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Biden shuts down sending F-16 fighter jets to Ukraine: ‘No’

Lunedì il presidente Biden ha categoricamente escluso di fornire caccia F-16 all'Ucraina nella sua guerra contro la Russia, anche se Mosca ha intensificato i suoi attacchi per cercare di rompere la determinazione di Kiev.

Quando gli è stato chiesto alla Casa Bianca se gli Stati Uniti avrebbero inviato gli aerei da guerra, Biden ha detto ai giornalisti: "No".

L'Ucraina ha fatto pressione sui suoi alleati occidentali per fornire aerei da combattimento di quarta generazione, dopo aver ottenuto impegni dagli Stati Uniti e dalla Germania la scorsa settimana per inviare carri armati moderni dopo mesi di difficili negoziati.

Un portavoce dell'aviazione ucraina ha precedentemente detto che i suoi piloti impieghino circa sei mesi per allenarsi su jet da combattimento come l'F-16, che pongono anche sfide logistiche significative legate alla manutenzione.

Il rifiuto inequivocabile del presidente è arrivato pochi giorni dopo che il vice consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jon Finer, ha detto in un'intervista alla MSNBC che gli Stati Uniti avrebbero discusso dei caccia "molto attentamente" con l'Ucraina e gli alleati.

John Kirby, coordinatore del consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti per le comunicazioni strategiche, in seguito ha difeso la posizione di Biden sugli F-16 sottolineando che Washington stava già fornendo miliardi di dollari di armi all'Ucraina.

"Quello che posso dirti è che ci sono molte capacità che vengono inviate e saranno inviate nelle prossime settimane e mesi", ha detto Kirby alla CNN. "I tipi di capacità che sappiamo saranno fondamentali per aiutare di nuovo gli ucraini nei combattimenti ora in inverno, così come il tipo di combattimento che ci aspettiamo che faranno in primavera".

L'intensificate delle pressioni dell'Ucraina per i jet da combattimento ha messo a dura prova l'unità dei suoi alleati in Occidente, alcuni dei quali sono preoccupati che la mossa possa intensificarsi e ampliare il sanguinoso conflitto, avvicinandosi al suo marco di un anno.

Kiev ha ripetutamente fatto appello agli alleati per inviare jet, sostenendo che sono tenuti a sfidare la superiorità aerea della Russia e a garantire il successo delle sue previste controoffensive primaverili.

Il ministro della Difesa ucraino Oleksii Reznikov era previsto per martedì a Parigi, dove erano previste discussioni sulla possibile consegna di caccia in Ucraina.

Il cancelliere tedesco Olaf Scholz sembrava obiettare dalla prospettiva di fornire aerei da combattimento, suggerendo domenica che la ragione dell'intera discussione potrebbe essere la ragione di "tmi politici nazionali" in alcuni paesi.

Il primo ministro olandese Mark Rutte ha detto lunedì che "non ci sono tabù" negli sforzi per aiutare l'Ucraina, ma ha avvertito che l'invio di jet "sarebbe un grande passo successivo".

Il presidente francese Emmanuel Macron ha detto lunedì che la Francia non esclude l'invio di caccia in Ucraina, ma ha stabilito molteplici condizioni prima di compiere un passo così significativo.

Le condizioni, ha detto, includono il non portare a un'escalation di tensioni o l'uso dell'aereo "per toccare il suolo russo" e non portare all'indebolimento "le capacità dell'esercito francese".

Ha anche detto che l'Ucraina deve anche richiedere formalmente gli aerei, cosa che potrebbe accadere quando Reznikov si siede per i colloqui a Parigi.

Come nei precedenti colloqui su come aiutare l'Ucraina, la Polonia è uno dei principali sostenitori dell'Unione europea per la fornitura di aiuti militari. La Polonia, la Slovacchia e i paesi baltici sul fianco orientale della NATO si sentono particolarmente minacciati dalla Russia.

Il presidente croato membro della NATO, nel frattempo, ha criticato le nazioni occidentali per aver fornito all'Ucraina carri armati e altre armi, con il presidente Zoran Milanovic che ha sostenuto che tali aiuti prolungheranno solo la guerra.

Nelle prime settimane del conflitto, le discussioni si sono concentrate sulla possibilità di fornire a Kiev jet da combattimento MiG-29 di fabbricazione sovietica che i piloti ucraini conoscono. Ma a marzo, il Pentagono ha chiuso la proposta della Polonia di trasferire i suoi caccia MiG-29 a Kiev attraverso una base statunitense in Germania, citando un alto rischio di innescare un'escalation Russia-NATO.

L'Ucraina ha ereditato una grande flotta di aerei da guerra sovietici, tra cui caccia Su-27 e MiG-29 e aerei da attacco a terra Su-25.

La Russia ha preso di mira metodicamente le basi aeree ucraine e le batterie di difesa aerea nella fase iniziale del conflitto, ma l'Ucraina è stata intelligente nel trasferire i suoi aerei da guerra e nascondere le risorse di difesa aerea, con conseguente incapacità della Russia di ottenere il pieno controllo dei cieli.

Dopo aver subito pesanti perdite all'inizio del conflitto, l'aviazione russa ha evitato di avventurarsi in profondità nello spazio aereo ucraino e si è concentrata principalmente su missioni di supporto ravvicinate lungo la prima linea.

L'aviazione ucraina ha affrontato sfide simili, cercando di salvare i suoi aerei da guerra rimanenti dall'essere colpiti da caccia russi e sistemi di difesa aerea.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha detto questa settimana che la Russia aveva iniziato a vendicarsi per la resistenza dell'Ucraina alla sua invasione con attacchi implacabili a est.

“Penso che la Russia voglia davvero la sua grande vendetta. "Penso che l'abbiano iniziato"", ha detto Zelensky ai giornalisti durante un viaggio nella città di Odessa nel sud."

elensky sta esortando l'Occidente ad accelerare la consegna delle armi promesse, compresi i carri armati Abrams dagli Stati Uniti e i carri armati Leoprad 2 dalla Germania, in modo che l'Ucraina possa andare in attacco dopo una prolungata situazione di stallo.

Il think tank con sede negli Stati Uniti Institute for the Study of War ha affermato che "l'incapacità dell'Occidente di fornire il materiale necessario" l'anno scorso è stata la ragione principale per cui i progressi di Kiev si sono fermati da novembre.
 
NATO chief says China has 'no justification' for Taiwan threats

TOKYO -- Qualsiasi tentativo della Cina di cambiare lo status quo nello Stretto di Taiwan causerà "gravi conseguenze" per la sicurezza regionale e globale, ha detto mercoledì il segretario generale della NATO.

In un'intervista con Nikkei Asia a Tokyo, Jens Stoltenberg ha detto che il blocco è preoccupato per la retorica minacciosa della Cina e il "comportamento coercitivo" nello Stretto di Taiwan. Ha sottolineato che impedire a Pechino di usare il potere militare era fondamentale.

"Non c'è alcuna giustificazione per le minacce della Cina contro Taiwan. E non sarà nell'interesse di nessuno avere un conflitto intorno a Taiwan", ha detto.

"Qualsiasi tentativo da parte della Cina di cercare di cambiare lo status quo con l'uso della forza militare avrà gravi conseguenze per l'Asia orientale. Ma avrà anche conseguenze per gli alleati della NATO e per la sicurezza globale".

Queste osservazioni arrivano mentre il blocco di 30 membri delle nazioni occidentali diventa sempre più preoccupato per la crescente influenza di Pechino. L'organizzazione ha menzionato la Cina per la prima volta nel suo documento concettuale strategico l'anno scorso, osservando che il paese sta ponendo "sfide sistemiche" alla sicurezza euroatlantica.

"La Cina non è un avversario", ha detto Stoltenberg, spiegando che i membri della NATO continueranno a impegnarsi con la Cina sul controllo degli armamenti, sul cambiamento climatico e su altre questioni.

"Avendo detto questo, gli alleati della NATO sarebbero stati negligenti se non avessimo esposto ciò che fa la Cina e le conseguenze per la nostra sicurezza", ha detto.

È importante "evitare qualsiasi cambiamento dello status quo e aver forzato l'unificazione con l'uso del potere militare", ha detto. "Questo è il messaggio alla Cina".

In questo contesto, la NATO ha anche legami più approfonditi con le nazioni dell'Asia-Pacifico, tra cui Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud.

Prima di arrivare a Tokyo, il capo della NATO si fermò in Corea del Sud per incontrare il presidente Yoon Suk-yeol. Ha anche incontrato il primo ministro giapponese Fumio Kishida mercoledì a Tokyo, dove si sono impegnati a rafforzare i legami.

Stoltenberg ha detto che la NATO "accoglie il benvenuto" al piano del Giappone per aumentare il suo bilancio per la difesa.

"Il Giappone è un importante attore globale. E accogliamo con grande favore la leadership del Giappone e attendiamo con impazienza la leadership del Giappone nel G-7", ha detto. Quest'anno il Giappone detiene la presidenza del Gruppo dei Sette.

Con la guerra ucraina che si sta dirigendo verso un secondo anno, la NATO "deve essere preparata per il lungo raggio" perché non vede alcun segno che il presidente russo Vladimir Putin "si stia preparando per la pace", ha detto Stoltenberg.

Ha detto che la NATO deve mantenere il suo sostegno all'Ucraina dopo aver fornito "un livello di sostegno senza precedenti".

"Questo supporto sta facendo la differenza sul campo di battaglia ogni giorno", ha detto Stoltenberg.

"Se vogliamo una soluzione negoziata e pacifica alla pace e al conflitto in Ucraina, dove l'Ucraina prevale come nazione sovrana indipendente, allora dobbiamo fornire sostegno militare", ha detto. "Le armi consegnate oggi possono creare le condizioni per una soluzione pacifica domani".

Per quanto riguarda l'adesione della Svezia e della Finlandia al blocco, Stoltenberg ha detto di essere "fiducioso" che entrambi i paesi diventeranno membri della NATO. Questo nonostante la Turchia e l'Ungheria, entrambi membri della NATO, non abbiano ratificato le adesioni dei due paesi nordici. La Turchia ha recentemente suggerito che potrebbe consentire solo alla Finlandia di aderire perché le relazioni con la Svezia si sono inasprite.

Stoltenberg ha osservato, tuttavia, che i due paesi hanno goduto "del processo di adesione più rapido nella storia moderna della NATO".

"Non posso dirti esattamente quando [diventeranno membri], ma dimostra che la porta della NATO è aperta".
 
Washington halts licenses for U.S. tech exports to Huawei

WASHINGTON (Financial Times) -- L'amministrazione Biden ha smesso di fornire alle aziende statunitensi licenze per esportare a Huawei mentre si muove verso l'imposizione di un divieto totale sulla vendita di tecnologia americana al gigante cinese delle apparecchiature di telecomunicazione.
Diverse persone che hanno familiarità con le discussioni all'interno dell'amministrazione hanno affermato che il Dipartimento del Commercio aveva notificato ad alcune aziende che non avrebbe più concesso licenze a nessun gruppo che volesse esportare la tecnologia americana a Huawei.
 

Un anno di guerra in Ucraina (riepilogo ragionato), di Roberto Buffagni

Un anno di guerra in Ucraina​

Riepilogo ragionato del conflitto fino all’attuale quarta fase, trasformativa, della guerra​



In questo scritto ripercorro, con la massima brevità e chiarezza, il percorso e le dinamiche strategiche che hanno condotto alla presente quarta fase della guerra in Ucraina, una fase che ritengo trasformativa. Non inserisco note tranne una, relativa a un significativo studio della RAND Corp., pubblicato mentre elaboravo questo testo, a fine gennaio 2023. Chi desidera informarsi sulle mie analisi precedenti, e trovare la documentazione dei fatti e delle interpretazioni a cui qui mi riferisco, può visitare i siti italiaeilmondo.com e l’antidiplomatico.it, inserendo nella funzione di ricerca il mio nome e la parola “Ucraina”, e/o le altre parole chiave presenti nel testo.

Ringrazio sentitamente il generale Marco Bertolini, lo storico Giacomo Gabellini, e il responsabile del sito italiaeilmondo.com Giuseppe Germinario, che mi hanno usato la bontà di leggere in bozza questo testo e consigliarmi. Ovviamente è solo mia la responsabilità dei difetti e dei limiti dell’articolo.



Eziologia della guerra in Ucraina. Natura e scopi della guerra dai punti di vista russo e occidentale.

Sull’eziologia della guerra in Ucraina condivido l’interpretazione storica del prof. John Mearsheimer. È la conseguenza dell’espansione a Est della NATO, e della volontà statunitense di creare un bastione militare occidentale alla frontiera russa, integrando l’Ucraina nella NATO: una strategia che la Federazione russa ha dichiarato assolutamente inaccettabile sin dal Summit NATO di Bucarest 2008 in cui venne annunciata l’intenzione di integrare nell’Alleanza Atlantica Georgia e Ucraina.

Negli anni tra il 2008 e il 2022, gli USA integrano gradualmente l’Ucraina nella NATO, sebbene de facto e non de jure. Nel 2014 danno impulso alla destabilizzazione del governo in carica e all’insediamento di un governo ucraino a loro favorevole, e negli anni seguenti portano a livello di preparazione e armamento NATO le FFAA ucraine. Nel 2014 la Federazione russa si annette la Crimea, senza conflitto militare. Il 2021 vede una significativa accelerazione del processo di integrazione de facto dell’Ucraina nella NATO: importanti forniture di armamenti, grandi esercitazioni militari in comune, e nel novembre 2021 rinnovo della convenzione bilaterale USA – Ucraina che ribadisce la comune intenzione di integrare l’Ucraina nella NATO anche de jure.

Secondo questa interpretazione eziologica, dal punto di vista russo la guerra in Ucraina è una guerra preventiva in difesa di interessi vitali russi, e non una guerra imperialistica di annessione/conquista che, se coronata da successo, può preludere a ulteriori espansioni territoriali russe in Europa. Quest’ultima è invece la definizione della natura e degli scopi dell’intervento russo adottata dagli Stati occidentali.



Prima fase della guerra (dal 24 febbraio alla primavera 2022). Escalation militare russa: invasione dell’Ucraina. Escalation politica occidentale: rifiuto di ogni trattativa diplomatica.


Nel dicembre 2022 la Federazione russa, che nei mesi precedenti ha schierato alla frontiera ucraina un contingente militare pronto all’intervento, propone agli USA una soluzione diplomatica, nell’insolita forma di bozza di trattato resa pubblica. Le principali richieste russe sono, in sostanza: Ucraina neutrale e applicazione effettuale degli accordi di Minsk per la tutela delle popolazioni russofone del Donbass, dove dal 2014 è in corso una guerra civile appoggiata ufficiosamente dai governi ucraino e russo. Gli Stati Uniti non rispondono alla proposta in forma ritenuta soddisfacente dai russi (rinviano, traccheggiano, ricorrono alla “strategic ambiguity”).

Il 24 febbraio 2022 la Federazione russa interviene militarmente in Ucraina. Non è possibile sapere con certezza perché abbia scelto proprio questo momento. Forse – ma è solo una mia inferenza logica – perché in base alle informazioni in suo possesso, la Federazione russa ritiene che l’esercito ucraino stia per intervenire in forze contro le milizie del Donbass, schierando poi il grosso delle truppe nelle postazioni difensive fortificate ivi costruite nel corso degli anni, in modo da prevenire il possibile intervento militare russo e renderlo molto più difficile, costoso, incerto.

I russi intervengono con un contingente militare di circa 180-200.000 uomini, in condizioni di inferiorità numerica di 3:1 circa rispetto all’esercito ucraino, sebbene i manuali tattici prescrivano una proporzione inversa attaccanti/difensori (almeno 3:1 a favore dell’attaccante, per compensare il vantaggio della difesa). Sviluppano attacchi su cinque direttrici, sia al Sudest, sia al Nordovest dell’Ucraina. Gli attacchi nel Nordovest sono attacchi secondari, un’ampia manovra diversiva volta a fissare truppe ucraine a difesa di Kiev e degli altri centri interessati dalla manovra, per modellare il campo di battaglia nel Sudest, nel Donbass, dove si dirigono gli attacchi principali. Così interpretando la manovra russa aderisco all’articolata interpretazione che ne ha dato “Marinus”, probabilmente pseudonimo del Ten. Gen. (a riposo) Paul Van Riper, Corpo dei Marines, nello studio pubblicato sui numeri di giugno e agosto 2022 della “Marine Corps Gazette”, che ho tradotto in italiano, commentato e pubblicato sui siti citati in apertura.

Nel giro di tre-quattro settimane la manovra diversiva russa ha successo. A fine marzo, le truppe russe che hanno sviluppato gli attacchi secondari nel Nordovest si ritirano, mentre il grosso delle forze russe si schiera in quasi tutto il Donbass, infliggendo pesanti perdite anzitutto materiali all’esercito ucraino grazie alla netta superiorità nella potenza di fuoco d’artiglieria e missilistico. L’azione militare russa evita accuratamente di coinvolgere i civili, non tocca le infrastrutture a doppio uso civile e militare (es., la rete elettrica) e si configura insomma come “diplomazia armata”: i russi tentano di ottenere, con una moderata pressione militare, gli obiettivi che non hanno raggiunto con la pluriennale, crescente pressione diplomatica.

Fino alla fine di marzo 2022 pare che la “diplomazia armata” russa possa avere successo: tra il 24 febbraio e la fine di marzo si tengono sette incontri diplomatici tra Russia e Ucraina, e a fine marzo il presidente Zelensky dichiara ufficialmente a media russi indipendenti di essere pronto a trattare la neutralità dell’Ucraina e la soluzione del problema delle popolazioni russofone del Donbass.



Prima escalation politica occidentale


Ma il 7 aprile 2022 il Premier britannico Boris Johnson fa visita al presidente ucraino Zelensky, e dichiara ufficialmente che “L’Ucraina ha rovesciato i pronostici [“defied the odds”] e ha respinto le forze russe alle porte di Kiev, realizzando il più grande fatto d’armi del 21° secolo “. Da quel momento in poi, cessa ogni rapporto diplomatico tra Ucraina e Federazione russa.

L’interpretazione conforme la quale la piccola Ucraina ha sconfitto sul campo la grande Russia si fonda su una lettura delle prime settimane di guerra radicalmente diversa da quella che ho proposto più sopra. Secondo questa interpretazione, obiettivo russo sarebbe stato la presa di Kiev e il “regime change”, il rovesciamento del governo ucraino e la sua sostituzione con un governo fantoccio favorevole alla Russia, e gli attacchi nel Nordovest sarebbero attacchi principali falliti, non attacchi secondari nel quadro di un’ampia manovra diversiva. È una interpretazione possibile, che se rispondente al vero denuncia una grave inadeguatezza militare e politica della Federazione russa: impossibile raggiungere obiettivi tanto ambiziosi con un dispiegamento di forze così ridotto e una così bassa intensità del conflitto.

Su questa interpretazione dei fatti militari, errata o corretta, in buonafede o strumentale che sia, fanno leva le fazioni più oltranziste nel campo occidentale e nel governo ucraino. Si cristallizza in Occidente la certezza ufficiale che sia possibile infliggere una sconfitta militare decisiva alla Russia, e che sia dunque realistico proporsi obiettivi strategici massimalisti, quali il dissanguamento della Russia e la sua destabilizzazione politica per mezzo sia della pressione militare, sia delle sanzioni economiche, sia dell’attivazione delle forze centrifughe. Obiettivo finale, l’espulsione della Russia dal novero delle grandi potenze, l’insediamento di un governo favorevole all’Occidente, eventualmente la frammentazione politica della Federazione russa.

Questi obiettivi massimalisti vengono rivendicati ufficialmente il 24 aprile dai Segretari alla Difesa e di Stato USA. I paesi europei e NATO, tranne la Turchia e l’Ungheria, si allineano senza fiatare e votano con maggioranze parlamentari schiaccianti durissime sanzioni economiche alla Russia e l’invio di armi all’Ucraina. Le storicamente neutrali Svezia e Finlandia annunciano la loro intenzione di chiedere l’adesione alla NATO.

La “diplomazia armata” russa è fallita.



Seconda fase della guerra (primavera – metà estate 2022). Conquista russa del Donbass. La condizione di possibilità di una vittoria ucraina.


Prosegue con successo la conquista russa del Donbass, con scontri urbani molto violenti, casa per casa, a Mariupol e altrove. Le truppe russe impegnate sulla linea di contatto col nemico sono principalmente le milizie del Donbass, le formazioni di volontari ceceni, e il gruppo Wagner. Le formazioni dell’esercito regolare russo agiscono anzitutto (non solo) in appoggio, con l’artiglieria, i missili e il comando operativo. L’azione militare russa continua a non interessare le infrastrutture a doppio uso, militare e civile, dell’Ucraina.

Il rapporto tra le perdite ucraine e le perdite russe è nettamente sfavorevole agli ucraini, sia per la superiorità della potenza di fuoco russa, sia perché le operazioni militari ucraine sono fortemente influenzate dalla necessità di giustificare, presso i governi e le opinioni pubbliche occidentali, il colossale e quasi unanime sostegno politico e finanziario all’Ucraina, che ha gravi ricadute politico-economiche sui paesi europei, anzitutto la Germania che si vede esclusa dalla fornitura di energia russa a basso prezzo sulla quale basa le sue fortune economiche da decenni.

In sintesi gli ucraini sono costretti a “vendere” con i risultati sul campo, con una inflessibile resistenza e una costante aggressività, la sostenibilità politica dell’indispensabile appoggio occidentale: deve essere e restare plausibile la prospettiva di una futura vittoria militare dell’Ucraina sulla Russia.

Ovviamente la valorosa resistenza ucraina non va ascritta a ciò soltanto: per un’ampia quota della popolazione, il conflitto con la Russia è divenuto una guerra di liberazione nazionale, che si integra con una guerra civile e con una guerra per procura tra Russia e Stati Uniti d’America – NATO.



La condizione di possibilità di una vittoria militare ucraina


La condizione di possibilità una vittoria militare decisiva dell’Ucraina sulla Russia, però, si fonda su un presupposto.

È il presupposto che fa da principio ordinatore della strategia di deterrenza du faible au fort elaborata dal gen. Gallois in vista della creazione della force de frappe nucleare francese: rendere sfavorevole, per il fort (la potenza più forte), il rapporto costi/benefici della vittoria sul faible (la potenza più debole). Impiegando a fondo le sue maggiori risorse, la grande potenza nucleare che aggredisse la Francia potrebbe senz’altro distruggerla totalmente, ma l’attivazione della force de frappe nucleare del faible infliggerebbe comunque al fort danni politicamente inaccettabili.

In parole povere ma chiare: per vincere, la potenza più debole deve fare in modo che per la potenza più forte, il gioco della vittoria non valga la candela di una guerra a oltranza. L’Ucraina è il faible, la Russia il fort.

Anche con l’aiuto occidentale, le risorse strategiche ucraine (popolazione, potenza latente economica, potenza manifesta militare, truppe mobilitate e mobilitabili, profondità strategica) restano di interi ordini di grandezza inferiori alle risorse strategiche russe, perché la Russia ha 145 MLN di abitanti, può mobilitare un massimo di 25 MLN di uomini, ha enormi risorse naturali e la capacità di trasformarle, un’ampia base industriale militare, e una profondità strategica di 11 fusi orari. (“Profondità strategica” è lo spazio amico entro il quale un esercito attaccato e respinto può ripiegare, riorganizzarsi, passare al contrattacco, come fecero appunto i sovietici dopo la devastante serie di sfondamenti della Wehrmacht all’esordio dell’Operazione Barbarossa, quando i sovietici trasferirono oltre la catena degli Urali milioni di uomini e numerose industrie strategiche situate nella Russia europea, e fecero affluire verso il fronte i reparti militari di stanza in Oriente, integrandoli con i reparti sfuggiti agli accerchiamenti tedeschi).

Ripeto: una potenza nettamente più debole può vincere contro una potenza nettamente più forte solo se rende il rapporto costi/benefici della vittoria sfavorevole per la potenza nemica. È una vittoria a caro prezzo (guerra del Vietnam: caduti USA 58.000, caduti Vietnam 849.000 + 300-500.000 dispersi, stime governative) ma è una vittoria possibile.

È così che Vietnam e Afghanistan hanno vinto contro USA e URSS, che disponevano entrambe di risorse strategiche di gran lunga superiori. Se le due potenze maggiori avessero deciso di impegnare a fondo le loro risorse strategiche, Vietnam e Afghanistan non avrebbero potuto evitare una sconfitta totale. USA e URSS non lo hanno fatto perché lo hanno ritenuto politicamente insostenibile: perdite troppo elevate, impegno politico, economico e militare a lunga scadenza inaccettabile, crescente opposizione interna alla guerra, etc. In sintesi USA e URSS hanno deciso di perdere perché hanno valutato che per loro, il rapporto costi/benefici della sconfitta fosse più vantaggioso del rapporto costi/benefici della vittoria.



La posta in gioco per la Russia


Ma gli obiettivi strategici dichiarati ufficialmente dal governo USA e rilanciati da NATO e paesi europei sono obiettivi massimalisti: dissanguamento e permanente indebolimento della potenza economica e militare russa, destabilizzazione del governo, attivazione delle forze centrifughe interne alla Federazione russa, espulsione della Russia dal novero delle grandi potenze, possibile sua frammentazione politica. Particolarmente temibile, per la Russia che si è formata storicamente come impero multietnico, multinazionale, multireligioso, la possibilità di un’attivazione delle forze centrifughe etniche, religiose, nazionali, in uno scenario analogo allo jugoslavo degli anni Novanta.

Gli obiettivi dichiarati dall’Occidente configurano insomma una minaccia esistenziale per il governo, lo Stato, la società e le nazioni russe. I dirigenti russi dunque si persuadono che nella guerra ucraina sia in gioco la posta assoluta, sono disposti letteralmente a tutto per vincerla, e lo dicono ripetutamente in forma ufficiale. Saranno dunque disposti, anzi costretti a impiegare a fondo tutte le risorse strategiche russe per vincere la guerra: per vincere l’Ucraina, ed eventualmente, se si arrivasse a un conflitto diretto, anche la NATO.

Viene così a cadere la condizione di possibilità di una futura vittoria ucraina: che per la Russia il gioco della vittoria sull’Ucraina non valga la candela della guerra a oltranza. Per vincere la Russia, l’Ucraina e i suoi alleati occidentali devono ottenere la vittoria decisiva su una Federazione russa disposta o meglio obbligata ad impegnare a fondo, per tutto il tempo necessario, tutte le sue risorse strategiche: in sintesi, farla capitolare.

Al contempo gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali, impegnandosi pubblicamente a raggiungere obiettivi massimalistici, si chiudono lo spazio di manovra diplomatica e fanno salire fino al cielo la posta politica in gioco per le loro classi dirigenti, che rischiano di essere spazzate via da una sconfitta; malgrado che un esito sfavorevole della guerra non danneggi, in quanto tale, gli interessi vitali delle loro nazioni, nessuna delle quali rischia la destabilizzazione o peggio in seguito a una sconfitta ucraina.

L’unica nazione del campo occidentale che rischia tutto è l’Ucraina, che da una prosecuzione della guerra a oltranza e da una probabile sconfitta può attendersi solo terribili sciagure.



Terza fase della guerra (fine estate – autunno 2022). Successo della controffensiva ucraina. Escalation politica russa: annessione di quattro oblast del Donbass. Escalation militare russa: bombardamento degli obiettivi a doppio uso militare e civile. Guerra di manovra e guerra d’attrito.


Le forze russe si attestano nel Donbass, occupando quasi il 20% dell’intero territorio ucraino e schierandosi su un fronte di 1.500 km circa. Il dispositivo militare ucraino si riorganizza, amplia la mobilitazione richiamando i riservisti ed estendendo la coscrizione obbligatoria fino ai 60 anni, viene rifornito di nuovi armamenti occidentali (in larga misura equipaggiamenti ex – sovietici) in sostituzione di quelli distrutti nelle fasi precedenti del conflitto, viene innervato da un più vasto e intenso coinvolgimento di personale di comando NATO e da una più capillare strutturazione delle funzioni ISR (Intelligence, Surveillance and Reconnaissance), e nel settembre 2022 sferra una controffensiva in forze con direttrice principale su Kharkiv.

La controffensiva ucraina ha successo. I russi devono arretrare su tutto il fronte, ripiegando più o meno ordinatamente. Motivo: la coperta russa è troppo corta. I reparti russi hanno conquistato vasti territori che non sono in grado di tenere con l’esiguo numero di truppe impegnate nella “operazione militare speciale”. Essi dunque devono resistere ripiegando il più ordinatamente possibile, accorciare il fronte, ridurre i territori da difendere e fortificarli per attestarvisi, riconfigurare il dispositivo militare e rinforzarlo.

La Russia si adatta alla nuova realtà sul terreno. Viene nominato un comandante generale delle operazioni in Ucraina, il gen. Surovikin. Il governo propone alla Duma, che la vota all’unanimità, la mobilitazione parziale di 300.000 riservisti. Vengono mobilitate anche le industrie militari, che lavoreranno su tre turni di otto ore.



Escalation politica russa: annessione dei quattro oblast del Donbass


Il governo propone alla Duma, che nell’ottobre la vota all’unanimità, l’annessione di quattro oblast del Donbass: le regioni di Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhya e Kherson, previo plebiscito organizzato dalle autorità di occupazione russe.

È la più decisiva escalation politica di tutta la guerra, perché con essa la Russia si brucia le navi alle spalle e annuncia implicitamente la propria ferma volontà di impegnare a oltranza tutte le proprie risorse strategiche per ottenere la vittoria sull’Ucraina e sui suoi alleati. Per far recedere la Russia dall’annessione, riconsegnando all’Ucraina territori che per la Federazione russa sono formalmente divenuti territorio nazionale, l’Ucraina e i suoi alleati dovrebbero infliggere una sconfitta decisiva a tutta la Federazione russa, e farla capitolare.



Escalation militare russa. Bombardamento degli obiettivi a doppio uso militare e civile


Riconfigurato il dispositivo militare intorno all’unità di comando e consolidato il fronte, mentre si svolge tra varie difficoltà la mobilitazione dei riservisti (è la prima mobilitazione da ottant’anni e l’apparato amministrativo e logistico russo non è pronto; centinaia di migliaia di russi varcano le frontiere per evitare il richiamo) il comandante generale Surovikin decide l’escalation militare. Per la prima volta vengono interessati da una serie incessante di fitti bombardamenti missilistici gli obiettivi a doppio uso, civile e militare, in particolare la rete elettrica ucraina ma in generale le infrastrutture quali ferrovie, fabbriche, depositi di materiale militare e civile, etc. La Russia non prende di mira i civili, ma bersagliando le infrastrutture a doppio uso provoca gravi disagi alla popolazione, compromette il normale svolgimento della vita quotidiana, e ovviamente provoca “danni collaterali”, vittime civili colpite per errore dai suoi missili e dal fuoco contraereo ucraino.

Il gen. Surovikin prende anche la decisione, politicamente difficile e impopolare ma corretta, di abbandonare Kherson, importante centro testé formalmente annesso al territorio nazionale russo, e di far ripiegare le truppe che la occupano sulla sponda meridionale del fiume Dnepr. La decisione operativa consente di non sprecare forze per prevenire una controffensiva in un punto delicato, concentrando invece gli sforzi nel Donbass. Ne conseguiranno vantaggiosi risultati concreti sul campo di battaglia.



Guerra di manovra, guerra d’attrito. L’ esempio storico dell’Operazione Barbarossa


La “guerra di manovra”, in tedesco Bewegungskrieg, “guerra di movimento”, è l’opposto simmetrico della “guerra d’attrito”, Stellungskrieg, “guerra di posizione”. Ogni guerra combina, in percentuali diverse, manovra e attrito. La guerra d’attrito punta a logorare gradualmente le capacità di combattimento del nemico con l’applicazione prolungata e costante di una forza superiore; la guerra di manovra punta a distruggere rapidamente le capacità di combattimento del nemico trovando o creando, e sfruttando abilmente, lo Schwerpunkt, il punto decisivo vitale e debolmente difeso dello schieramento nemico, contro il quale sferrare un rapido, determinante attacco in forze. Il vantaggio della manovra sull’attrito sembra ovvio: la manovra offre la possibilità di una vittoria rapida e decisiva, ma minaccia anche la possibilità di una sconfitta altrettanto rapida e decisiva, perché attaccare è sempre rischioso e il nemico può sempre dire la sua. Come sottolinea Clausewitz, non esiste la “scienza della vittoria”, e la logica che governa la guerra non è lineare ma paradossale, come illustra il detto romano “si vis pacem para bellum”. La guerra di manovra viene privilegiata degli eserciti che scontano un evidente svantaggio nella guerra d’attrito: eserciti meno numerosi, con capacità materiali o logistiche inferiori a quelle del nemico.

In questa fase il conflitto ucraino, che nelle due fasi precedenti ha visto una combinazione di manovra e attrito, si stabilizza in forma di guerra d’attrito, il tipo di conflitto dove pesa di più la disparità di risorse strategiche tra i contendenti. Nella guerra d’attrito, infatti, quel che più conta per la vittoria è la rispettiva capacità di generare durevolmente forze umane e materiali. È il campo in cui la Russia ha il maggior vantaggio relativo sull’Ucraina.

Accresce il vantaggio russo il fatto politico essenziale che l’Ucraina dipende in tutto e per tutto dall’appoggio occidentale, e che i dirigenti occidentali devono giustificare presso le opinioni pubbliche e l’elettorato il crescente costo politico-economico di questo appoggio. Dunque gli ucraini sono costretti dalla ragion politica a inviare costantemente truppe, anche insufficienti o impreparate, sulla linea di contatto con i russi, mantenendo vivo il conflitto, rinnovando in Occidente l’ammirazione per la loro capacità di resistenza, e alimentando la persuasione che la vittoria finale ucraina sia possibile.

Dal punto di vista militare, in realtà, agli ucraini converrebbe prendersi una pausa, riorganizzare le riserve, rinforzarle e addestrarle, e risparmiare uomini e mezzi in vista di controffensive future. Una potenza dotata di risorse strategiche nettamente inferiori al nemico, infatti, può sperare di vincerlo soltanto con un’abile, aggressiva e rapida, soprattutto rapida guerra di manovra: in una guerra d’attrito, il tempo lavora per la potenza con le maggiori risorse strategiche.

Furono queste considerazioni fondamentali a dettare la forma in cui si è sviluppata e ordinata la potenza militare prussiana prima e tedesca poi, ossia dei maestri di un’aggressiva e rapida guerra di manovra. Sia la Prussia sia la Germania, infatti, hanno dovuto fare i conti con la propria situazione geopolitica: esposizione su più fronti al centro d’Europa, frontiere indifese da ostacoli naturali, limitate risorse naturali e umane; e hanno tentato di risolvere la difficile equazione mettendo a punto un dispositivo militare altamente preparato a condurre con la massima aggressività e perizia rapide guerre di manovra. Esemplari dei successi dello stile germanico le magistrali Blitzkriegcontro Polonia e Francia nella IIGM. Esemplare, però, anche il fallimento dell’Operazione Barbarossa. La Germania invade l’URSS, ottiene per sei mesi schiaccianti vittorie ma non riesce a provocare il collasso politico e sociale del nemico, e tocca il limite delle proprie capacità logistiche. L’URSS non capitola, si riorganizza, e comincia a generare forze umane e materiali in misura via via crescente e superiore rispetto alle forze che è in grado di generare la Germania. Saranno necessari quattro anni di durissimo conflitto, ma il destino della Germania è segnato.

Si noti bene che al tempo dell’Operazione Barbarossa tutti gli Stati Maggiori del mondo, abbagliati dai precedenti, splendidi successi tedeschi, davano per scontata la vittoria della Wehrmacht. Essa però avrebbe potuto verificarsi soltanto se l’URSS fosse collassata in seguito ai primi mesi di devastanti sconfitte. L’Operazione Barbarossa è dunque stata un’azzardata scommessa strategica, in cui la vittoria finale dipendeva interamente dal crollo della coesione politica, militare e sociale del nemico. L’Alto Comando tedesco non ha invece tenuto nella dovuta considerazione sia le risorse strategiche attuali dell’URSS, sia, e soprattutto, la sua capacità di generare nuove forze, maggiori delle proprie, per tutto il tempo necessario a concludere vittoriosamente la guerra.

È lo stesso tipo di errore che hanno commesso gli Alti Comandi occidentali in questo conflitto ucraino.

Essi hanno gravemente sottovalutato le risorse attuali della Russia: da questo errore dell’intelligence militare i continui proclami che la Russia starebbe per terminare le sue scorte di missili, proietti d’artiglieria, etc., rivelatisi via via sempre più grotteschi e difformi dalla realtà; hanno gravemente sottovalutato la sua capacità di generare nuove forze umane e materiali nel breve, e nel medio-lungo periodo: di qui l’errata valutazione dell’impatto delle sanzioni economiche sulla Russia, a torto creduto rapidamente incapacitante; hanno gravemente sottovalutato la coesione politica e sociale della compagine russa, la sua volontà di combattere e di stringersi intorno alla bandiera: di qui gli annunci, via via più ridicoli, di un prossimo rovesciamento del governo russo in seguito al dissenso della popolazione e di decisivi settori della classe dirigente.



Quarta fase trasformativa della guerra (fine autunno 2022 – inverno 2022/23). Due fazioni nei centri direttivi statunitensi: escalation o de-escalation del conflitto? Tre fatti significativi. Stime delle perdite ucraine e russe. Previsioni. La doppia trappola strategica.

Ritengo trasformativa la presente fase della guerra perché soltanto in questa fase viene chiaramente in luce la sua natura di doppia trappola strategica.

Nella quarta fase della guerra si verificano tre fatti significativi.

Sabotaggio del Northstream 2

Nel novembre 2022 un sabotaggio subacqueo rende inutilizzabile il Northstream 2, il gasdotto costruito per trasportare il metano russo in Germania attraverso il Mar Baltico, senza passare per l’Ucraina. L’inchiesta entra subito in stallo, per l’impossibilità politica di individuarne gli autori: infatti la logica del cui prodest suggerisce che responsabili ultimi dell’attentato siano gli Stati Uniti. Probabilmente, l’operazione è frutto di una collaborazione tra Royal Navy britannica e forze speciali polacche. Motivo del sabotaggio: nella classe dirigente tedesca crescono le preoccupazioni per i disastrosi effetti a lunga scadenza (progressiva disindustrializzazione della Germania) della cessazione di forniture d’energia russa a buon mercato. Il sabotaggio del gasdotto è un vero e proprio atto di guerra contro la Germania, volto a intimidirla perché si allinei senza esitazioni alla strategia di contrapposizione frontale alla Russia decisa dagli USA. L’intimidazione ha successo. Intimidita la Germania, l’unico Stato europeo che non aderisca perinde ac cadaver alla linea statunitense è la piccola Ungheria; nella NATO, l’unico Stato con un elevato grado di autonomia politica è la Turchia.



Dichiarazioni pubbliche del gen. Milley, capo dello Stato Maggiore congiunto USA


Nel novembre e di nuovo nel dicembre 2022 il gen. Mark Milley, capo dello Stato Maggiore congiunto statunitense, rilascia irrituali dichiarazioni pubbliche, invitando all’apertura di una trattativa diplomatica con la Russia, e asserendo che “agli ucraini non si può chiedere di più”. Le dichiarazioni irrituali di Milley sono evidente indizio che nei centri decisionali statunitensi confliggono due grandi fazioni: una incentrata nell’establishment bipartisan che dirige la politica estera, favorevole alla prosecuzione a oltranza della guerra in Ucraina ed eventualmente a una sua escalation; e un’altra, incardinata nel Pentagono, favorevole a una de-escalation del conflitto. Il fatto che Milley comunichi pubblicamente le sue posizioni prova che nel dibattito interno all’Amministrazione USA la posizione del Pentagono è minoritaria e teme di restarlo, e che lo scontro tra le due posizioni è molto aspro.

A ulteriore riprova dell’esistenza di questi schieramenti interni alla direzione statunitense, il recentissimo studio pubblicato dalla RAND Corp., Avoiding a Long War: U.S. Policy and the Trajectory of the Russia-Ukraine Conflict[1], [in nota riferimento bibliografico e traduzione italiana dell’abstract] che analizza, dal punto di vista dell’interesse nazionale USA, i costi di un prolungamento della guerra ucraina, raccomanda la de-escalation, e la cauta instaurazione di un processo diplomatico che porti a una conclusione negoziata del conflitto. La RAND Corporation è un importante e prestigioso centro studi che sin dalla sua fondazione fornisce analisi e progetti soprattutto al Pentagono.



Riconfigurazione della struttura di comando russo, annuncio di riforma delle FFAA russe


Nel gennaio 2023, il governo russo riconfigura il comando militare delle operazioni in Ucraina, e annuncia una più generale riforma strutturale delle sue Forze Armate. Il militare russo più alto in grado, generale Gerasimov, Capo di Stato Maggiore delle FFAA russe, viene insignito del comando generale delle operazioni in Ucraina, mentre il gen. Surovikin riprende il suo precedente ruolo di Comandante delle Forze Aerospaziali. Il governo ristabilisce i distretti militari di Mosca e Leningrado, ordina la formazione di un nuovo gruppo d’armate in Carelia, alla frontiera finlandese, e la creazione di dodici nuove divisioni dell’esercito. Annuncia altresì che entro il 2026 aumenterà le dimensioni del suo dispositivo militare in servizio permanente effettivo, portandole a 1,5 MLN di uomini. Nel contempo, i massimi dirigenti russi iniziano a dichiarare pubblicamente che la guerra in corso in Ucraina è, in realtà, una guerra tra Russia e NATO. Queste inedite dichiarazioni pubbliche hanno anche – come sempre in guerra – una valenza propagandistica interna, ma interpretate alla luce delle riforme militari in corso suggeriscono con un elevato grado di plausibilità che i decisori russi si preparano per il caso peggiore, ossia per un intervento diretto delle forze occidentali nel conflitto ucraino.



Prosegue la guerra d’attrito. Stime delle perdite ucraine e russe


Nel frattempo, sul terreno ucraino la guerra d’attrito continua. Continuano gli attacchi missilistici alle infrastrutture ucraine a doppio uso, civile e militare. Il dispositivo militare russo si consolida sulle posizioni difensive occupate e rafforzate dopo il ripiegamento. Continua e si perfeziona l’addestramento dei riservisti richiamati, e la logistica si adegua gradualmente all’arrivo dei rinforzi e alla prosecuzione degli intensi, costanti attacchi missilistici. I reparti russi sferrano attacchi incrementali sulle linee difensive ucraine, con ridotto impiego di truppe e larghissima, prolungata preparazione d’artiglieria, per limitare il più possibile le proprie perdite. Gli ucraini, intrappolati dalla necessità politica di resistere sempre e comunque e appena possibile attaccare, per giustificare il sostegno occidentale, cordone ombelicale della prosecuzione della guerra, non sono in grado di contrattaccare in forze, ma resistono anche oltre i vantaggi militari della resistenza e subiscono gravissime perdite di uomini e di materiali.

È impossibile, finché dura la guerra, avere dati certi delle perdite. Mentre scrivo, a fine gennaio 2023, fonti occidentali quali Strategic Forecasting, un’importante agenzia di intelligence privata che abitualmente collabora con la CIA, parla di più di 300.000 morti ucraini, per un totale di perdite irrecuperabili intorno ai 400.000 uomini. Le più recenti valutazioni occidentali, non ufficiali, delle perdite irrecuperabili russe parlano di 20.000 morti e 30.000 tra dispersi e feriti gravi. Pur con tutte le necessarie cautele, è abbastanza verisimile che il rapporto tra perdite ucraine e perdite russe si situi tra 10:1 e 5:1. Nelle grandi battaglie della IIGM, il rapporto di perdite tra lo sconfitto e il vincitore fu intorno a 1,3 – 1,5: 1. L’esercito ucraino non sembra essere in grado di preparare, nel prossimo futuro, una controffensiva su grande scala: per l’elevatissimo numero di perdite, soprattutto di ufficiali e sottufficiali veterani; per la scarsità di materiale bellico, nonostante i rinnovati invii di armi occidentali; per la crescente disorganizzazione delle strutture di comando militare; per la crescente, progressiva degradazione delle condizioni economiche e sociali dell’intera Ucraina.



Scelte operative dell’Alto Comando russo. Previsioni.


In sintesi, nella quarta fase della guerra comincia a risultare chiaro che il dispositivo militare russo ha raggiunto, o è sul punto di raggiungere, le condizioni necessarie e sufficienti a imprimere al conflitto la direzione voluta dal suo comando militare e politico.

Ovviamente, solo l’Alto Comando russo sa, o saprà, quale sia questa direzione, ma attualmente esso pare in grado di:

  1. proseguire la guerra d’attrito, applicando costantemente sul dispositivo militare ucraino, e sull’intera società ed economia ucraine, la sua forza superiore: così risparmiando la propria risorsa più preziosa, gli uomini. Gli uomini sono la risorsa russa più preziosa dal punto di vista politico, per evidenti ragioni rafforzate dall’approssimarsi delle elezioni presidenziali russe del 2024. Sono la risorsa più preziosa anche dal punto di vista militare, e in special modo lo sono i veterani, che devono addestrare e integrare nei reparti i riservisti richiamati, nessuno dei quali ha esperienza diretta di una guerra a così alta intensità (non ce l’ha nessuno al mondo tranne chi vi ha partecipato, nell’uno o nell’altro schieramento)
  2. passare all’offensiva su grande scala, su una o più direttrici. Prevedibili obiettivi strategici, l’annientamento progressivo della capacità di combattere dell’esercito ucraino; la riconquista delle porzioni territoriali dei quattro oblast annessi alla Russia, e riprese dall’Ucraina in seguito al ripiegamento russo; l’occupazione e l’annessione alla Russia di Odessa e dell’intero territorio della Novorossiya, in modo da escludere l’Ucraina dall’accesso al mare.
Probabilmente, nelle valutazioni dell’Alto Comando russo sono presenti, e non in secondo piano, le previsioni sulla reazione occidentale all’una e all’altra decisione operativa russa. Proseguire la guerra d’attrito consente alle direzioni occidentali di rinviare le decisioni strategico-politiche su escalation o de-escalation, e probabilmente avvantaggia la fazione favorevole alla de-escalation, dandole il tempo di organizzarsi meglio, trovare alleati, diffondere pubblicamente i suoi argomenti. Passare all’offensiva le obbliga a scegliere in tempi brevi, brevissimi se l’offensiva ha presto un chiaro successo. La fazione statunitense favorevole alla de-escalation è tuttora minoritaria: la situazione sul campo la favorisce, ma le manca l’appoggio aperto di almeno uno tra i più importanti alleati europei.

A mio avviso, per la Russia è vantaggioso evitare un’accelerazione del conflitto, sia per i rischi di fallimento e i costi umani sempre associati alle azioni offensive su grande scala, sia per non servire una carta decisiva al “partito della guerra a oltranza” statunitense, che sull’onda dell’emozione potrebbe iniziare una diretta, formale implicazione di forze occidentali nella guerra; per esempio, il varo di una “coalizione dei volonterosi” come proposto nel novembre 2022 a dal gen. (a riposo) David Petraeus, ossia con truppe polacche, rumene, baltiche, etc. che intervengano sotto la propria bandiera, ma non in quanto membri della NATO, in seguito a una richiesta di aiuto militare del governo ucraino: un escamotage giuridico per evitare un aperto conflitto diretto NATO – Russia, che rischierebbe di interessare anche il territorio statunitense.

Quindi, se devo arrischiare una previsione, penso che la Russia continuerà ancora a lungo la guerra d’attrito.



Vittoria decisiva della sola Ucraina. Vittoria decisiva con intervento diretto occidentale. Possibilità e probabilità


In estrema sintesi, a un anno dall’inizio della guerra risulta chiaro che una decisiva vittoria militare ucraina sulla Russia è materialmente impossibile, per quanto possano proseguire, o anche aumentare, nelle forme attuali, gli aiuti occidentali. La situazione può cambiare solo con un diretto coinvolgimento di truppe occidentali.

Comincia però ad albeggiare il dubbio, anche nelle direzioni politico-militari occidentali, che un diretto coinvolgimento di truppe occidentali nella guerra non basti ad assicurare, o almeno a rendere altamente probabile, la vittoria decisiva sulla Russia. Dubbiosi sono soprattutto i militari: per questo la fazione statunitense favorevole alla de-escalation si incardina sul Pentagono. Motivi:

  1. l’attuale dispositivo militare dell’intera NATO, Stati Uniti compresi, non è concepito e preparato per una guerra convenzionale ad alta intensità contro un nemico capace di condurla, come la Russia. Dalla fine della Guerra Fredda, tutte le nazioni NATO hanno fortemente ridotto i loro eserciti, dismesso gran parte delle strutture logistiche militari, indirizzato la struttura e l’addestramento delle loro FFAA, e la produzione delle loro industrie militari, a conflitti di breve durata contro nemici nettamente inferiori, in genere appartenenti al “Grande Sud del mondo”; una decisione tutto sommato ragionevole, finché la NATO non si è contrapposta alla Russia, che in effetti non la minacciava affatto.
  2. La Russia, invece, ha strutturato le sue FFAA e la sua industria militare in vista di una guerra difensiva contro la NATO, come è nella tradizione storica di un paese che da sempre deve fronteggiare e respingere grandi invasioni del suo territorio. Sinora ha privilegiato la difesa di ultima istanza, la triade nucleare, ma come prova la guerra in Ucraina non ha abbandonato la preparazione convenzionale e la sta rafforzando. Essa ha inoltre guadagnato, in settori decisivi come la missilistica e la difesa contraerea, la superiorità relativa rispetto agli Stati Uniti. Per compensare lo svantaggio ci vogliono anni.
  3. Un riarmo occidentale è molto arduo, il suo esito incerto, i tempi lunghi. I finanziamenti, anche massicci, non bastano: il denaro può comprare solo quel che già esiste, e quel che già esiste non basta. Per far esistere quello che manca, è necessario anzitutto determinare politicamente la strategia di sicurezza collettiva della NATO, un processo molto complicato e difficile anche per la frammentazione dei centri decisionali. Se il nemico principale della NATO è la Russia, è indispensabile, come minimo, e giusto per cominciare: costruire un alto numero di cacciabombardieri da impiegare in appoggio alla fanteria, e in grado di sopravvivere alle difese missilistiche russe; costruire le infrastrutture logistiche necessarie a un’ampia proiezione delle forze in caso di crisi, con la relativa pianificazione; varare un grande programma di difesa antiaerea integrata del territorio europeo; varare un vasto programma di reclutamento e addestramento truppe, in specie di ufficiali e sottufficiali. Al riguardo, è bene tenere presente che la rinuncia da parte di tutti i paesi NATO alla coscrizione obbligatoria ha provocato la perdita di ingenti riserve addestrate alle quali far ricorso in caso di necessità. In sostanza, in caso di una guerra che ci coinvolga, prenda tempi lunghi e sconti perdite rilevanti, mobilitazioni come quelle indette da Mosca e dall’Ucraina sono quasi impossibili, per i paesi dell’Europa Occidentale. Segue un lungo eccetera.
  4. Ovviamente, un diretto coinvolgimento occidentale nella guerra impedirebbe agli Stati Uniti di concentrarsi sul contenimento della Cina, rinsalderebbe l’alleanza di quest’ultima con la Russia, esporrebbe gli USA a una possibile guerra su due fronti contro due grandi potenze nucleari, e aumenterebbe progressivamente il rischio che nel conflitto con la Russia facciano capolino le armi atomiche. Quanto più diretto e intenso il conflitto convenzionale tra due grandi potenze nucleari come Russia e USA, tanto più probabile che il contendente che si credesse esposto a una probabile sconfitta decisiva mediti seriamente di impiegare le armi nucleari.
  5. Altrettanto ovviamente, in un conflitto diretto tra forze occidentali e Russia le perdite occidentali si conterebbero a decine di migliaia, un costo umano difficile da giustificare politicamente.


La doppia trappola strategica


Con l’allargamento a Est della NATO, e insistendo per includervi l’Ucraina, gli Stati Uniti hanno teso una trappola strategica alla Russia, costringendola a scegliere tra due alternative, entrambe molto pericolose nel medio-lungo periodo: accettare il divieto di avere una sfera d’influenza, e la minacciosa presenza di un bastione militare occidentale sulla soglia della Russia europea; oppure intervenire militarmente, assumendosi il grave rischio di un conflitto con la NATO, e compromettendo i propri rapporti politici ed economici con l’Europa. Questa è la prima ganascia della trappola strategica in cui la Russia è entrata ad occhi aperti, dopo aver tentato per quattordici anni di evitarla.

Gli Stati Uniti, però, hanno gravemente sottovalutato le capacità di resistenza e di reazione, militari, economiche, politiche e sociali della Federazione russa, e altrettanto sopravvalutato sia il prestigio deterrente della propria forza, sia le proprie attuali capacità e potenzialità militari ed economiche. Si trovano dunque a dover scegliere tra due alternative, entrambe molto pericolose nel medio-lungo periodo.

La prima alternativa è la riduzione del danno, una de-escalation del conflitto ucraino che si risolve in una netta sconfitta politico-diplomatica, una pesante perdita di prestigio deterrente, la possibile apertura di faglie di crisi nel sistema di alleanze, e seri contraccolpi politici interni, es. una grave delegittimazione complessiva della classe dirigente.

La seconda alternativa è la fuga in avanti, una escalation a oltranza del conflitto, con l’eventuale – anzi probabile, perché necessario – coinvolgimento diretto di truppe occidentali; il rischio di una guerra convenzionale ad alta intensità per la quale gli USA e la NATO non sono preparati; il possibile futuro interessamento del territorio nazionale statunitense, e in prospettiva, la crescente possibilità di una degenerazione nucleare dello scontro.

Questa è la seconda ganascia della doppia trappola strategica, e ora si richiude sugli Stati Uniti che l’hanno tesa: ma vi sono entrati a occhi chiusi, e solo ora cominciano a vederla.

Ate, la dea che acceca, «da principio seduce l’uomo con amiche sembianze, ma poi lo trascina in reti donde speranza non c’è che mortale fugga e si salvi» (Eschilo, I persiani, 96-100)

Roberto Buffagni



[1] Charap, Samuel and Miranda Priebe, Avoiding a Long War: U.S. Policy and the Trajectory of the Russia-Ukraine Conflict. Santa Monica, CA: RAND Corporation, 2023. Avoiding a Long War in Ukraine

Abstract: “La discussione sulla guerra Russia-Ucraina a Washington è sempre più dominata dalla questione di come potrebbe finire. Per informare questa discussione, questa Prospettiva identifica i modi in cui la guerra potrebbe evolversi e in quale modo le traiettorie alternative influenzerebbero gli interessi degli Stati Uniti. Gli autori sostengono che, oltre a ridurre al minimo i rischi di una grave escalation, gli interessi degli Stati Uniti sarebbero meglio serviti evitando un conflitto prolungato. I costi e i rischi di una lunga guerra in Ucraina sono significativi e superano i possibili benefici di una tale traiettoria per gli Stati Uniti. Sebbene Washington non possa determinare da sola la durata della guerra, può adottare misure che rendano più probabile un’eventuale conclusione negoziata del conflitto. Attingendo alla letteratura sulla cessazione della guerra, gli autori identificano i principali ostacoli ai colloqui Russia-Ucraina, come il reciproco ottimismo sul futuro della guerra e il reciproco pessimismo sulle implicazioni della pace. La prospettiva evidenzia quattro strumenti politici che gli Stati Uniti potrebbero utilizzare per mitigare questi ostacoli: chiarire i piani per il futuro sostegno all’Ucraina, assumere impegni per la sicurezza dell’Ucraina, rilasciare assicurazioni sulla neutralità del paese e stabilire le condizioni per la revoca delle sanzioni alla Russia.”
 
Art. 21 Costituzione :

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria

La Commissione pubblica orientamenti per rafforzare il codice di buone pratiche sulla disinformazione

La libertà di manifestazione del pensiero, che implica come rilevato il diritto di esternare opinioni come quello di tacere e, soprattutto, quello di manifestare opinioni di dissenso e di opposizione a quelle dominanti, è considerata giustamente una delle caratteristiche della concezione liberale della democrazia
 
Guerra e parole

Non so se l’avete notato, ma nella nuova realtà sono scomparse parole, concetti, che fino a un annetto fa erano ricorrenti e facevano parte del minestrone semantico di tutti i giorni.

Uno di questi era il termine ”Esercito Europeo”, espressione abbastanza generica e fumosa con la quale si intendeva la realizzazione di una capacità militare comune in ambito UE (fatta coincidere e confusa, senza troppi complimenti, con l’Europa, che è altra cosa). Era una semplice velleità, un po’ pelosa, con la quale l’UE diceva di volersi accreditare come potenza militare autonoma tra le grandi, nonostante il disarmo progressivo al quale si era applicata con entusiasmo da qualche decennio, dopo che era stata convinta che il futuro delle operazioni militari sarebbe stato esclusivamente nelle cosiddette “operazioni di pace”: quelle condotte dal Primo Mondo, per esportare il suo benefico modello sugli altri pianeti.

L’uovo di Colombo, insomma: mettiamo assieme le nostre insufficienze militari per avere una forza credibile complessiva, senza dover rinunciare al godimento dell’inutile e senza ammainare la bandiera del nostro stile di vita, anzi della nostra way of life, che dovrebbe distinguerci da quegli arretrati dei nostri avi.

Operazioni di pace, appunto, altro termine scomparso dal vocabolario corrente con l’esplodere in Europa della guerra vera che fa tenere il fiato sospeso a tutte le tifoserie, scandalizzate dal fatto che la realtà non si è piegata alle loro infatuazioni ideologiche, ai loro convincimenti di tronfi fruitori della modernità e, in Italia, di figli di una Costituzione che avrebbe abolito la guerra col suo articolo 11 da almeno ottant’anni.

Una modernità per la quale la militarità dovrebbe essere scorporata dall’etica del soldato di tutti i tempi, basata sull’amor di Patria da sostituire con l’asettica disciplina di coalizione; basata sul sacrificio estremo, sulla forza militare quale lecita espressione dello Stato e su un’idea virile di società che mal si adatta ai dettami della femminizzazione di tutti i ruoli, inopinatamente smentita dalle immagini degli scannamenti intereuropei che quotidianamente erompono con maschia brutalità dai nostri teleschermi.

L’Esercito Europeo! Come è andata a finire questa velleitaria terzietà continentale l’abbiamo visto in questi mesi nei quali l’UE si è appiattita completamente sulle posizioni Usa e Nato nella guerra in Ucraina, senza nemmeno tentare di far valere le proprie esigenze e preoccupazioni per una guerra che affligge il nostro continente e non la Luna.

Una UE che si limita a passare ai suoi “soci” le istanze ucraine o d’oltreatlantico, drenando preziose risorse dalle singole Difese nazionali per alimentare una guerra per classiche rivendicazioni territoriali tra due Stati sovrani, estranei all’Unione stessa, che non ci dovrebbe riguardare direttamente. Una guerra dalla quale, infine, non ci verrà nulla di buono.

Inutile dire che, nel caso di questa fantastica e fantasiosa Difesa Comune, si trattava di un’idea peregrina anche perché non esistono in ambito europeo interessi così radicalmente comuni da presupporre anche l’impiego delle armi e il versamento del sangue delle singole gioventù nazionali, per difenderli.

Non è di interesse comune il rapporto con il Nord Africa, incendiato da Usa, UK e Francia con le primavere arabe, abbandonando il Sud Europa e l’Italia in particolare alle conseguenze di una guerra che ha distrutto ogni speranza di stabilità alle porte di casa nostra nell’indifferenza generale, con particolare riferimento a quella del Nord Europa.

Non è di interesse comune quello che succede in Medio Oriente dove una guerra crudelissima ha ucciso centinaia di migliaia di persone e distrutto comunità antichissime in Siria, musulmane e cristiane, e dove si è evitato che ISIS e Al Qaeda aprissero i loro ombrelloni sulle spiagge di Latakia e Tartus solo grazie all’intervento di una potenza europea, la Russia, mentre altre potenze europee ed extraeuropee di fatto remavano e remano contro.

Non è stato di interesse comune il guazzabuglio creato nei Balcani, dove si è impiantato un muretto di Berlino tra Kosovo e Serbia che ha continuato a dividere l’Europa dopo la caduta della Cortina di Ferro – e che tutt’oggi continua a preoccupare – mentre i singoli paesi europei si interessavano soprattutto di ricavarsi nell’area vantaggi esclusivi a scapito delle realtà statuali locali e dei “concorrenti” del vecchio continente.

E non è di interesse comune neanche l’incendio bellico appiccato in Ucraina con l’Euromaidan nel 2014 e con quello che ne è seguito l’anno scorso, anche se ora tutta Europa sembra essersi stretta a coorte per rispondere alla chiamata alle armi di una potenza extra europea come gli Usa che vuol mettere le cose a posto (?).

Ma che ci siano come minimo diverse sensibilità in merito è fuor di dubbio, viste le esitazioni dell’Ungheria e della Bulgaria, gli alti e bassi della Francia e i timori della Germania, già degradata a modesta potenza regionale da rampante potenza economica mondiale che era, dopo il taglio del Nord Stream 1 e 2 che la collegava comodamente e a buon mercato al più grande distributore di energia del mondo.

E’ in questo complicato contesto che è scomparso un altro termine, sovranità, a meno di sporadiche comparsate per irridere, da parte di chi lo ha sempre vituperato, gli avversari che invece lo eleggevano a propria bandiera. Avversari che ora sono costretti a rincorrere UE e Nato, in un crescendo rossiniano di chiamate alle armi che poco o nulla hanno a che fare con gli interessi nazionali dei rispettivi Stati.

Nessuno sembra averlo capito, tristemente, ma la cessione dei propri “gioielli” militari ad altri – nella consapevolezza che dopo la perdita della moneta nazionale, Forze Armate forti e ben equipaggiate rimangono l’ultimo presidio di una indipendenza costata sangue e sacrifici per generazioni – potrebbe rappresentare la fine di un’epoca nella quale le sovranità nazionali hanno dato forma all’Occidente.

Lo dobbiamo fare per difendere la democrazia, ci dicono, come se di una democrazia compiuta si trattasse nel caso di un paese che ha messo fuorilegge i partiti di opposizione, che chiude le chiese ortodosse arrestandone i preti e che discrimina i propri cittadini in base alla lingua che parlano.

Una guerra per difendere un principio, insomma, come se fosse umano mettere a rischio la vita di migliaia di ragazzi semplicemente per affermare un “valore”, qualunque esso sia, e non per un interesse concreto, che riguardi il proprio popolo e il suo (del popolo) futuro.

Puoi consolare una madre che ha perso il proprio figlio per salvare, armi in pugno, la sua famiglia. Puoi consolarne altre costrette allo stesso sacrificio per il bene della propria comunità; le più generose si faranno una ragione della perdita grazie alla consapevolezza che è stato per la salvezza della propria Patria e per questo, l’Ucraina è nel suo pieno diritto di combattere finche lo riterrà necessario.

Ma a nessuno si possono chiedere sacrifici per contese territoriali tra paesi diversi dal suo, soprattutto se come nel caso in esame non sono nemmeno suoi alleati. Questa era la logica delle guerre di un tempo. Una logica cinica ma che riusciva a circoscrivere gli incendi, al contrario del moralismo attuale per il quale non esistono confini e differenze ma che non si fa scrupoli a discriminare i buoni dai cattivi usando filtri autoreferenziali, irrorando di benzina le fiamme.

-di Marco Bertolini-

#TGP #Guerra #Politica

[Fonte: Guerra e parole – Analisi Difesa]
 
Tutti i nodi da sciogliere sui palloni aerostatici cinesi. Il punto di Alegi

Il segretario di Stato degli Stati Uniti, Antony Blinken, ha posticipato il proprio viaggio in Cina a seguito dello sconfinamento nello spazio aereo statunitense di un pallone aerostatico cinese. Pechino lo definisce uno strumento meteorologico, mentre per Washington è un pallone-spia. Alcuni nodi restano da sciogliere, e Airpress ne ha parlato con Gregory Alegi storico ed esperto aeronautico

Il Pentagono ha rivelato di aver individuato un pallone spia che dalle coste della Cina ha raggiunto i cieli del Montana dopo un viaggio attraverso il Pacifico e il Canada nordoccidentale. Pechino si è scusata dello sconfinamento di quello che ha definito un pallone-sonda meteorologico, ma l’effetto ha portato il segretario di Stato Antony Blinken a rimandare il proprio viaggio nella Repubblica Popolare. Una risposta forte a quello che è stato percepito da Washington come un grave sconfinamento da parte del Paese di Mezzo. Al di là degli effetti, rimangono alcuni interrogativi sulla questione. Airpress ne ha parlato con lo storico ed esperto aeronautico, Gregory Alegi.

La presenza del pallone aerostatico cinese sui cieli degli Stati Uniti che messaggio lancia?


L’arrivo di un pallone, che Pechino dichiara meteorologico, sul continente nord americano, passato prima dal Canada e arrivato poi sui cieli degli Stati Uniti, significa senz’altro una disponibilità da parte cinese a correre dei rischi politici. Quali siano, invece, le informazioni che la Cina si aspettava di raccogliere è più difficile da dire. Di certo, essendo i palloni di questo tipo grandi e molto visibili, il calcolo deve necessariamente tenere conto del fatto che si tratti di un mezzo assolutamente non stealth, e che una missione condotta con questo tipo di aerostato sarà invariabilmente identificata per quella che è.

E che missione potrebbe essere?
La Cina possiede un programma spaziale estremamente sviluppato, comprensivo di una stazione spaziale in orbita, e ha numerosi satelliti spia, presumibilmente di buon livello. È difficile, quindi, che cercasse di raccogliere immagini attraverso il pallone, perché in grado di ottenerle per via satellitare. Quindi bisogna immaginare che il pallone cercasse di ottenere informazioni non disponibili attraverso le infrastrutture orbitali, come per esempio emissioni elettromagnetiche e radio di particolari siti e sistemi all’interno del continente. Ma è soltanto una supposizione.
E dunque qual era l’obiettivo di Pechino?

Stati Uniti e Cina, come facevano una volta Stati Uniti e Unione Sovietica, fanno costantemente missioni per raccogliere informazioni di vario tipo sull’avversario. Gli Usa impiegano regolarmente anche gli aeroplani, che si spingono fino ai limiti dello spazio aereo cinese, dove vengono puntualmente intercettati dalle difese aeree di Pechino. La Cina, però, non può fare altrettanto, perché non dispone di basi vicine al territorio statunitense. Se questa lettura è corretta, allora il pallone potrebbe essere la certificazione che Pechino non possiede uno strumento migliore per spiare gli Usa al di sotto della linea di Kármán. Si possono invece escludere missioni di carattere operativo, come quelle che tentarono i giapponesi durante la seconda guerra mondiale, quando tentarono di incendiare le foreste della costa orientale Usa con palloni – più piccoli di quello cinese – che avrebbero dovuto sganciare bombe incendiarie. Ma per appiccare un incendio non c’è bisogno di puntare un obiettivo specifico. Per raccogliere informazioni, invece, bisogna essere un obiettivo specifico, cosa che per definizione un pallone non può fare.

Sicuramente i sistemi di identificazione, come il Norad, erano consapevoli della presenza del pallone cinese già da tempo. Come mai annunciarne la presenza solo con l’aerostato già sui cieli del Montana?

Gli Stati Uniti hanno dato pochissimi dettagli, ma tra questi c’è che il pallone era stato avvistato da diversi giorni. In effetti, le dimensioni dell’oggetto ne fanno un bersaglio radar molto facile. La lentezza di spostamento lo rende facile da seguire e probabilmente è stato avvistato molto prima che entrasse nello spazio aereo americano. Washington ha anche dichiarato di aver lanciato dei caccia F-22 per identificare il pallone. Tutto questo da un alto chiarisce che non è comparso improvvisamente nei cieli del Montana, e fa pensare che gli Usa abbiano rivelato solo ora questa presenza per un preciso calcolo politico.

Quale?

Il segretario di Stato Blinken avrebbe dovuto recarsi in Cina, la prima visita di Stato da sei anni. L’annuncio del pallone arriva dopo l’accordo con le Filippine per quattro nuove grandi basi americane e sembra suggerire che gli Stati Uniti volessero arrivare al tavolo da una posizione di vantaggio psicologico, con la certificazione dell’invadenza cinese e la consapevolezza pubblica delle mosse concrete messe in campo per contrastarla, schierando nuove forze nel Pacifico. Tutto questo per mettere i cinesi sulla difensiva diplomatica.

Tra le giustificazioni apportate da Washington sul mancato abbattimento del pallone c’è stata l’incolumità delle persone a terra. Perché allora non abbatterlo sul Pacifico?

Il fatto di non averlo abbattuto finora si collega con le caratteristiche dell’aerostato, che per la sua natura lenta e identificabile può essere abbattuto in qualunque momento. Tra l’altro, se dovesse cadere in territorio Usa, si potrebbero recuperare gli strumenti di bordo su cui poter fare tutte le analisi del caso. Tra l’altro, per sua natura, un pallone aerostatico è leggero, ed è improbabile che faccia grossi danni in superficie. Nel mancato abbattimento allora hanno forse giocato due fattori. Primo, la certezza di poter cogliere i cinesi in flagranza, e secondo la tranquillità di poterlo fare in qualunque momento. Probabilmente nella decisione del Pentagono ha anche giocato una conoscenza dei dettagli del pallone molto maggiore di quella rivelata.
 
Via libera al sesto pacchetto di aiuti per Kyiv. Roma e Parigi pronte a inviare il Samp/T - Formiche.net

L’Italia ha fatto ogni sforzo per dare una mano a 360 gradi”, ha dichiarato Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, in visita a Berlino. Colloquio tra Crosetto e Lecornu per definire gli ultimi dettagli tecnici tra Italia e Francia per la consegna all’Ucraina, nella primavera 2023, del sistema di difesa antiaerea

L’Italia ha fatto ogni sforzo per dare una mano a 360 gradi”, ha dichiarato Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, in visita a Berlino, in Germania. “Stiamo lavorando con la Francia sulla difesa missilistica, siamo arrivati al nostro sesto pacchetto di aiuti”, ha continuato. “Noi ci siamo e non faremo mancare il nostro sostegno per arrivare al dialogo. Aiutare l’Ucraina per portare gli attori al tavolo. Sarà a Kiev prima del 24 febbraio”, ha annunciato. Il sesto pacchetto è stato pubblicato oggi in Gazzetta Ufficiale: si tratta di un decreto del ministro della Difesa data 31 gennaio 2023. L’allegato con i dettagli delle forniture è secretato, come accaduto per i cinque decreti precedenti approvati dal governo Draghi.

Oggi pomeriggio Guido Crosetto, ministro della Difesa, ha avuto un colloquio telefonico con Sébastien Lecornu, ministro francese delle Forze armate. Oggetto della telefonata, sulla scia della visita a Roma del ministro francese, il sostegno militare fornito dai due Paesi all’Ucraina. I due ministri, si legge in una nota, hanno definito gli ultimi dettagli tecnici tra Italia e Francia per la consegna all’Ucraina, nella primavera 2023, del sistema di difesa antiaerea Samp/T, il primo sistema anti-missile europeo di fabbricazione italo-francese che consentirà all’Ucraina di difendersi dagli attacchi dei droni, missili e aerei russi, proteggendo una parte cospicua del territorio ucraino.


“La fornitura di tale sistema risponde all’emergenza espressa da Oleksii Reznikov, ministro ucraino della Difesa, ai suoi omologhi francese e italiano, di proteggere le popolazioni e le infrastrutture civili dagli attacchi aerei russi”, recita la nota. “L’Ucraina ha anche acquisito un sistema radar dalla Francia al fine di rafforzare l’efficacia del sistema antiaereo Samp/T che Roma e Parigi forniranno congiuntamente. La consegna di questo sistema integra il sostegno già fornito da Italia e Francia per quanto riguarda la difesa aerea e ambiti ad essa correlati. I ministri, italiano e francese, hanno inoltre ribadito la loro determinazione a proseguire il sostegno all’Ucraina a favore della difesa della sua sovranità e della sua integrità territoriale di fronte all’aggressione russa”, conclude la dichiarazione.
 
Export e investimenti. Cosa prevede il memorandum Italia-Regno Unito - Formiche.net

Attraverso il Memorandum, l’Italia e il Regno Unito puntano ad approfondire il solido partenariato economico tra i due Paesi, adattandolo al contesto post- Brexit. “Questo memorandum rappresenta una piattaforma di enorme potenziale per la promozione del nostro export e delle nostre eccellenze imprenditoriali, in un’ottica di crescita e prosperità condivisa, nel pieno rispetto delle competenze e dei nostri impegni Ue”, ha dichiarato Tajani.


L’intesa si propone di istituire un meccanismo strutturato di concertazione e collaborazione tra imprese, istituzioni ed enti preposti all’internazionalizzazione, con un focus sui settori più innovativi e ad alto potenziale di sviluppo, tra cui economia verde, tecnologie avanzate, scienze della vita, ingegneria e industrie creative, start-up e innovazione, temi peraltro che l’Italia ha posto al centro della candidatura di Roma Expo2030.
 
Cina&Ucraina. La politica estera di Biden nel discorso sullo Stato dell'Unione - Formiche.net

Remarks of President Joe Biden – State of the Union Address as Prepared for Delivery | The White House

“L’America è riuscita a fare ciò che sa fare meglio: guidare”, così Joe Biden nell’annuale discorso sullo stato dell’Unione. Riunire gli alleati intorno alla causa delle democrazie contro le autocrazie; impedire che un aggressore definisca le regole del gioco internazionale; investire nelle capacità industriali statunitensi che la Cina vorrebbe dominare. Questi i risultati degli Stati Uniti in politica estera nell’ultimo anno

Il presidente ha poi salutato l’ambasciatrice ucraina presente in sala e ricordato che gli Usa sosterranno Kiev “per tutto il tempo necessario”, dunque eliminando i dubbi che un nuovo anno possa portare a una sorta di stanchezza americana per questa guerra.


Biden è partito dalla crisi ucraina per ricordare che l’America è riuscita quest’anno a fare “ciò che sappiamo fare meglio: guidare”, riferendosi al fatto di avere riunito la Nato e gli alleati intorno a una causa che non era per nulla scontata, ovvero la lotta tra democrazie e autocrazie. “Abbiamo costruito una coalizione globale. (…) Il nostro Paese sta lavorando per ottenere più libertà, più dignità e più pace, non solo in Europa, ma ovunque”.

se la Cina minaccia la nostra sovranità, agiremo per proteggere il nostro Paese. E lo abbiamo fatto”.


"Il presidente ha concluso la parte di politica estera del suo discorso ricordando come gli Stati Uniti siano riusciti ad adottare politiche bipartisan, mobilitando il mondo per affrontare le sfide globali del clima, della salute, dell’insicurezza territoriale. E ha chiosato: “Coloro che hanno scommesso contro l’America stanno imparando quanto si sono sbagliati. Non è mai una buona idea scommettere contro l’America”.
 
Balloon burst hopes for US-China trust-building. What now?

Il capo del Pentagono Lloyd Austin ha detto che il governo cinese stava usando il pallone, che aveva attraversato il territorio americano per sette giorni, "per sorvegliare i siti strategici negli Stati Uniti continentali". Pechino, sostenendo che il pallone era un dirigibile civile utilizzato principalmente per la ricerca meteorologica e soffiato fuori rotta e negli Stati Uniti da "incidente", ha protestato contro l'attacco degli Stati Uniti come "una chiara reazione eccessiva".

In effetti, l'incursione a palloncino sottolinea un'evidente mancanza di meccanismi di gestione delle crisi, canali di comunicazione e, in definitiva, fiducia tra Cina e Stati Uniti, dicono gli esperti. Il risultato è un rischio sempre crescente che errori o errori di calcolo tra le superpotenze si trasformino in conflitto.

"È una realtà molto pericolosa con cui abbiamo a che fare", dice la signora Sun. “Questo è solo un palloncino, giusto? Se stiamo parlando, diciamo, di una schermaglia o di un incidente nello Stretto di Taiwan, allora sarà molto più grave di questo”.
Da parte sua, gli Stati Uniti vedono la gestione delle crisi come un modo per de-escalation e disinnescare potenziali conflitti. La strategia di Pechino mira in primo luogo a prevenire le crisi semplicemente chiedendo che l'esercito statunitense eviti di operare vicino alla Cina. In caso di crisi, ritiene che qualsiasi comunicazione debba essere utilizzata come forma di coercizione per scoraggiare l'azione militare.

"Stanno vedendo gli Stati Uniti come guida della crisi, quindi gli Stati Uniti devono assumersi la responsabilità", afferma il dott. Swaine.

"Le hotline non hanno lo scopo di risolvere la crisi, ma di responsabilizzare gli organi di livello superiore all'interno della RPC [Repubblica popolare cinese] per segnalare la risoluzione, assegnare la colpa e stallo fino a quando Pechino non punta a una posizione di massima pressione e leva sugli Stati Uniti", afferma un'analisi di Rand Corp. delle hotline pubblicate lo scorso luglio.

La disconnessione USA-Cina per la gestione delle crisi contrasta nettamente con le pratiche dell'era della Guerra Fredda, dicono gli esperti. Gli Stati Uniti e l'ex Unione Sovietica "avevano regole di impegno in mare e in aria, anche sulla sorveglianza reciproca [da parte degli aerei]", ha detto Miles Yu, direttore del China Center dell'Hudson Institute, in un'apparizione C-SPAN domenica. Ma, ha detto, "La Cina si è costantemente rifiutata di entrare in questa modalità di crisi manageriale".
 
UN Secretary-General: “the Doomsday Clock is a global alarm clock”

Nell'aprire le sue osservazioni annuali all'Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha sottolineato la necessità che i paesi membri affrontino la terribile situazione della sicurezza internazionale, come descritto nella dichiarazione dell'orologiodel giudizio di quest'anno. I membri del Consiglio per la scienza e la sicurezza del Bollettino "ha indaGato sullo stato del mondo: l'invasione russa dell'Ucraina, la catastrofe climatica in fuga, le crescenti minacce nucleari, l'indebolimento delle norme e delle istituzioni globali. E sono giunti a una chiara conclusione", ha detto Guterres. "Il Doomsday Clock è ora da 90 secondi a mezzanotte, o totale catastrofe globale".

"Questo è il più vicino che l'orologio sia mai stato all'ora più buia dell'umanità, più vicino che anche durante l'apice della Guerra Fredda", ha aggiunto
 
There is no alternative: US-Russian nuclear arms control must restart. Now.

Il panorama nucleare oggi è molto più complicato di quanto non fosse durante la guerra fredda. Le tensioni tra gli Stati Uniti e la Russia sono ai massimi non visti, forse, dalla crisi dei missili cubani. Allo stesso tempo, la Cina sembra aumentare in modo aggressivo le sue capacità nucleari, mentre la Corea del Nord ha condotto molti più test missilistici nel 2022 che in qualsiasi altro anno dal 1984. Questo ambiente è un motivo in più per sostenere il controllo delle armi su una nuova corsa agli armamenti potenzialmente scalabile.

Il Nuovo Trattato di Riduzione delle Armi Strategiche (New START) è l'unico trattato di controllo degli armamenti rimasto tra Stati Uniti e Russia. Limita gli Stati Uniti e la Russia a 1.550 testate nucleari strategiche schierate ciascuna e fornisce un limite giuridicamente vincolante su quella che altrimenti potrebbe diventare una corsa agli armamenti nucleari. Il nuovo START scadrà il 5 febbraio 2026 e la guerra in corso della Russia contro l'Ucraina ha gettato un'ombra sulle prospettive di negoziare un seguito di questo accordo. Mantenere New START sarebbe il risultato più desiderabile, ma sarebbe saggio considerare un'alternativa se non viene concordato alcun follow-on entro il 2026.

Abbiamo già fatto il duro lavoro. Gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica hanno fatto molti passi durante la guerra fredda che hanno reso il mondo meno sicuro. Il siledro di sciabola nucleare da parte di entrambi i paesi ha permesso la corsa agli armamenti nucleari che è culminata in una scorta combinata di oltre 70.000 testate nucleari, mettendo a rischio gran parte della popolazione mondiale. Ancora oggi, gli arsenali degli Stati Uniti e della Russia rappresentano ancora il 90 per cento delle testate nucleari globali, anche se i numeri ora si aggirano a circa 4.000 testate ciascuna. Come siamo passati dai picchi durante la Guerra Fredda ai numeri attuali?


La risposta è semplice: Controllo delle armi.

Il controllo delle armi è uno di quei termini che vengono lanciati da funzionari governativi, professori universitari e altri professionisti della politica come una coperta semantica per un lavoro molto intenso e noioso. Il lavoro di controllo degli armamenti è spesso ingrato, o almeno non è riconosciuto pubblicamente per il suo vero valore perché è difficile vedere come rende tutti più sicuri. Eppure, anche i leader degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica - nonostante la loro concorrenza globale per gran parte della seconda metà del 20° secolo - hanno capito l'importanza del controllo degli armamenti.

Un rapido sguardo indietro. Già nel 1963, la leadership politica in Occidente e in Unione Sovietica sapeva che una corsa agli armamenti sfrenata era insostenibile. Di conseguenza, hanno firmato il Trattato sulla messa al bando dei test limitati, noto anche come Trattato sulla messa al bando dei test parziali, che vieta i test nucleari esplosivi nell'atmosfera, nello spazio esterno e sott'acqua. Questo trattato ha gettato le basi per una serie di trattati sul controllo degli armamenti con il prossimo, quasi 10 anni dopo, che va ancora oltre affrontando le armi nucleari strategiche.

Gli accordi di riferimento, come il Trattato sulla limitazione delle armi strategiche I (SALT I) e il Trattato sui missili balistici (ABM), entrambi nel 1972, hanno stabilito un precedente per il dialogo diplomatico e hanno creato la base per il quadro duraturo di controllo degli armamenti incarnato in New START. Se gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica fossero in grado di accettare limiti ai loro

Dove siamo. Non solo non esiste attualmente un processo per negoziare un trattato di follow-on a New START, ma le componenti chiave del trattato esistente non funzionano come dovrebbero. Il nuovo START prevede 18 ispezioni in loco all'anno per consentire agli esperti degli Stati Uniti e della Russia di verificare il rispetto del trattato. Gli Stati Uniti e la Russia hanno sospeso queste ispezioni all'inizio della pandemia di COVID-19 e la Russia ha continuato a sospenderle "temporaneamente" in seguito alla sua invasione dell'Ucraina. Non vi è alcuna indicazione che entrambe le parti siano disposte a riprenderli nel prossimo futuro.

Anche gli Stati Uniti e la Russia non si sono incontrati sotto la commissione consultiva bilaterale (BCC) - un forum per discutere il rispetto e l'attuazione del nuovo START - dal 2021 dopo che Mosca ha "riviato unilateralmente" una riunione della commissione prevista per la fine del 2022. Tuttavia, come ho sostenuto altrove, il rinvio dei colloqui BCC va contro gli interessi della Russia poiché lo stato della sua economia, le sue perdite militari e l'isolamento internazionale dopo la sua guerra in Ucraina lasciano il paese mal equipaggiato per impegnarsi in una potenziale nuova corsa agli armamenti.

Il 31 gennaio, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha confermato nel suo rapporto annuale di attuazione del nuovo START al Congresso che la Russia non è conforme alle disposizioni di verifica del trattato. Come John Erath, direttore politico senior del Center for Arms Control and Non-Proliferation, ha giustamente sottolineato, tuttavia, il mancato rispetto da parte della Russia di New START "non significa [necessariamente] che stiano costruendo un gran numero di armi nucleari in segreto".

Prospettive. È improbabile che la Russia e gli Stati Uniti si accordino su un trattato formale di follow-on a New START a breve. La realtà geopolitica della guerra in Ucraina e le barriere procedurali all'approvazione di qualsiasi trattato sul controllo degli armamenti attraverso il Senato degli Stati Uniti non aprono un percorso realistico per alcun trattato formale sul controllo delle armi nucleari. Tuttavia, ci sono prospettive per un dialogo continuo sul controllo degli armamenti che può limitare le dimensioni dei più grandi arsenali nucleari del mondo.
Non c'è bisogno di un trattato formale per mantenere i limiti di New START o addirittura per ridurre ulteriormente gli arsenali nucleari esistenti. C'è, tuttavia, un requisito di volontà politica e il lavoro intenso e noioso che è stato inserito nei precedenti accordi di controllo degli armamenti. Non c'è dubbio che funzionari volenterosi sia negli Stati Uniti che in Russia siano pronti per questa sfida e meritano il nostro pieno sostegno. Da parte sua, il Cremlino dovrebbe vedere, in particolare dato il costo finanziario della sua guerra all'Ucraina, che la Russia non è in grado di tenere il passo in una nuova corsa agli armamenti con gli Stati Uniti e, potenzialmente, la Cina. Queste realtà finanziarie possono fornire un'apertura al dialogo.

Realisticamente, un accordo politico (piuttosto che un trattato formale) per mantenere i limiti esistenti di New START è il risultato più realizzabile al momento della scadenza del trattato nel 2026. La priorità dovrebbe quindi essere quella di rilanciare e ampliare gli sforzi in corso per il controllo degli armamenti nucleari.

Dove concentrarsi. Poiché possiedono i due più grandi arsenali nucleari del mondo, gli Stati Uniti e la Russia hanno la responsabilità di dare l'esempio continuando a limitare e ridurre i loro. Tuttavia, anche altri paesi dotati di armi nucleari hanno la responsabilità di partecipare onesti alla conversazione sul controllo degli armamenti in modo che il mondo intero possa allontanarsi dalla minaccia sempre presente delle armi nucleari. In tale contesto, la comunicazione multilaterale nelle organizzazioni e nei forum esistenti è fondamentale. Ciò include, ad esempio, le conferenze di revisione del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (TNP) e le riunioni dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica.

Sebbene non tutti i paesi, compresi gli Stati Uniti, siano parti di tutti gli accordi esistenti sul controllo degli armamenti, tali forum servono come importanti opportunità di dialogo e di lavoro regolare sul controllo degli armamenti. Le minacce nucleari russe sottilmente velate in Ucraina dimostrano sia l'urgente necessità di controllo degli armamenti che la follia e l'insostenibilità di fare affidamento sulle armi nucleari per la sicurezza mondiale. Il controllo degli armamenti non sarà mai un lavoro facile, ma l'alternativa di arsenali nucleari potenzialmente illimitati è inaccettabile.
 
Aiuti (di Stato) ma per pochi: la coscienza sporca della UE

“Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”, recita un vecchio adagio, ed effettivamente è quanto sembra stia accadendo in questi mesi, a cerchi concentrici, fra diversi alleati storici, prima di tutto fra le due sponde dell’Atlantico (USA ed Unione Europea) e poi dentro la stessa Unione.

È una storia che inizia ad agosto dello scorso anno, quando gli USA approvano il cosiddetto “Inflation Reduction Act” (IRA). Il nome trae parzialmente in inganno: si tratta infatti di una legge che sembrerebbe finalizzata principalmente a contrastare l’inflazione, ed in effetti toglie risorse dall’economia, con una riduzione prevista del deficit – nell’arco di 10 anni – di circa 240 miliardi di dollari. La legge in realtà prevede anche numerosi interventi sia sul lato delle entrate (la misura più rilevante è una nuova imposta minima effettiva del 15% sui profitti delle corporation più grandi) sia, soprattutto, dal lato delle uscite. Qui l’aspetto più rilevante per la nostra storia è la previsione di un maxi piano di sovvenzioni governative, per un importo pari a oltre 390 miliardi di dollari sempre nell’arco di 10 anni, a sostegno degli investimenti nella transizione energetica, clima, etc. Un ritorno in grande stile dell’intervento pubblico in economia, di dimensioni davvero fuori dal comune rispetto a quanto sperimentato dalle economie occidentali negli ultimi decenni, ma di cui beneficeranno solo alcuni; l’IRA, infatti, fissa alcuni paletti per le imprese che potranno accedere a questi finanziamenti, il più importante dei quali consiste nel fatto che questi aiuti sono riservati alle imprese residenti negli USA.

E qui veniamo ai primi amici che si sono sentiti traditi: i vertici europei (Commissione in primis, ma soprattutto Germania e Francia) hanno lamentato il carattere protezionistico della misura, temendo che questa possa creare un formidabile incentivo a localizzare negli Stati Uniti, a discapito del nostro continente, nuovi investimenti industriali.

Dopo aver tentato invano di convincere gli USA a desistere dal carattere selettivo della misura (con inclusa una minaccia di ricorrere al WTO per violazione degli accordi internazionali sul commercio), si è aperta la discussione sul tipo di risposta economica da assicurare, valutando in particolare se (e in che misura) affidarsi a un’iniziativa comune europea, oppure lasciare gli Stati membri intervenire in ordine sparso.

Il nodo è stato sciolto in questi giorni dal Presidente della Commissione von der Leyen, che ha presentato con grande enfasi il Green Deal Industrial Plan – appunto la risposta europea alla mossa statunitense – che, da un punto di vista operativo, consiste essenzialmente in una rimodulazione della disciplina europea sugli aiuti di Stato, cioè la normativa che regola modalità e limiti con cui uno Stato dell’Unione Europea può erogare incentivi a determinati settori economici. Tradizionalmente tali limiti sono molto stringenti, in ossequio al principio ultraliberista alla base del mercato unico. Uno Stato deve effettuare una notifica alla Commissione ogni volta che decide di fare un intervento a sostegno di determinati settori (fanno eccezione solamente gli aiuti de minimis, che per definizione sono di piccolissimi importi). La Commissione valuta la misura dello Stato, in particolare per i suoi presunti caratteri discriminatori e di distorsione alla concorrenza (cioè un maggior favore alle imprese nazionali), e se giudica la misura contraria alla normativa sugli aiuti di Stato non solo questa deve essere rimossa, ma gli aiuti già erogati devono essere restituiti. Abbiamo insomma la realizzazione concreta di quell’impianto neoliberista in base al quale il mercato sarebbe certo capace di assicurare il migliore dei mondi possibili, se solo fosse lasciato libero di funzionare e non intervenisse lo Stato a perturbarlo.

Si tratta, lo ripetiamo, non di una norma qualunque, ma di uno dei principi cardine dell’architettura economica dell’Unione Europea, al pari dei vincoli alle politiche fiscali espansive e alla politica monetaria finalizzata unicamente a garantire la stabilità dei prezzi, con un ruolo chiave nel controllo assegnato alla Commissione chiamata a fare da guardiano dei Trattati.

Ebbene, per tornare al Green Deal Industrial Plan, in cosa consisterà la risposta europea? Sostanzialmente in un alleggerimento dei vincoli alla normativa sugli aiuti di Stato, in particolare (pare) con un significativo innalzamento della soglia per gli aiuti sottoposti al meccanismo di notifica e successivo controllo da parte della Commissione, che sostanzialmente dice agli Stati membri “beh, visto che gli USA stanno mettendo in campo importanti incentivi economici, riservati alle loro industrie nazionali, se volete (e ve lo potete permettere) voi fate lo stesso”.

Il tranello sta proprio in quel “se ve lo potete permettere”, perché al rilassamento sul fronte degli aiuti di Stato non corrisponde alcun cambiamento sul fronte della possibilità lasciata agli Stati di intervenire a sostegno dell’economia, che, anzi, fra riforma delle regole di bilancio e politica monetaria restrittiva da parte della BCE, viene sempre più ostacolata.

Sostanzialmente, quindi, la scelta della Commissione di procedere in ordine sparso e attraverso il meccanismo degli aiuti di Stato apre spazi di manovra solamente ai Paesi con “i conti in regola”, che si traducono in “spazio fiscale” per poter fare spesa pubblica senza incorrere nella mannaia dei parametri di disciplina fiscale che la costruzione europea impone. Non a caso questa opzione è sostenuta principalmente da Germania e Francia (ovviamente anche il peso politico, oltre alla disciplina di bilancio, conta). Il corollario è, però, ovvio. I Paesi come l’Italia, che non hanno i conti in regola, avranno la possibilità di spendere solamente briciole, nella migliore delle ipotesi, a difesa della produzione nazionale e dell’occupazione. Veniamo quindi al secondo “tradimento degli amici”, fra cui ci siamo soprattutto noi, che a quanto pare dovremo accontentarci di non vedere gli investimenti in Italia traslocare verso gli States, ma “solo” verso altri paesi europei… bella soddisfazione!

Si tratta, come si può immaginare, di temi e ragionamenti apparentemente assai lontani dalla nostra vita concreta, ma che invece ci devono interessare (e preoccupare) per almeno tre ordini di motivi:

1. Dinamiche come quelle sopra descritte sono uno dei “motivi profondi” che stanno dietro i processi di delocalizzazione e impoverimento industriale che ben conosciamo; se fino ad ora questo avveniva soprattutto a causa di una corsa al ribasso in termini di tutele del lavoro e ambientali, nei prossimi anni torneremo probabilmente a vedere un ruolo più centrale da parte degli Stati, che sceglieranno in maniera più efficace di promuovere e difendere alcuni settori. Se staremo a guardare, privandoci degli strumenti per poter intervenire, difficilmente potremo contrastare il deserto industriale che si prepara.

2. La vicenda ci conferma l’ipocrisia del sistema di governo dell’Unione Europea, che da un giorno all’altro piccona “dall’interno” uno dei suoi capisaldi apparentemente intoccabili, e cioè la normativa sugli aiuti di Stato, ma allo stesso tempo riafferma – anzi rafforza – altri dei suoi dogmi (austerità, ritiro degli Stati dalle funzioni fondamentali, etc.), che in questo modo si rivelano per quello che sono: non leggi tecniche necessarie, ma scelte politiche contro cui si può e si deve lottare.

3. Ancora, la vicenda mette a nudo la pochezza del governo Meloni: proprio colei che doveva dimostrare all’Europa che la pacchia era finita, ora piagnucola che l’Europa faccia l’Europa, denunciando la scorrettezza dei Paesi che pensano di fare da soli “rischiando di indebolire il mercato unico” e invocando nientedimeno che il “level playing field”, cioè proprio il peggio della retorica liberista su cui l’Unione Europea è costruita.

Ancora una volta, questa vicenda ci mostra come l’intervento dello Stato nell’economia sia necessario per evitare deindustrializzazione e impoverimento di un Paese. È una verità talmente ovvia che anche l’Unione Europea lo ammette nei fatti, di fronte alla tempesta causata dagli sconvolgimenti degli ultimi anni e all’interventismo economico degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, però, emergono due aspetti odiosi: in primo luogo, il contrasto a deindustrializzazione e impoverimento è, per le istituzioni europee, un interesse al più secondario, da subordinare all’adesione cieca al dogma dell’austerità; in secondo luogo, la promozione di un certo interventismo statale ha la chiara funzione di favorire gli interessi economici dei paesi più forti a danno della periferia europea.
 
Salari giù e profitti su: il Governo Meloni in pillole

A sentire le dichiarazioni degli esponenti del Governo Meloni e i principali telegiornali nazionali, la situazione economica italiana sarebbe eccellente. La notizia degli ultimi giorni è infatti il dato fornito dall’Istat circa il tasso di crescita del 2022, stimato intorno al +3,9%, che proietta l’Italia insieme alla Spagna (+4,4%) in testa tra le principali economie europee e ben al di sopra della performance fatta registrare lo scorso anno dalla Germania (+1,9%). Purtroppo, basta davvero poco a rendersi conto che la realtà dietro l’insopportabile velo di disinformazione è drammatica. Per farlo, è sufficiente fare luce sulla situazione in cui versano i salari reali.

Innanzitutto, dopo una crescita che durava da sette trimestri, nel quarto trimestre 2022 il Pil italiano in termini reali – ossia corretto rispetto a dinamica dei prezzi, effetti di calendario e destagionalizzato – è diminuito (-0,1%) rispetto al trimestre precedente, così come quello tedesco (-0,2%). Questa inversione pare strettamente legata alla centralità del gas naturale per le due principali economie manifatturiere europee.

L’andamento dei prezzi energetici – il gas in particolare – è in aumento dalla seconda metà del 2021, ed è poi esploso con l’inizio della guerra e con le conseguenti sanzioni economiche imposte dalle nazioni occidentali alla Russia. Nonostante la riduzione dei prezzi del gas che si è registrato nelle ultime settimane del 2022 – la cui natura potrebbe peraltro essere temporanea – questo fattore minaccia di costituire non solo un ostacolo strutturale alla crescita europea dei prossimi anni, ma il vero e proprio innesco di un processo di deindustrializzazione dell’intera area.

Infine, la crescita dell’ultimo biennio (2021-2022) va letta alla luce della significativa caduta del Pil registrata nel 2020 a causa della pandemia. Riprendendo un vecchio esempio, se ipotizziamo che il Pil italiano si attestasse ad un livello di 1000 euro prima dell’esplosione della pandemia (nel 2019), la batosta del Covid-19 lo ha ridotto a un livello di 911 euro; con la ripresa del 2021 siamo poi risaliti a circa 970 e il tasso di crescita del 2022 (+3,9%) ci ha riportati appena sopra il livello pre-crisi, a 1008 euro circa. In altre parole, abbiamo meramente recuperato quanto perso a causa della pandemia e ci abbiamo messo due anni!

Oltre a inquadrare correttamente il tasso di crescita, abbiamo più volte provato a evidenziare che questo dato di per sé racconta quasi niente della situazione economica complessiva. I dati dell’ISTAT ci aiutano ancora una volta a illuminare l’elefante nella stanza, ossia la questione salariale.

L’insieme dei rinnovi dei CCNL recepiti nel 2022 ha consentito un incremento delle retribuzioni contrattuali medie pari al +1,1%, che si scontra però con una crescita annua del livello dei prezzi pari al +8,7%, se consideriamo il tasso d’inflazione misurato dall’indice IPCA complessivo. Questo significa che nel 2022 si è registrata una caduta dei salari reali in media pari al 7,6%,la più drastica degli ultimi 20 anni come sottolineato dall’ISTAT.

Questo dato è semplicemente allucinante, poiché significa concretamente che milioni di famiglie hanno perso potere d’acquisto in maniera estremamente significativa, con grosse difficoltà a mantenere costante il proprio livello di consumi. Con tutta probabilità ciò si traduce, in particolare nelle famiglie a più basso reddito, nella rinuncia a spese essenziali, quali quelle per determinati generi alimentari (carne, pesce, etc.), spese mediche, attività sportive, libri scolastici etc.

Se ciò non bastasse a scatenare la vostra collera, proponiamo qualche ulteriore riflessione. Ci si potrebbe infatti domandare come sia possibile che in una fase di crisi economica così acuta il Pil reale – ossia al netto della dinamica inflazionistica – continui a crescere, nonostante i salari reali stiano letteralmente sprofondando.

Un approccio minimo alla contabilità nazionale ci consente di evidenziare che il Pil può essere visto come la somma delle diverse componenti del valore aggiunto, ossia salari e profitti (oltre alle imposte nette, che lasciamo da parte qui). Anche considerando l’aumento degli occupati – 334 mila in più (+1,5%) a dicembre 2022 rispetto a dicembre 2021 – l’insieme di stipendi e salari non può che essere diminuito una volta considerata la riduzione dei salari medi. In altre parole, anche con qualche lavoratore in più, il monte salari si è ridotto in termini reali nel 2022 a causa dell’esplosione dei prezzi. La quota salari – ossia la parte del Pil che va alla classe lavoratrice – è passata dal 60,6% nel 2021 al 59,8% nel 2022 (dati AMECO). Ciò significa che ad essere cresciuti sono i profitti e la loro relativa quota, con le aziende che sono dunque riuscite non solo a mantenere i margini operativi, ma ad ampliare i propri utili, scaricando in maniera più che proporzionale l’aumento dei costi di produzione sui prezzi.

La risposta ai nostri interrogativi ci consente dunque di ribaltare la retorica confindustriale – costantemente rilanciata da Banca d’Italia – secondo cui sarebbe da scongiurare in ogni modo uno scenario caratterizzato da un incremento dei salari, perché questo darebbe luogo alla famigerata spirale prezzi-salari, ossia a un’ondata inflazionistica perenne in cui tutti gli attori coinvolti sarebbero danneggiati.

Ebbene: è successo esattamente l’opposto. Se la pandemia, il rialzo dei prezzi energetici e i problemi di approvvigionamento settoriali provocati dalla guerra hanno certamente costituito l’innesco iniziale della dinamica inflazionistica, gli aumenti cui stiamo assistendo oggi rappresentano il secondo round della spirale, con le aziende che aumentano i propri prezzi al di sopra della soglia che gli consentirebbe di mantenere inalterati i propri guadagni.

Quando i nostri media descrivono l’inflazione come un fenomeno ineluttabile e al di fuori del nostro controllo – i prezzi stanno aumentando e non c’è niente che possiamo fare al riguardo – dobbiamo sforzarci di ricordare che l’attuale spirale inflazionistica è guidata dal conflitto distributivo. Quest’ultimo è in una fase particolarmente intensa e l’erosione dei nostri salari reali ha una causa ben precisa, che coincide con la ricerca di profitti incontrollati da parte delle aziende.

In questa situazione drammatica, il governo Meloni non si azzarda neanche a nominare quegli strumenti di politica economica che sarebbero necessari a invertire questa mortifera tendenza. Tutti coloro che discendono dalla tradizione socialista e comunista non dovrebbero invece avere alcuna remora a richiedere a gran voce l’indicizzazione dei salari e il ritorno alla scala mobile, l’introduzione di un salario minimo e una politica ferrea di controllo dei prezzi (e dunque dei profitti).
 
Credo sia chiaro a tutti (coloro che non tengono gli occhi chiusi, anzi strizzati per la paura) che il mondo è in guerra. La III guerra mondiale non è cominciata oggi, e neppure ieri, ma in una spirale che di giorno in giorno s'avvita sempre più strettamente. Oggetto del contendere è la pretesa degli Stati Uniti di mantenere e anzi rafforzare il proprio dominio (economico, e poi militare, sociale, culturale, antropologico… tutti questi al servizio del primo) sul resto del pianeta.

In questo senso il conflitto è "esistenziale" per tutte le parti in causa. Se è ovvio da sempre che lo sia per la Russia, mi pare che quest'anno passato abbia dimostrato che lo è anche per gli USA (e l'UK): ogni giorno rilanciano la posta e l'impegno, ogni giorno si bruciano un altro ponte dietro le spalle, ogni giorno la "dedollarizzazione" e le sciagurate misure contro la Russia assestano un nuovo colpo al futuro delle potenze anglosassoni, e ogni giorno quelli aumentano ulteriormente la posta e l'impegno.

Negli anni passati, la militarizzazione e la blindatura delle società occidentali, e in particolare di quelle europee, ha contribuito a preparare le popolazioni per il conflitto e a chiudere qualsiasi spazio al dissenso.
Tutto questo mi sembra andare ben oltre una semplice guerra contro il mercantilismo tedesco ed europeo, che poteva essere risolta in mille altri modi, cosa tanto più chiara quanto più stiamo vedendo che anche la Germania è solo un fantoccio statunitense, senza alcuna capacità o possibilità di indipendenza.

Prima domanda: ma gli USA cosa vogliono davvero? Le possibili interpretazioni non sono molte.

Una è che vogliano arrivare alla guerra definitiva con la Russia, prima che questa e la Cina possano davvero contendere la loro egemonia planetaria.
(Non ditemi che gliel'hanno già sottratta: non è vero, o almeno non era vero fino a un anno fa, e comunque sto cercando di assumere il punto di vista di Washington, dove con ogni evidenza non ritengono di avere già perso la guerra della globalizzazione.)

Una seconda possibilità (o un piano B?) è che vogliano una quasi-guerra la cui unica via d'uscita sia una nuova cortina di ferro, impenetrabile, in modo da mantenere il dominio assoluto su questa parte di mondo, riservandosi oppure no la guerra per domani.
(Qua il problema è che l'avidità di quei farabutti non conosce limite, il che significa che la guerra che potrebbero non fare oggi sarà inevitabile domani, e se è vera l'opinione comune Russia e Cina siano in crescita sia economica e sociale sia militare, non avrebbe senso per gli USA rinviare la guerra a quando saranno ancora più deboli.)

La terza possibile interpretazione è che siano semplicemente fuori di testa, trascinati al macello dalla propria stessa avidità, come l'Europa del primo Novecento che, secondo alcune letture, andava verso la I guerra mondiale senza neanche accorgersene, come un sonnambulo, finché non fu troppo tardi.

Seconda domanda: quali sono i piani delle nazioni europee e in particolare dell'Italia? Perché va bene che le nostre sono tutte nazioni-fantoccio, come dicevo della Germania, e va bene che le popolazioni sono non so se ipnotizzate o terrorizzate, e comunque sia tacciono; ma davvero ci faremo trascinare (neanche per la prima volta) nella guerra degli anglosassoni contro la Russia?

Non avrebbe più senso, un attimo prima del tracollo, una serie di colpi di Stato dei militari nelle varie nazioni? So anche che le Forze Armate di tutta Europa sono sotto il controllo statunitense, ma è anche ovvio che ci sia un certo malcontento che serpeggia. Tintinnio di sciabole non se ne sente, almeno non ancora, ma in molte nazioni i militari si sono espressi chiaramente contro l'ipotesi di entrare in questa guerra. Torneranno all'ovile accettando che l'Europa diventi un deserto di vetro? Obbediranno tacendo e tacendo moriranno?

Terza domanda: chi sono i "nostri"? Con chi deve parlare chi non si riconosca nei galantuomini che dai loro Palazzi svendono la patria al nemico (scusate se vi pare retorico, ma questo è ciò che sta effettivamente accadendo – e nemica non è certo la Russia)?

-di Maurizio Tirassa-

#TGP #Politica #Geopolitica #Guerra

[Fonte: ]
 
‼️ La tenaglia russa intorno a Bakhmut si sta stringendo. Nel sud-ovest la PMC Wagner, con il supporto di artiglieria e aviazione, è avanzata 6-7 km in più rispetto alla linea rossa di questa mappa e hanno raggiunto l'autostrada da Konstantinovka . La cartina è utile però per visualizzare la situazione circa le vie d'accesso alla città.
Quella in celeste che porta a Chasov Yar, dove le battaglie stanno sfiorando la periferia, è l'unica percorribile senza interruzioni per l'esercito ucraino, pur essendo comunque sotto tiro.
Essendo trincerate tanto lì quanto nel nord di Bakhmut, le unità della Wagner hanno il controllo diretto o indiretto di tutte le rotte logistiche verso la città, che però non si arrende.
Potrebbe ripetersi il copione visto in piccolo nella vicina Soledar, con un ritiro graduale da parte di Kiev col rischio però di far finire accerchiati alcuni dei propri soldati.
Bisogna notare che a Bakhmut siano di stanza anche soldati del 24° battaglione d'assalto "Aidar".
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Daniele dell ‘Orco
 
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