Ancora auguri a tutti!
Sono ritornato dalla Svizzera a Torino per le Feste, ma mi sono beccato un bel febbrone. È stata l’occasione per fare una cura intensiva di televendite (seguo saltuariamente qualcosa in streaming anche da Zurigo, mentre invece di molte ignoravo proprio l’esistenza). Ciò mi ha portato a scrivere la lunghissima riflessione che segue. Mi scuso per la lunghezza e capisco chi non avrà voglia di leggerla, ma l’argomento non è facilmente sintetizzabile.
Trovo il racconto che viene fatto delle opere di Griffa degli anni ’70, stando almeno al campione che ho ascoltato, nel migliore dei casi una banalizzazione un po’ ridicola. Questo, essenzialmente, a causa della completa rimozione del pensiero politico di Griffa. Questa rimozione la si nota anche nei testi recenti sull’artista e nelle sue interviste. Non so se sia stato un punto perfino esplicitato nel suo contratto con Kaplan (e.g. non dovrà mai più comparire la parola “marxismo” associata all’opera dell’artista), ma non ne sarei neppure stupito. Mi sembra una delle tante conferme di una tendenza dei nostri tempi, in cui il pensiero politico degli artisti viene sottaciuto, per timore che possa comprometterne le vendite. Ecco allora che siamo di fronte a tanti artisti Vispe Terese che hanno prodotto opere in un certo modo senza avere un proprio pensiero politico. La politica è “divisiva” e non utile a piazzare il prodotto, quindi meglio fare finta che non esista.
Sia chiaro che non voglio biasimare nessuno. È legittimo che l’artista sia passato oltre, a nuove ricerche, e non voglia tornare su certi argomenti. Chi deve vendere, d’altra parte, utilizza le “narrazioni” che ritiene più efficaci. Qui, però, è uno spazio libero e dobbiamo cercare di non omettere le informazioni. Ho letto solo gli ultimi quasi 500 interventi su Griffa e non i 4000 precedenti, quindi la materia sarà magari già stata trattata in un passato non vicinissimo. Mi scuso con i forumisti storici se la ripropongo, ma spero sia utile a tutti coloro che continuano a leggere che le opere degli anni ’70 sono molto importanti e poi magari sentono certi discorsi in televisione.
Questi sono del tipo: “Era stato fatto l’azzeramento e poi dichiarata la morte della pittura. Per ricominciare, Griffa ha analizzato cosa serve per fare pittura, ha preso una superficie (la tela) e ha fatto un segno sopra. Quella è già pittura. Il telaio è già un di più, che non serve.”
Qualcosa non quadra in questo discorso. Se davvero la pittura fosse non solo stata dichiarata morta, ma fosse stata anche seppellita, allora l’immagine di uno che per riportarla fuori dalla tomba inizia con pochi segni sulla tela sarebbe anche suggestiva. Purtroppo, però, basta fare mente locale un attimo per accorgersi di come, in realtà, fosse pieno di gente che stava dipingendo: artisti delle generazioni precedenti, anche quelli considerati da qualcuno precursori dell’Analitica (Dorazio, Nigro, Aricò), artisti che verranno affiancati a Griffa (Guarneri, Verna, Olivieri, ecc.), artisti più o meno della stessa generazione, ma non analitici, che hanno bazzicato le stesse gallerie di Griffa (Vago, Raciti, Madella, Forgioli, ecc.), per non parlare di pittori della stessa generazione, ma molto più lontani negli esiti (e.g. Valerio Adami). Insomma, un ampio panorama in cui ho citato volutamente autori non di pari livello, dove non si può dire che regnasse una sclerotica pittura accademica: nessuno di questi e dei molti altri che si potrebbero citare praticava una figurazione vecchio stampo o l’informale più trito. Eppure, possiamo dire che dipingessero molto di più di Griffa.
Quindi, non si riesce a capire il nesso: se altri dipingevano, perché Griffa non si è messo a dipingere come gli altri suoi colleghi? E, per converso, perché uno che fa pochi segni su una tela è più interessante e importante di molti suoi colleghi che sono molto più generosi nel dipingere?
La risposta a questi quesiti sta nel clima culturale e politico dell’epoca. Se si rimuove questo elemento, secondo me le ragioni della ricerca di Griffa faticano a rendersi comprensibili.
In Francia si erano sviluppate le teorie strutturaliste: de Saussure in linguistica, Lévi-Strauss in antropologia, Althusser nella rilettura di Marx, Foucault nella storiografia, Lacan nella lettura di Freud, Barthes nella critica letteraria. Filiberto Menna parla di una “rottura epistemologica”. La pittura non vuole rimanere indietro rispetto a questi nuovi paradigmi e Griffa riflette proprio sul linguaggio pittorico, i suoi elementi e le sue strutture, esattamente come veniva fatto in linguistica.
Ogni scelta operata da Griffa in quegli anni è politica e può essere interpretata come tale. Anche il famoso “iononrappresentonullaiodipingo” può essere letto con gli occhiali del materialismo dialettico. Ma l’ha detto molto bene Marco Meneguzzo nel saggio “Sentieri ininterrotti” contenuto nel bel libro Silvana Editoriale/Galleria Fumagalli, credo una delle ultime occasioni in cui si esplicita il significato politico delle opere degli anni ’70 e la matrice marxista della Pittura Analitica.
Un piccolo estratto: “(…) il pittore -come un operaio- produceva quadri come beni, e nel contempo prendeva coscienza dei modi, dei tempi, degli strumenti del produrre e quindi della propria collocazione all’interno del sistema lavoro. Si parla di sistema lavoro, e non di sistema capitalistico, proprio perché i margini di libertà che l’artista percepisce per sé, e alcune anomalie nel campo della produzione – prima fra tutte il fatto che egli sia contemporaneamente il lavoratore e anche il proprietario dei mezzi di produzione, cosa inconcepibile nel sistema capitalistico, così come lo aveva identificato il marxismo – fanno pensare all’arte e alla sua produzione anche come una possibile variante libertaria nei confronti dei sistemi di produzione vigenti, benché sempre riconducibile (…) a una sorta di concessione da parte del sistema che poteva sopportare al suo interno anche qualche area apparentemente fuori controllo.”
Scusate la lunghezza. Ho ancora ulteriori riflessioni, che farò, eventualmente, un’altra volta.