I "default bond" diventano un business

FaGal

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I "default bond" diventano un business


ANDREA GRECO

A loro non piace affatto essere chiamati "avvoltoi": pare un retaggio di ipocrisia moralista. Piuttosto, se uno accetta la logica del mercato, l’attività dei distressed funds ha un che di "scopa manzoniana", di limatura delle note imperfezioni dell’agire economico. Tutto questo si pensa applicando un’ottica anglosassone, mentre in Italia, paese intriso di culture e tradizioni diverse, gli operatori sui bond insolventi sono al pionierismo. Al punto che non ne esistono di indigeni, e quelli esteri che si affacciano nei confini incontrano più ostacoli. Per tutti, però, l’avvenire è promettente. Giova definire i contorni di un business così fluido e che necessita di grandi abilità tecnico giuridiche. Intanto una definizione: i fondi distressed investono in gruppi in difficoltà (operative o finanziarie) a vari livelli, dalla ristrutturazione industriale alla bancarotta. Due sono le loro strategie: la gestione "passiva", solo speculativofinanziaria, e quella "attiva", intervenendo per incidere nel riassetto di tali aziende. Allorché i risparmiatori vendono i titoli a rotta di collo, questi fondi ne fanno incetta, per uscire successivamente con profitto. Il timing dell’investimento, neanche a dirlo, è fondamentale.
Negli Usa l’attività dei fondi sui default bond ha un valore facciale di quasi 500 miliardi di dollari, e stimando prezzi medi attorno al 20% dell’emissione, si aggira sui 100 miliardi. In Italia la nicchia è nata solo dopo le recenti frodi, e al mancato rimborso di titoli per una dozzina di miliardi di euro (quattro quinti in capo a Parmalat). Il loro reale valore non oltrepassa i 2,5 miliardi. Su questo "monte" sono attivi solo operatori esteri, perché nella decina di hedge fund di diritto italiano non ce n’è nessuno distressed. Gli unici intermediari italiani sono quindi le Sgr alternative, una trentina che operano quasi solo con fondi di fondi, specie all’estero. E solo una piccola parte "delega" a gestori terzi qualche investimento distressed. Tuttavia la voglia c’è, anche viste le performance e le rosee prospettive: l’indice mondiale di nicchia Hfri nel 2004 è salito del 18%, confermando la corsa del 2003.
L’epoca d’oro di questi affari s’è aperta dopo le grandi frodi, negli ultimi tre anni. Le insolvenze sui bond corporate, oltre a creare nuova massa per queste speculazioni, ne hanno "congelato" emissioni e falcidiato gli spread rispetto ai titoli sovrani dei vari paesi. Ciò ha spinto molti operatori a cercare opportunità distressed. «Questa strategia è molto importante, e negli ultimi anni ha fatto benissimo», spiega Luca Valaguzza, direttore investimenti di Akros Hfr. La Sgr speculativa della Bpm investe in fondi di fondi, una manciata dei quali di nicchia distressed, ma uno solo attivo in Europa (Italia compresa). «Il problema, qui, è ancora il quadro legislativo, ma con la riforma fallimentare il mercato potrebbe svilupparsi a buona velocità», dice Valaguzza. Per ora, nei confini, è più diffusa la prassi dell’investimento "attivo", sconfinante nel private equity. Si tratta di rilevare società problematiche e rimetterle in carreggiata nel brevemedio termine, poi monetizzare l’investimento cedendo a manager, rivali o con la quotazione in Borsa. Coin, Galbani, Fila, Fata, Teksid, Arena, Nylstar (Snia) e Finpart sono i casi più noti.
Ben diverso l’approccio "americano", che contempla anche il mordi e fuggi su spa decotte, salvo rivenderne i bond a prezzi superiori, magari finite le procedure concorsuali. I crac Parmalat, Cirio, Finmatica, Italtractor e Fantuzzi hanno destato attenzioni oltreoceano, ma solo sulle prime due società i fondi sono riusciti a trovare massa critica adeguata per l’intervento: i due terzi dei vari bond emessi a Collecchio, per esempio, sono passati di mano dopo il crac, per mano dei distressed fund, che intendono uscire dall’investimento dopo il ritorno in Borsa, una volta scambiati i crediti in azioni Parmalat. Quasi tutti però lamentano la scarsa trasparenza e la scarsissima liquidità della nicchia italiana, per più motivi. Uno riguarda la grande quota retail di sottoscrittori di bond, e il fatto che i crediti bancari non sono trattati nel mercato secondario. Un altro riguarda la scarsa incidenza nella governance dei gruppi in procedura (anche se la legge MarzanoParmalat ha permesso parziali passi avanti). Un’altra attiene al quadro normativo: scattata l’insolvenza, in Italia è difficilissimo ottenere credito perché le banche temono le revocatorie, mentre negli Usa la prassi del debtorinpossession lending (Dip) permette di finanziare le società in procedura concorsuale, con rimborso privilegiato e con l’effetto vitale di mantenerne "liquide" gestione e titoli. C’è poi il problema del familismo italiano, che fa preferire alle dinastie industriali soluzioni tampone concordate con le banche (allungando il debito e aumentando gli oneri finanziari) piuttosto che un talora opportuno passaggio di mano a soci più agili e motivati. L’elenco non vuol essere esaustivo.
«Abbiamo fatto piccoli investimenti in Italia, trovando difficoltà per le ridotte dimensioni del mercato, e perché spesso le ristrutturazioni non avvengono nel modo più idoneo e razionale — dice Peter Faulkner, di Psam, gruppo specialista di nicchia, con asset per mezzo miliardo di dollari — le cose però stanno cambiando: guardiamo con speranza alla riforma fallimentare».
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2005/04/18/rapporto/062kiasso.html
 
FabioGalletti ha scritto:
I "default bond" diventano un business


ANDREA GRECO

A loro non piace affatto essere chiamati "avvoltoi": pare un retaggio di ipocrisia moralista. Piuttosto, se uno accetta la logica del mercato, l’attività dei distressed funds ha un che di "scopa manzoniana", di limatura delle note imperfezioni dell’agire economico. Tutto questo si pensa applicando un’ottica anglosassone, mentre in Italia, paese intriso di culture e tradizioni diverse, gli operatori sui bond insolventi sono al pionierismo. Al punto che non ne esistono di indigeni, e quelli esteri che si affacciano nei confini incontrano più ostacoli. Per tutti, però, l’avvenire è promettente. Giova definire i contorni di un business così fluido e che necessita di grandi abilità tecnico giuridiche. Intanto una definizione: i fondi distressed investono in gruppi in difficoltà (operative o finanziarie) a vari livelli, dalla ristrutturazione industriale alla bancarotta. Due sono le loro strategie: la gestione "passiva", solo speculativofinanziaria, e quella "attiva", intervenendo per incidere nel riassetto di tali aziende. Allorché i risparmiatori vendono i titoli a rotta di collo, questi fondi ne fanno incetta, per uscire successivamente con profitto. Il timing dell’investimento, neanche a dirlo, è fondamentale.
Negli Usa l’attività dei fondi sui default bond ha un valore facciale di quasi 500 miliardi di dollari, e stimando prezzi medi attorno al 20% dell’emissione, si aggira sui 100 miliardi. In Italia la nicchia è nata solo dopo le recenti frodi, e al mancato rimborso di titoli per una dozzina di miliardi di euro (quattro quinti in capo a Parmalat). Il loro reale valore non oltrepassa i 2,5 miliardi. Su questo "monte" sono attivi solo operatori esteri, perché nella decina di hedge fund di diritto italiano non ce n’è nessuno distressed. Gli unici intermediari italiani sono quindi le Sgr alternative, una trentina che operano quasi solo con fondi di fondi, specie all’estero. E solo una piccola parte "delega" a gestori terzi qualche investimento distressed. Tuttavia la voglia c’è, anche viste le performance e le rosee prospettive: l’indice mondiale di nicchia Hfri nel 2004 è salito del 18%, confermando la corsa del 2003.
L’epoca d’oro di questi affari s’è aperta dopo le grandi frodi, negli ultimi tre anni. Le insolvenze sui bond corporate, oltre a creare nuova massa per queste speculazioni, ne hanno "congelato" emissioni e falcidiato gli spread rispetto ai titoli sovrani dei vari paesi. Ciò ha spinto molti operatori a cercare opportunità distressed. «Questa strategia è molto importante, e negli ultimi anni ha fatto benissimo», spiega Luca Valaguzza, direttore investimenti di Akros Hfr. La Sgr speculativa della Bpm investe in fondi di fondi, una manciata dei quali di nicchia distressed, ma uno solo attivo in Europa (Italia compresa). «Il problema, qui, è ancora il quadro legislativo, ma con la riforma fallimentare il mercato potrebbe svilupparsi a buona velocità», dice Valaguzza. Per ora, nei confini, è più diffusa la prassi dell’investimento "attivo", sconfinante nel private equity. Si tratta di rilevare società problematiche e rimetterle in carreggiata nel brevemedio termine, poi monetizzare l’investimento cedendo a manager, rivali o con la quotazione in Borsa. Coin, Galbani, Fila, Fata, Teksid, Arena, Nylstar (Snia) e Finpart sono i casi più noti.
Ben diverso l’approccio "americano", che contempla anche il mordi e fuggi su spa decotte, salvo rivenderne i bond a prezzi superiori, magari finite le procedure concorsuali. I crac Parmalat, Cirio, Finmatica, Italtractor e Fantuzzi hanno destato attenzioni oltreoceano, ma solo sulle prime due società i fondi sono riusciti a trovare massa critica adeguata per l’intervento: i due terzi dei vari bond emessi a Collecchio, per esempio, sono passati di mano dopo il crac, per mano dei distressed fund, che intendono uscire dall’investimento dopo il ritorno in Borsa, una volta scambiati i crediti in azioni Parmalat. Quasi tutti però lamentano la scarsa trasparenza e la scarsissima liquidità della nicchia italiana, per più motivi. Uno riguarda la grande quota retail di sottoscrittori di bond, e il fatto che i crediti bancari non sono trattati nel mercato secondario. Un altro riguarda la scarsa incidenza nella governance dei gruppi in procedura (anche se la legge MarzanoParmalat ha permesso parziali passi avanti). Un’altra attiene al quadro normativo: scattata l’insolvenza, in Italia è difficilissimo ottenere credito perché le banche temono le revocatorie, mentre negli Usa la prassi del debtorinpossession lending (Dip) permette di finanziare le società in procedura concorsuale, con rimborso privilegiato e con l’effetto vitale di mantenerne "liquide" gestione e titoli. C’è poi il problema del familismo italiano, che fa preferire alle dinastie industriali soluzioni tampone concordate con le banche (allungando il debito e aumentando gli oneri finanziari) piuttosto che un talora opportuno passaggio di mano a soci più agili e motivati. L’elenco non vuol essere esaustivo.
«Abbiamo fatto piccoli investimenti in Italia, trovando difficoltà per le ridotte dimensioni del mercato, e perché spesso le ristrutturazioni non avvengono nel modo più idoneo e razionale — dice Peter Faulkner, di Psam, gruppo specialista di nicchia, con asset per mezzo miliardo di dollari — le cose però stanno cambiando: guardiamo con speranza alla riforma fallimentare».
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2005/04/18/rapporto/062kiasso.html


Stamattina, sul mercato interbancario "volavano" prezzi da usura, da circa un'ora gli "avvoltoi acquirenti" ( SIM e SGR ) si stanno adeguando ai prezzi dei venditori disperati.

Stiamo a vedere......

Bye,

Black
 
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