Il business dell'acqua

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ACQUE MINERALI, UN AFFARE SOLO PER I PRODUTTORI

Il business delle acque minerali fa tutt’altro che acqua in Italia.
Nel Belpaese, che secondo le statistiche è la nazione più assetata
del mondo, bere acqua è un affare d’oro da sempre
per i produttori. Colpa di una legge che dovrebbe regolare
la materia e che invece latita da parecchio tempo.


La legislazione mineraria italiana è un regio decreto che risale al 1927. Il re videcretava che il canone di concessione fosse proporzionale alla superficie del giacimento,che è minima, e non alla quantità dilitri di acqua prodotti, che sarebbe in realtàgrande. E così è rimasta intatta fino ad oggi,offrendo un quadro a dir poco surreale.
Ogni regione si autoregola con tariffe diverseper le sue sorgenti. Qualche esempio?
Secondo un’indagine di Legambiente, in Abruzzo si sborsa indipendentemente dalla produzione una somma forfetaria annua di 2.582,28 euro per le minerali e di 1.291,14 euro per le acque di sorgente – identiche a quelle di rubinetto. Sempre a prezzo di saldi gli affitti offerti da un gruppo di regioni dove non c’è quota fissa, ma si paga in base al numero degli ettari assegnati per svolgere l’attività. Così in Puglia si paga appena un euro per ogni 10mila metri quadrati di concessione, in Liguria 5 euro, nelle Marche 5,16 euro, in Emilia 10,33 euro, in Piemonte 20,65 euro, in Sardegna 32 euro, in Campania 32,87 euro e nel Lazio 61,97 euro.
Insomma un spreco di risorse pubbliche catastrofico se si pensa che la sola Toscana cede le sue sorgenti ai produttori di acque minerali che ne ricavano 75 milioni di fatturato l’anno, per 197mila euro, tutto compreso: lo 0,26% degli incassi finali delle bottiglie toscane.
Quindi, considerando che l’acqua alla sorgente costa molto meno di quanto costa a sua volta al comune cittadino, la tanto disprezzata acqua del rubinetto grazie proprio a quel sistema delle concessioni con il quale gli italiani regalano alle aziende la stessa acqua minerale che poi ricomprano in negozio pagandola a prezzi salatissimi, si alimenta un business ai limiti della liceità. Un vero e proprio affare, tanto più se rapportato a quanto c’è in ballo nel Belpaese. Nessuno al mondo consuma infatti tanta acqua quanto noi italiani: ne beviamo in media ogni anno 194 litri, battendo il consumo pro-capite addirittura degli abitanti del deserto degli Emirati Arabi, che mandano giù, si fa per dire, solo 109 litri. Dei veri e propri cammelli
cui poco importa se partono indagini sullacomposizione non sempre pulita – sotto il profilo dei nitrati – della bevanda trasparente come riscontrato dall’Ospedale Sant’Orsola di Bologna: il popolo di bevitori italiani non si tira indietro di fronte a un bel bicchiere di bevanda fresca e continua a spendere milioni di euro in acqua. E chi ci guadagna oggi sono solo i pochi gruppi nazionali e non che portano l’acqua sulle tavole degli italiani, che l’anno passato si sono messi in tasca 5 miliardi e 500 milioni a fronte di un giro d’affari che si attestava nel 1990 a 2 miliardi di euro.
In questo scenario operano da protagonisti aziende del calibro di Nestlé e Danone, a cui fanno capo alcune fra le più importante marche di acqua minerale. Basti pensare che la San Pellegrino, la San Benedetto e la CoGe- Di-Italaquae coprono da sole i tre quarti del mercato italiano. Secondo Ettore Fortuna, presidente di Mineracqua, il successo di questo business «è da ricercare nelle 700 sorgenti che si trovano sul territorio italiano e che garantiscono una produzione di acque sicure, dal sapore pulito che piacciono ai consumatori. Tanto che oggi ben l’80% degli italiani considera l’acqua minerale come l’elemento più sano e naturale, in quanto più pura dell’acqua di rubinetto». Eppure per gli analisti delle case d’investimento la bontà del business delle mille bolle blu risiede non tanto nella poesia della bevanda, ma nel senso degli affari. Questo settore è quello di traino della Danone in termini di redditività: 13,4 % nel primo semestre dell’anno scorso mentre quella del polo dei latticini è del 10,3 % e quella dei biscotti del 6,4%. Stesso copione alla Nestlé, dove per il 2005 gli esperti di
diverse case d’investimento stimano margini di progresso per la divisione water del 17%
contro il 10% di quella del latte e dell’11% dei prodotti dolciari. Ne sa qualcosa anche la regina delle bollicine Coca Cola, che nel 2004 ha assistito a un salto del volume di vendite dell’acqua in bottiglia del 19% contro un calo del giro d’affari della Coca-Cola classic, suo marchio di punta del 9% rispetto al 1999. E così il colosso Usa ha deciso di far rotta sul vivace mercato dell’acqua italiano, comprando recentemente il gruppo lucano di acque minerali, Traficante. Non c’è che dire: sulle nostre tavole le bottiglie di acqua minerale fanno bella mostra di sé. In un recente sondaggio emerge che i prezzi medi delle bottiglie di acqua
naturale da un litro e mezzo vanno da un minimo di 30 centesimi a un massimo di 76. Un divario che si traduce in rincari del 150 per cento e che sarebbero giustificati dalla qualità,
dalla confezione e dalla pubblicità. Una differenza che arriva fino al 200% tra le acque frizzanti sempre da un litro e mezzo.
Secondo questa associazione a difesa dei consumatori è possibile risparmiare fino a 175 euro l’anno tenendo conto del rapporto qualità prezzo, perché bere dal rubinetto o dalla
bottiglia cambia in realtà solo il peso del portafoglio. I costi non corrispondono alla qualità del prodotto. Ma chissà quanta acqua sotto i ponti dovrà ancora scorrere prima che gli
italiani se ne accorgano.

tratto da Finanza.com
 
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