro mestiere
rendano edotta la popolazione

ad ogni fine di settimana
sopra la rendita di una put.tana
ad ogni fine di settimana
sopra la rendita di una put.tana

voglio lasciare a Bianca Maria
che se ne frega della decenza
un attestato di benemerenza
che al matrimonio le spiani la via

con tanti auguri per chi c'è caduto
di conservarsi felice e cornuto
con tanti auguri per chi c'è caduto
di conservarsi felice e cornuto

sorella morte lasciami il tempo
di terminare il mio testamento
lasciami il tempo di salutare
di riverire di ringraziare
tutti gli artefici del girotondo
intorno al letto di un moribondo

signor becchino mi ascolti un poco
il suo lavoro a tutti non piace
non lo consideran tanto un bel gioco
coprir di terra chi riposa in pace

ed è per questo che io mi onoro
nel consegnarle la vanga d'oro
ed è per questo che io mi onoro
nel consegnarle la vanga d'oro

per quella candida vecchia contessa
che non si muove più dal mio letto
per estirparmi l'insana promessa
di riservarle i miei numeri al lotto

non vedo l'ora di andar fra i dannati
per rivelarglieli tutti sbagliati
non vedo l'ora di andar fra i dannati
per rivelarglieli tutti sbagliati

quando la morte mi chiederà
di restituirle la libertà
forse una lacrima forse una sola
sulla mia tomba si spenderà
forse un sorriso forse uno solo
dal mio ricordo germoglierà

se dalla carne mia già corrosa
dove il mio cuore ha battuto un tempo
dovesse nascere un giorno una rosa
la do alla donna che mi offrì il suo pianto

per ogni palpito del suo cuore
le rendo un petalo rosso d'amore
per ogni palpito del suo cuore
le rendo un petalo rosso d'amore

a te che fosti la più contesa
la cortigiana che non si dà a tutti
ed ora all'angolo di quella chiesa
offri le immagini ai belli ed ai brutti

lascio le note di questa canzone
canto il dolore della tua illusione
a te che sei costretta per tirare avanti
costretta a vendere Cristo e i santi

quando la morte mi chiamerà
nessuno al mondo si accorgerà
che un uomo è morto senza parlare
senza sapere la verità
che un uomo è morto senza pregare
fuggendo il peso della pietà

cari fratelli dell'altra sponda
cantammo in coro già sulla terra
amammo tutti l'identica donna
partimmo in mille per la stessa guerra
questo ricordo non vi consoli
quando si muore si muore si muore soli
questo ricordo non vi consoli
quando si muore si muore soli.

 
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