Gerhard Richter

sto studiando Beuys ed i suoi allievi, I nuovi selvaggi, Richter.
 
Ovviamente, il sodalizio più noto fu quello tra Richter e Sigmar Polke (record d’asta circa EUR 21,5M), entrambi studenti dell’artista informale Karl Otto Götz all’Accademia di Düsseldorf, nel 1962. Karl Otto Götz non è molto conosciuto da noi, ma è ancora rispettato in Germania e ha un record price in asta di EUR 140k.

Al sodalizio Richter/Polke Christie’s ha dedicato nel 2014 una mostra e un intero libro, con saggi di Robert Brown, Faith Chisholm, Dietmar Elger, Jill Lloyd, Axel Homrich Murken e Crista Murken-Altrogge, Kenny Schachter:

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Non è possibile riportare qui l’intero percorso Richter/Polke. Uno sguardo sugli inizi può però portare alla luce qualche nome qui da noi poco frequentato.

Come dicevo, si ritrovano a studiare nella classe di Götz i due colossi, insieme ai qui da noi meno noti Konrad Lueg (record in asta EUR 350k) e Manfred Kuttner (sul mercato non c’è praticamente nulla).
Com’è noto, i quattro diedero vita al “Realismo Capitalista”, con una famosa mostra del maggio del 1963.

La prima mostra a due, Richter e Polke, venne organizzata da August Haseke, che aveva studiato anche lui all’Accademia di Düsseldorf dal 1954 al 1959 e che dopo il diploma si era trasferito a Hannover per insegnare. Lì, il 19 novembre del ’65 aveva poi aperto una galleria, chiamata Galerie h, inaugurando con una personale del pittore di Düsseldorf Gotthard Graubner (il cui record d’asta sfiora gli EUR 500k). A questa mostra seguirono altre due personali di ex-studenti di Düsseldorf anche loro trasferitisi a Hannover: Siegfried Neuenhausen (soprattutto scultore, ma ormai non molto apprezzato dal mercato) e Raimund Girke (ha sfiorato i 100k euro in asta, ma ha prezzi medi inferiori).
Dal primo al 26 di marzo del 1966, la mostra congiunta Richter-Polke era quindi solo la quarta mostra di questa giovanissima (e straordinaria) galleria.
Ecco il manifesto della mostra:

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E loro due:

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Di frequente, nel passato, ho ricevuto richieste di sue opere, senza mai riuscire a trovarne una realmente disponibile.
 
Una cospicua raccolta di opere di Richter (esposte a rotazione) è nella collezione del bellissimo Museum Frieder Burda, ospitato nell’edificio progettato dall’archistar americana Richard Meier, a Baden-Baden.

Nel 2016 ha ospitato una mostra dal titolo “Grosse Abstraktion” che accostava, per l’appunto, opere di Richter a lavori di Knoebel, Palermo e Polke (oltre a lavori di de Kooning, Gottlieb, Still, LeWitt, Andre e uno di Warhol della serie Shadows).
Dato che mi sembra che non ci siano molte testimonianze di questa mostra in rete, mi fa piacere condividere con voi qualche immagine dal catalogo, così ci riempiamo un po’ gli occhi…


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Allegati

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Stavo rileggendo il libro curato da Robert Storr, “Gerhard Richter: Forty Years of Painting”, pubblicato dal MoMA in occasione della grande retrospettiva del 2002.
Traduco e riporto qualche passaggio, per approfondire il discorso dei post precedenti.

L’isolamento di Richter dal resto del mondo dell’arte contemporanea durante la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 venne alleviato dall’amicizia con Blinky Palermo. Fu un’amicizia che crebbe di pari passo con l’aumentare della distanza fra Richter e Polke, in parte dovuta al rapido (in proporzione) riconoscimento che aveva ricevuto Richter, mentre la risposta ai lavori e ai progetti di Polke era stata molto più lenta. (…) Come Richter e Polke, Palermo era originario della Germania Est. (…) Nel 1963 entrò a far parte della classe di Beuys, che lo trattava come il suo favorito e che divenne il suo padre artistico. Beuys suggerì lo pseudonimo Blinky Palermo (…), che il suo protetto assunse nel 1964. Dotato della più sottile sensibilità artistica, ma instabile emozionalmente e autodistruttivo – morì a 34 (sic) anni alle Maldive dopo anni di forti abusi di alcolici e droghe – Palermo era una specie di figura romantica, ma la sua arte era assolutamente contemporanea (…). Commentando la sua affinità con Palermo, Richter spiegava che era in parte basata sulla differenza nelle loro abilità e attitudini. Parlando con il curatore svizzero Dieter Schwarz, Richter ha dichiarato: “I suoi quadri costruttivi mi sono rimasti impressi nella memoria, perché esercitavano su di me una particolare attrazione, in quanto io non sono in grado di produrre nulla di simile. (…) C’era una qualità estetica che amavo e che non potevo produrre, ma ero felice che una cosa simile esistesse a questo mondo. Al confronto, le mie cose mi sembravano distruttive, prive di questa bellissima chiarezza”.
 
Il più importante progetto che Palermo e Richter realizzarono insieme ha riguardato una sala della galleria di Heiner Friedrich a Colonia, nel 1971. Palermo aveva dipinto di ocra le pareti, mentre al centro della sala, su due alti piedistalli, si fronteggiavano due busti dipinti di grigio e raffiguranti i due artisti, realizzati da Richter. Ecco un’immagine, presa dal sito di Richter (nel volume di Storr non è a colori):


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Molti critici si sono interrogati su questo progetto, che si riferisce esplicitamente allo stile retorico e propagandistico dei regimi di Hitler e Stalin.

È molto interessante cosa dice, al proposito, Richter nell’intervista con Storr posta a conclusione del volume (traduzione mia): “Ricordo di aver visto questi pezzi (i due busti, NdT) a Monaco, dove avevo anche visitato una mostra chiamata “L’arte italiana oggi”, con gente come Giulio Paolini che faceva roba classica simile. E improvvisamente ho realizzato quanta sostanza ci fosse nelle mie due teste, se paragonate a ciò che aveva prodotto Paolini, questo gioco decorativo. Di colpo ho capito quanto maledettamente serie fossero le mie”.

Mi ha molto colpito questo passaggio, riferito a un artista che amo, come Paolini. Effettivamente, alla luce delle parole di Richter e pur nell’uso di mezzi apparentemente simili, si percepisce lo scarto tra un raffinato gioco intellettuale che rimanda a un passato remoto come quello di Paolini e il progetto di Palermo e Richter che affronta ferite ancora aperte e sanguinanti.
 
Storr analizza l’ulteriore influenza che ebbe l’artista belga Marcel Broodthaers, uno dei massimi rappresentanti dell’Arte Concettuale:


Un altro artista il cui lavoro e la cui natura toccarono una corda di Richter in questo periodo fu il belga Marcel Broodthaers. Broodthaers è una personalità troppo sfuggente per trattarla qui in dettaglio e il suo lavoro troppo importante e complesso per rinchiuderlo in formule semplici. Inoltre, il contatto che Richter ebbe con lui, sebbene significativo, è stato relativamente limitato. (…) I sentimenti contrastanti di Broodthaers sulla Pop Art americana echeggiavano in qualche modo quelli di Richter, così come era simile in molti modi il loro atteggiamento verso la diffusa politicizzazione dell’arte e anche la loro diffidenza riguardo alla trasformazione di Beuys da agitatore Neo-Dada a guru e attivista. Infatti, in una polemica tipicamente obliqua, Broodthaers aveva paragonato Beuys all’autoesaltante Wagner, mentre aveva equiparato se stesso al compositore di operette Jacques Offenbach. Un tale deliberato anacronismo era parte essenziale della strategia neo-Dada propria di Broodthaers. Utilizzando oggetti, testi e grafiche del diciannovesimo secolo per i propri disegni, stampe, film e installazioni, Broodthaers creava un universo parallelo nel quale il vecchio faceva da specchio al nuovo in maniere assurde e il kitsch antico si faceva beffe delle certezze della modernità.
(…) Lo spirito scettico di Broodthaers e la sua volontà di andare controcorrente piacevano a Richter: “Era un uomo incredibilmente gradevole e affascinante; ci salutavamo sempre calorosamente… ma a tutt’oggi ancora non riesco a capire cosa stesse facendo”. Quando fu invitato a contribuire alla magnum opus di Broodthaers, il “Musée d'Art Moderne, Départment des Aigles”, accettò prontamente. Il “museo” che Broodthaers aveva inizialmente creato nel proprio appartamento (…) consisteva in una serie di installazioni tassonomiche che parodiavano i sistemi della museologia, dell’economia e dell’arte. (…) Su sollecitazione di Broodthaers, Richter dipinse due aquile, una delle quali venne aggiunta alla collezione di circa trecento pezzi del museo. La prima versione, “Aquila”, del 1972 è sfocata e relativamente sottotono, la seconda più pittorica e ben definita. Entrambe sollevano le stesse domande di “Due sculture per una sala di Palermo”, perché richiamano un concetto idealizzato dell’artista – questa volta come un rapace che vede tutto – e entrambe agitano lo spettro del potere imperiale, se non l’uso specificatamente nazista di questi emblemi.
(…) Sia “Aquila” che “Due sculture per una sala di Palermo” prefigurano i “48 Ritratti” di Richter del 1971-72 (…). Richter aveva pianificato che questo lavoro rappresentasse il suo paese alla biennale di Venezia del 1972 e che fosse adatto ai grandi spazi neoclassici del padiglione nazionale della Germania.



Ecco un’immagine della prima “Aquila”:


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Ho ricevuto in privato incoraggiamenti a proseguire questi interventi. Allora, aggiungo ancora qualcosa che mi sembra molto interessante, sperando di non diventare molesto…

La relatrice della mia tesi di Master, Julia Gelshorn, si è specializzata su questi temi e sull’Appropriation Art. La sua dissertazione di dottorato, dal titolo „Aneignung der Kunstgeschichte: Strategien der Wiederholung bei Gerhard Richter und Sigmar Polke“ (Appropriazione della storia dell'arte: strategie di ripetizione in Gerhard Richter e Sigmar Polke), è disponibile in .pdf in rete. Provo a tradurne alcuni passaggi per trarre ulteriori spunti (le immagini dei lavori di Richter che seguono sono prese dal sito dell’artista).
 
Nel 1973 Gerhard Richter dipinse una serie di cinque dipinti sotto il Titolo “Annunciazione da Tiziano”. Il modello era l'Annunciazione di Tiziano (…) alla Scuola Grande di San Rocco a Venezia.
(…)Il motivo dell'Annunciazione può essere visto solo nella prima immagine della serie. Negli altri quattro dipinti, la storia attraverso la forte sfocatura del colore è trasformata in una rappresentazione 'astratta'.
In un'intervista del 1991 Richter affermò di aver visto il capolavoro di Tiziano a Venezia e di volerlo copiare per avere "un bel quadro a casa" e possedere "così un pezzo di quel periodo".

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Fonte: Wikimedia Commons

(…) Richter non ha dipinto la sua serie di fronte all'originale a Venezia, né ha realizzato lì degli studi, ma ha invece lavorato usando una cartolina come modello, che poi ha ingrandito approssimativamente alle dimensioni originali del dipinto. La serie risultante mostra la trasformazione del motivo in un mare "astratto" di colori, ma spezzandone la cronologia mettendo al secondo posto quella che è apparentemente l’"ultima" immagine. (…) La prima immagine della serie permetterebbe di riconoscere il modello tizianesco, anche senza il riferimento nel titolo. Il motivo dell'Annunciazione è progettato qui secondo il modello, solo i dettagli e i contorni vengono persi a causa della forte sfocatura. La scena dell'Annunciazione si svolge sul terrazzo di un'architettura rinascimentale (…). Maria, con l'architettura a colonne alle sue spalle, occupa la metà destra del quadro mentre l'angelo riempie la sinistra; il punto focale del dipinto è un panno rosso drappeggiato su una balaustra che dà sul paesaggio dello sfondo.
Nell'opera di Richter, questo paesaggio scompare nella sfocatura, così come il cestino da cucito davanti a Maria in primo piano, la mela e la pernice sul pavimento di marmo. Richter pare non considerare importanti l'iconografia cristiana e i suoi simboli. I volti di entrambe le figure sono riconoscibili solo a grandi linee. Già in questa sua versione dell’Annunciazione sembra concentrarsi principalmente sulla resa dei colori.



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La storia del Vangelo, che è facile da identificare nonostante la mancanza di messa a fuoco, scompare improvvisamente nel secondo quadro della serie. L'unico colore dominante rimasto è il rosso della veste dell'angelo e del drappo sul parapetto, che si mescola a tenui veli biancastri di colore nella metà sinistra del quadro, mentre al centro e ai bordi del quadro vira ai toni del marrone scuro. I colori possono quindi essere ricondotti lontanamente alla composizione originale, ma ora formano un'immagine "non rappresentativa" che ricorda la prima solo nella sua nebulosa applicazione del colore.


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La costante dissoluzione del motivo dell'Annunciazione è riscontrabile nelle ultime tre immagini della serie. Nella prima, la composizione di Tiziano è ancora vagamente riconoscibile per la distribuzione e la proporzione dei campi di colore. Le due figure con la balaustra e il drappo rosso sopra di esse, così come i raggi di luce, sono ancora intuibili, ma Richter le sfoca con pennellate larghe e ben visibili in modo tale che nessun contorno e quindi nessun oggetto si possa distinguere in modo chiaro.


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Nella seconda immagine rafforza questa procedura.
Le pennellate aggrovigliate e ruvide sono ancora più evidenti, mentre la composizione originaria è quasi del tutto scomparsa. Ciò che resta è un dipinto informale, il cui colore ricorda vagamente l'originale di Tiziano.


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Lo stesso vale per l'ultima immagine della serie, solo che i colori qui appaiono ancora più nebulosi a causa della loro forte miscelazione.


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È ragionevole presumere che Richter volesse dimostrare la trasformazione di un Tiziano in un dipinto "astratto". Questa considerazione è però smentita nella sua linearità, poiché l'opera in cui lo 'scioglimento' dell'originale è spinto all’estremo non è posta a chiusura della serie (…).
 
Nove anni dopo la creazione di questa serie, Gotthard Graubner, che, come Richter, era fuggito dalla DDR dopo aver studiato all'Accademia d'arte di Dresda (…), dipinse un omaggio a Tintoretto , che nel suo rosso nebuloso ricorda il secondo quadro della serie di Richter. Si dice che Graubner si sia richiamato ai dipinti di Tintoretto della Scuola Grande di San Rocco (…). Lo stesso Graubner ha commentato il suo uso del colore nel 1975: "Non uso il colore per illustrare temi letterari. Il colore è un tema sufficiente per me". Proprio queste possibilità mutuamente escludentesi si fronteggiano in Richter. Mentre Graubner si allontana radicalmente dalla sua pittura "rappresentativa" fin dal 1957 e riconosce la "vita del colore", Richter lascia aperte entrambe le possibilità: nel primo quadro della serie, il colore è al servizio del soggetto, nel secondo non ha più alcun collegamento con motivi oggettivi e sottolinea piuttosto l'immagine stessa come oggetto. Le ultime tre immagini mostrano esattamente lo stato di limbo tra queste due possibilità come transizione.


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Fonte: Museo MMK, Francoforte
 
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