Mio Padre è un altro. Forse non l’ho mai conosciuto bene.
Era così diverso da me, per carattere, che l’ho sempre sentito distante. Svolgeva le funzioni di padre e
manteneva l’autorità che corrisponde al suo amore per l’ordine e per le regole. Ho sempre pensato che
questa dovesse essere la natura del padre. Si manifestava in alcuni principi generali e nel rispetto degli
orari, nella vita quotidiana, soprattutto; come per il pranzo e per la cena che prevedevano compostezza
e puntualità. Poi c’erano i principi, religiosi e umani. Il giovane ribelle che era in me, e poi rivoltoso, non
poteva che contrastarli o vederli come un mondo lontano, antico. Già prima del Sessantotto, la mia
generazione era quella delle inquietudini, manifestate dai cantanti: i Beatles, il ragazzo della via Gluck,
Patty Pravo. A segnare la nostra distanza ci fu anche il periodo terribile del collegio, anzi la decisione di
mio padre di mandarmi fuori casa per fortificare la mia educazione. Fu forse a partire di lì che siamo
diventati sconosciuti, pur conservando fermi affetti. Siamo sempre stati il padre e il figlio. Il collegamento
lo teneva mia madre. Ed era affinità, simpatia, complicità. Mia madre stava con me. Mio padre era il
passato, la storia, la tradizione. Ci univa, al di là delle idee, la passione per la letteratura. Lui me l’aveva
trasmessa, in un arcipelago fatto dei libri della BUR, entrati a Ro al momento stesso della mia nascita,
quindi tutti i classici possibili; ma anche di Céline, a lui suggerito, durante la guerra in Grecia, da Giorgio
Chiesura Corona; di Anatole France; di Giuseppe Berto, rivoluzionario nel linguaggio de Il male oscuro;
di Mario Tobino, con il suo Il figlio del farmacista (facile l’identificazione) e le poesie de L’asso di picche;
oltre agli scrittori letti a scuola e da lui mandati a memoria, in una sorprendente attualità: Carducci,
D’Annunzio, Pascoli, Dante, Leopardi. Il suo esempio mi influenzò e mi contagiò. Ma sarebbe stato necessario
umanizzare il prodigio mnemotecnico di mio padre, lettore e amante dei poeti, con la passione e la fascinazione
di mio zio, Bruno Cavallini, letterato di professione. La poesia idolatrata da mio padre diventava in lui vita,
battaglia, spirito polemico. Foscolo, Leopardi, Ariosto tornavano presenti e vivi. L’amata letteratura si presentava
con due occhi e con due diverse interpretazioni, di mio padre e di mio zio. Mi era ben chiaro. Ma, per affinità,
io mi sentivo piuttosto figlio del secondo. Tutto questo dura fino ai miei diciotto anni, e lì si ferma la nozione che
ho di mio padre, con tutto quello che avevo accolto e saputo da lui. Poi me ne andai di casa, con ritorni episodici;
e, in verità, solidarizzai con l’uomo in occasione di una furibonda e sproporzionata manifestazione di gelosia di
mia madre dopo la sua trasferta a Milano. Difesi la misurata e segreta trasgressione di mio padre, così lontana
dall’idea che avevo di lui, sempre impeccabile. Lo vedevo travolto, debole, sottoposto a un assedio incontenibile.
L’amore e l’affetto per il padre sono sempre stati forti e si sono confermati, nel corso degli anni e dei decenni.
Ma soltanto ora, dopo quarant’anni, scopro il padre che non conoscevo e della cui storia non ero stato, se non
episodicamente, curioso, per troppa diversità di carattere.
Vittorio Sgarbi