il mondo è cosi bello! perché distruggerlo? geopolitica, storia, analisi militari. niente è come sembra.

  • Ecco la 60° Edizione del settimanale "Le opportunità di Borsa" dedicato ai consulenti finanziari ed esperti di borsa.

    Questa settimana abbiamo assistito a nuovi record assoluti in Europa e a Wall Street. Il tutto, dopo una ottava che ha visto il susseguirsi di riunioni di banche centrali. Lunedì la Bank of Japan (BoJ) ha alzato i tassi per la prima volta dal 2007, mettendo fine all’era del costo del denaro negativo e al controllo della curva dei rendimenti. Mercoledì la Federal Reserve (Fed) ha confermato i tassi nel range 5,25%-5,50%, mentre i “dots”, le proiezioni dei funzionari sul costo del denaro, indicano sempre tre tagli nel corso del 2024. Il Fomc ha anche discusso in merito ad un possibile rallentamento del ritmo di riduzione del portafoglio titoli. Ieri la Bank of England (BoE) ha lasciato i tassi di interesse invariati al 5,25%. Per continuare a leggere visita il link

Note dell'Art precedente.

Note:
1. «NATO’s ongoing enlargement process poses no threat to any country. It is aimed at promoting stability and cooperation, at building a Europe whole and free, united in peace, democracy, and common values», Nato.int, 6/7/2022.
2. D. Polansky, L’impero che non c’è. Geopolitica degli Stati Uniti d’America, Milano 2005, Guerini e Associati, p. 219.
3. C. Schmitt, La tirannia dei valori, Milano 2008, Adelphi, p. 51. Le sconclusionate avventure occidentali in Medio e Vicino Oriente, che hanno lasciato dietro di sé distruzione e morte, non certo stabilità e pace, né tantomeno giustizia e democrazia, dovrebbero averci messo in guardia dai pericoli di applicare alla geopolitica categorie morali assolute.
4. Il principio di autodeterminazione dei popoli è un concetto limite, che va maneggiato con cura. Imposto semplicisticamente da Wilson all’Europa dopo la prima guerra mondiale, esso ha destabilizzato il continente, smembrando imperi multietnici ed evocando le devastanti forze che avrebbero condotto alla seconda guerra mondiale.
5. Cfr. G.W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Roma-Bari 1999, Laterza, § 124 (aggiunta), p. 320.
6. La massima greca (Strabone) secondo cui «la geografia è un destino», motivo per cui la storia non si può fare a tavolino, coglie dunque un aspetto del vero. Per dirla con Napoleone, «la storia di un popolo risiede nella sua geografia». Cfr. T. Marshall, Prisoners of Geography: Ten Maps That Tell You Everything You Need to Know About Global Politics, New York 2016, Scribner.
7. Questa in nuce l’acquisizione fondamentale emersa dalla pace di Vestfalia e lo scopo della ricerca dell’equilibrio di potere, il cui fine primario è anzitutto la preservazione del sistema di Stati, garantendo la coesistenza di entità sovrane.
8. Sforzo cui è esentato chi, ricorrendo al potere semplificatorio dell’ideologia, si assolve dall’esercizio del logos (ovvero dalla fatica del concetto).
9. J.M. Goldgeier, «A complex man with a simple idea», in M. Kimmage, M. Rojansky (a cura di), A Kennan for our times: Revisiting America’s Greatest 20th Century Diplomat in the 21st Century, Kennan Institute, Washington 2009, Wilson Center, p. 28.
10. G.H.W. Bush, B. Scowcroft, A World Transformed, Vintage, 1999, citato in A. de’ Robertis, «La Nato e la sfida della Russia», Quaderni del Dipartimento di Scienze Politiche, Università Cattolica del Sacro Cuore, n. 8/2015, p. 66.
11. H. Kissinger, «Reversing Yalta», The Washington Post, 16/4/1989.
12. Cfr. A. de’ Robertis, «La Nato e la sfida della Russia», Quaderni del Dipartimento di Scienze Politiche, Università Cattolica del Sacro Cuore, n. 8/2015, p. 67.
13. H. Kissinger, Ordine Mondiale, Milano 2015, Mondadori 2015. Si veda ad esempio cosa disse Baker a Gorbačëv durante il loro incontro a Mosca nel febbraio del 1990: «Neither the President nor I intend to extract any unilateral advantages from the processes that are taking place».
14. «If we maintain a presence in a Germany that is a part of NATO, there would be no extension of NATO’s jurisdiction for forces of NATO one inch to the east». Così si legge, inter alia, nel Memorandum della conversazione tra Gorbačëv e Baker del 9 febbraio del 1990, recentemente declassificato dal dipartimento di Stato Usa: Memorandum of conversation between Mikhail Gorbachev and James Baker in Moscow, February 9, 1990. Analoga formulazione si legge nella trascrizione sovietica dello stesso incontro: bit.ly/3lxSLmA
15. Il 12 dicembre 2017 il National Security Archive presso la George Washington University ha declassificato e pubblicato 30 documenti statunitensi, sovietici, tedeschi, britannici e francesi che rivelano le assicurazioni relative alla sicurezza sovietica e al non allargamento a est della Nato fornite dai leader occidentali a Gorbačëv (e altri funzionari sovietici) durante il processo di unificazione tedesca, tra il 1990 e il 1991, bit.ly/2N7t2KO
16. A. Puškov, Da Gorbačëv a Putin. Geopolitica della Russia, Milano 2022, Sandro Teti Editore, p. 36.
17. Ivi, p. 37. Benché del commento del ministro sovietico, che assistette all’incontro, non vi sia traccia nei documenti disponibili , si può comunque notare dalle trascrizioni americane e sovietiche (si prenda ad esempio quella del 9 febbraio 1990) come le risposte di Gorbačëv alle reiterate proposte di Baker di non espansione della Nato siano per lo più sbrigative e superficiali («Condivido la tua linea di pensiero», «L’approccio che hai delineato è altamente plausibile»), senza mai ribattere alludendo alla stipula di qualche forma di garanzia o accordo scritto.
18. A de’ Robertis, «Il ruolo di stabilizzazione della Nato dai Balcani ai confini dell’Europa», in M. De leonardis , G. Pastori (a cura di), Le nuove sfide per la forza militare e la diplomazia. Il ruolo della Nato, Milano 2014, Monguzzi, pp. 168-70.
19. Avrebbe dovuto sapere che, fra Stati, i rapporti di forza contano molto più delle dichiarazioni di principio e che compiere passi unilaterali in favore dell’avversario in nome delle buone intenzioni può far guadagnare riconoscimenti morali e perfino simpatie personali, ma a costo di far scivolare il proprio paese nella spirale dell’impotenza.
20. La registrazione del discorso è disponibile all’indirizzo: bit.ly/3Xq1Nzh
21. La violazione sistematica della grammatica della potenza era stata la cifra della parabola politica di Gorbačëv, che aveva condotto l’Unione Sovietica sulla tragica strada dell’auto-toglimento non dialettico.
22. 1992 Defence Planning Guidance, Department of Defense for Fiscal Year 1994-1999, 16/4/1992, p. 15.
23. C. Krauthammer, «The Unipolar Moment», Foreign Affairs, vol. 70, n. 1, 1990-91, pp. 23-33.
24. R. Kagan, Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Milano 2008, Mondadori, p. 97. «La storia dell’America, al di là di ogni mito isolazionista, è una storia di espansione territoriale e di influenza tutt’altro che inconsapevoli. L’ambizione a svolgere un ruolo da protagonista sulla scena mondiale è profondamente radicata nel carattere americano», ibidem.
25. Cfr. 1992 Defence Planning Guidance, cit.
26. Per usare le parole di Baker: «The mechanism by which we have a US military presence in Europe is NATO. If you abolish NATO, there will be no more US presence», Memorandum of conversation between Mikhail Gorbachev and James Baker in Moscow, cit., p. 6.
27. J.L. Gaddis, Surprise, Security, and the American Experience, Cambridge MA 2004, Harvard University Press, p. 77.
28. Memo declassificato del dipartimento di Stato Usa, «Strategy for NATO’s Expansion and Transformation», 7/9/1993, bit.ly/3Z0XRWX
29. «Il nostro scopo primario deve essere espandere e rafforzare la comunità mondiale delle democrazie basate sul mercato», «Confronting the Challenges of a Broader World», discorso di Clinton all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, New York, 27/9/1993, in Department of State Dispatch, IV, 39, 27/9/1997.
30. Cfr. D. Polansky, op. cit.; S. Wertheim, Tomorrow, the World: The Birth of U.S. Global Supremacy, Cambridge MA 2020, Harvard University Press.
31. J,M. Goldgeier, «The U.S. Decision to Enlarge NATO», Brookings Review, Summer 1999, p. 19.
32. M. Albright, Madam Secretary: A Memoir, New York City 2005, Miramax p. 324.
33. Your October 21-23 visit to Moscow – Key foreign policy issues, U.S. Department of State, 20/10/1993, p. 4, bit.ly/3xdusg8. Nelle sue memorie, Christopher affermerà più tardi che El’cin fraintese – «forse perché ubriaco» – che lo strumento della Partnership per la Pace (un programma di cooperazione militare concepito nell’ottobre del 1993 come compromesso risultante dalle divergenze tra il Pentagono e l’amministrazione Clinton su come rispondere alle richieste dei paesi del Centro e dell’Est Europa di aderire all’Alleanza) non era alternativo, ma precursore dell’espansione della Nato, come Clinton confermerà ai leader di Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria e Slovacchia in occasione del suo viaggio a Praga, nel gennaio del 1994 («The question is no longer whether Nato will take on new members, but when and how»).
34. G.F. Kennan, «A Fateful Error», The New York Times, 5/2/1997. Naturalmente, ricordava, «i russi non avrebbero altra scelta che accettare l’espansione come un fatto militare compiuto». E come tale essi infatti lo inquadrarono, benché il loro dissenso non avesse allora la forza per impedirne l’accadimento.
35. Tanto che durante il suo incontro con i sostenitori di El’cin, prima delle elezioni russe del giugno 1991, il segretario generale della Nato, Manfred Wörner, dovette assicurare che non sarebbe avvenuta alcuna espansione dell’Alleanza. Cfr. NATO Expansion: What Yeltsin Heard, National Security Archive.
36. Lettera del 15 settembre del presidente El’cin al presidente Clinton, corsivo nostro.
37. Lettera del presidente El’cin al presidente Clinton, 29/11/1994.
38. «Yeltsin Says NATO Is Trying to Split Continent Again», The New York Times, 6/12/1994.
39. Fr. December 21 1994 – NAC: Guidance for Discussion of the Vice President’s Visit to Russia, U.S. Department of State, bit.ly/3lkjL8K. Dai documenti declassificati russi degli anni Novanta, inclusi quelli delle sessioni a porte chiuse della Duma, si evince come le ragioni russe dell’opposizione all’espansione della Nato vertessero su tre preoccupazioni fondamentali: che l’espansione minacciasse la sicurezza russa; che minasse l’ideale di una sicurezza europea inclusiva; e infine che tracciasse una nuova linea divisoria in Europa.
40. Summary report on One-on-One meeting between Presidents Clinton and Yeltsin, Kremlin, May 10, 1995.
41. E. Di Rienzo, Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo (dis)ordine mondiale, Soveria Mannelli 2015, Rubbettino, p. 18.
42. M. De Leonardis, «Da Erodoto a Kissinger: l’eredità della storia e il peso della geopolitica», p. 15, in G. Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Roma 2021, Carocci.
43. R. Kagan, op. cit., p. 98.
44. L’aggressività è intrinseca alla struttura tetico-ponente del valore (sostenere un valore vuol dire farlo valere, cioè imporlo, dando vita a una guerra tra visioni del mondo che travolge, per definizione, ogni valore).
45. Politica racchiusa nella battuta «Vogliamo andare verso l’Ovest, ma il modo migliore di farlo è con il gas dell’Est». All’Onu, nel settembre del 2013, Janukovyč ribadì che le «aspirazioni europeiste dell’Ucraina sono il pilastro dello sviluppo del nostro paese» insistendo però sulla prospettiva trilaterale dei rapporti tra Ucraina, Ue e Russia. «L’Ucraina è un ponte tra Russia e Ue, ed è molto importante assicurare che questo ponte rimanga saldo e affidabile. Il dialogo tra Ucraina, Russia e Ue sulle questioni commerciali è possibile nel prossimo futuro», «Between two stools: Ukraine says EU trade deal certain, Russia – led union also an option», Reuters, 25/9/2013.
46. G. Colonna, Ucraina tra Russia e Occidente. Un’identità contesa, Milano 2022, Edilibri, p. 84.
47. L’Ucraina (che nella sua configurazione unitaria ha cessato di esistere il 24 febbraio 2022) è notoriamente una terra dalla storia complessa, in cui convivono popolazioni vissute per secoli (dal XVIII secolo fino al 1918) sotto l’impero austro-ungarico (Leopoli e la Galizia) e altre sotto gli zar (le regioni orientali, meridionali, la Crimea e Kiev). Cfr. H. Kissinger, «To settle the Ukraine crisis, start at the end», The Washington Post, 5/3/2014.
48. «Leaked audio reveals embarrassing U.S. exchange on Ukraine, EU», Reuters, 7/2/2014. Victoria Nuland è la moglie di Robert Kagan, teorico neocon che ha teorizzato il destino manifesto degli Usa a espandersi nel mondo.
49. E. Di Rienzo, op. cit., p. 31. Internamente, infatti, la classe dirigente post-Majdan si dedicava internamente a una spensierata opera di pulizia culturale e linguistica, perseguendo oltre all’obiettivo di ingresso nella Nato (che Zelens’kyj nel 2019 inserì in costituzione, nonostante l’ampia opposizione popolare), quello di una forzata politica di omogeneizzazione (vietando quindi l’uso e l’insegnamento del russo nelle scuole). Una politica che alla vigilia della guerra aveva portato la popolarità di Zelens’kyj, eletto per ricucire i rapporti con la Russia, ai minimi storici.
50. Ibidem.
51. H. Kissinger, «To settle the Ukraine crisis», cit.; J. Mearsheimer, «Why the Ukraine Crisis Is the West’s Fault», Foreign Affairs, settembre-ottobre 2014; R. Merry, «The Demonization of Putin by American Intelligentsia», The National Interest, settembre-ottobre 2017.
52. J. Florio, «L’ombra di un sogno. Perché l’europeismo è antieuropeo» Limes, «Il muro portante», n. 10/2019.
53. Cfr. l’eccellente studio di G. Colonna, op. cit., in particolare pp. 125-133.
54. H. Bull, «La società anarchica. L’ordine nella politica mondiale», Vita e Pensiero, 2005, p. 114.
55. O. Hintze, Deutschland und der Weltkrieg, Leipzig-Berlin 1916, Teubner, cit. in D. Groh, La Russia e l’autocoscienza d’Europa. Saggio sulla storia intellettuale d’Europa, Torino 1980, Einaudi, p. 382.
 
Sinceramente , non me ne intendo tanto di economia ( non mi è mai piaciuta, neanche ai tempi dell’università ) , ma mi domando se ci sarà una banca , non dico tanto eh , ma un pochino solida ? 😂
Mps ha chiuso l'esercizio 2022 con una perdita di 205 milioni di euro, a fronte dell'utile di 310 milioni registrato nel 2021. ( il sole 24 ore, 8 febbraio 2023 ).
Il Default della SVB avvenuto qualche giorno fa.
E oggi la notizia che riporta il sito americano reuters: “banking regulators last week, is exploring seeking bankruptcy protection as one option for selling assets that include its investment bank and venture capital business, people familiar with the matter said.”
Adesso anche la Swiss afferma se ci dovesse essere necessità utilizzerà il pompaggio di liquidità.
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Sinceramente , non me ne intendo tanto di economia ( non mi è mai piaciuta, neanche ai tempi dell’università ) , ma mi domando se ci sarà una banca , non dico tanto eh , ma un pochino solida ? 😂
Mps ha chiuso l'esercizio 2022 con una perdita di 205 milioni di euro, a fronte dell'utile di 310 milioni registrato nel 2021. ( il sole 24 ore, 8 febbraio 2023 ).
Il Default della SVB avvenuto qualche giorno fa.
E oggi la notizia che riporta il sito americano reuters: “banking regulators last week, is exploring seeking bankruptcy protection as one option for selling assets that include its investment bank and venture capital business, people familiar with the matter said.”
Adesso anche la Swiss afferma se ci dovesse essere necessità utilizzerà il pompaggio di liquidità.Vedi l'allegato 2887076
by the way, se ci fosse qualche d’uno che legge e che ne capisca più di me di economia e di mercati finanziari mi spiega che cosa pensa di questa situazione attuale. Almeno posso prendere qualche spunto di riflessione.
 
Quando gli Usa volevano arrestare i giudici della Corte penale internazionale | Piccole Note


“Giustificato”. Questo il commento del presidente Biden al mandato di arresto contro Vladimir Putin spiccato dal Tribunale internazionale dell’Aia. Un commento che stride non poco con l’atteggiamento del suo Paese verso le decisioni della Corte in anni recenti.

La Corte d’Afghanistan​

Ma andiamo per ordine. Nel 2017 i magistrati della Corte avevano chiesto di aprire un’indagine sui crimini di guerra avvenuti nel corso dell’occupazione americana dell’Afghanistan e della lunga guerra contro i ribelli aggregati sotto la guida dei talebani o compiuti successivamente dall’Isis, feroce antagonista soprattutto dei talebani.

Alla Corte erano arrivate innumerevoli denunce di crimini di guerra compiuti nel corso degli anni, che peraltro erano e sono sotto gli occhi di tutti. Crimini commessi dall’Isis, dai talebani, ma anche, e forse soprattutto, dalle forze afghane gestite dagli americani, quelle ufficiali e quelle non ufficiali (vedi ad esempio The Intercept: “Gli squadroni della morte afghani della CIA”), come anche i crimini compiuti direttamente dalle forze Usa.

Il tribunale dell’Aia, però, aveva deciso di soprassedere, respingendo la richiesta dei magistrati. Per nulla rassegnati, questi ultimi avevano fatto ricorso e, dopo tanta insistenza, “Il 5 marzo 2020, la Camera d’appello della Corte penale internazionale decide all’unanimità di autorizzare il Procuratore ad avviare un’indagine sugli asseriti crimini che ricadono sotto la giurisdizione della Corte in relazione alla situazione nella Repubblica islamica dell’Afghanistan”.

Crimini a grappolo​

La situazione diventa critica. infatti, come annota il Center for Constitutioanl Rights “l’indagine dovrebbe indagare sui crimini commessi nel contesto del conflitto armato in Afghanistan dalle forze statunitensi o dalla CIA, da membri dei talebani e da funzionari del governo afghano”.

Ma potrebbero saltare anche teste molto più importanti, basta ricordare che quando scoppiò lo scandalo di Abu Ghraib, la prigione dove vennero seviziati migliaia di prigionieri iracheni, si dovette dimettere il Segretario per la Difesa Donald Rumsfield, perché sapeva tutto (e forse aveva autorizzato tutto, ma questo non si saprà mai).

Tante le criticità e i drammi dell’intervento Usa in Afghanistan. Non solo le barbarie isolate, anche la condotta della stessa, con bombe che spesso hanno infierito sui civili, le cui morti sono state classificate come “danni collaterali”. E di danni collaterali se ne contano a iosa, basti ad esempio, ricordare che nel solo 2006 gli States sganciarono sul Paese 7.423 bombe.

Ma anche che nei “232 attacchi avvenuti durante i primi sei mesi di guerra, gli Stati Uniti hanno sganciato circa 1.228 CBU [cluster bomb], contenenti 248.056 submunizioni”, come denunciava Human Rights Watch.

L’ira di Bolton​

Erano le famigerate bombe a grappolo, vietate dalle convenzioni internazionali (che gli Usa non hanno recepito) perché rilasciano sul terreno bombe di minore potenza che esplodono toccando il suolo, flagellando un’ampia area; ma spesso rimangono inesplose, uccidendo in seguito ignari malcapitati.

Ma al di là dei particolari, resta appunto che i magistrati dell’Aia intendevano avviare un’indagine sulle oscurità dell’Afghanistan. A rispondere a tale iniziativa fu il Consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, il quale, a nome degli Stati Uniti, dichiaròche l’iniziativa era “inspiegabile” e “assolutamente pericolosa”, aggiungendo che qualsiasi indagine contro le forze statunitensi era “del tutto infondata e ingiustificabile”.

Fin qui il fuoco di sbarramento. Quindi le minacce: “Vieteremo ai giudici e ai pubblici ministeri [della Corte] di mettere piede negli Stati Uniti. Emaneremo sanzioni e apriremo un’inchiesta penale contro di essi”…

Khan, il derubricatore​

Le indagini della Corte, dato il forte contrasto, languirono, tanto che nel 2019 si decise di soprassedere. A modificare ancor più le cose, il ritiro degli americani dal Paese, che però, ovviamente, non ha inciso sui crimini pregressi.

A seguire, un altro significativo cambiamento. Il procuratore capo dell’Aia deve cedere il posto al suo successore, Karim Khan, cioè l’uomo che nei giorni scorsi ha emanato il mandato di arresto contro Putin.

Khan si insedia il 16 giugno del 2021 e, trascorse le vacanze estive, decide subito di risolvere una volta per tutte la spinosa questione afghana. Gli americani non ci sono più nel Paese, spiega in una dichiarazione ufficiale del 27 settembre 2021, e l’Afghanistan è ormai governato dai talebani.

Tanti mutamenti richiedono una decisione radicale. Ed è questa: “Nell’appressarmi a riprendere le fila dell’indagine, sempre se mi sarà concessa l’autorizzazione a procedere, sono consapevole delle risorse limitate a disposizione del mio Ufficio rispetto all’entità e alla natura dei crimini di competenza della Corte che sono, o sono stati, commessi in varie parti del mondo. Ho quindi deciso di concentrare le indagini del mio Ufficio in Afghanistan sui possibili crimini commessi dai talebani e dallo Stato islamico – provincia del Khorasan (“IS-K”) – e di derubricare gli altri aspetti dell’indagine”. Inutile aggiungere verbo…

Arrestare Putin?​

Ma arriviamo al presente, nel quale qualcuno si interpella se il mandato di arresto contro Putin possa essere eseguito. Ora, è alquanto ovvio ciò che ha affermato il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Dmjtry Medvedev, cioè che l’arresto di Putin “equivarrebbe a una dichiarazione di guerra” al suo Paese.

Ma, nonostante il rischio Terza guerra mondiale, c’è chi non scarta l’idea, anzi. Ad esempio il senatore americano Lindsey Graham, il quale ha chiesto a Tony Blinken se Putin verrebbe arrestato nel caso in cui mettesse piede negli Stati Uniti.

Invece di rigettare il quesito come folle, spiegando al suo altrettanto folle interlocutore i tragici rischi connessi, il Segretario di Stato ha risposto: “Beh, non posso anticiparlo, perché devo guardare le leggi e le regole. Come sai, noi non siamo partecipi della CPI”, cioè la Corte dell’Aia.

La leggerezza con cui si è svolto lo scambio di battute su una questione tanto esplosiva rende l’idea della tragedia in cui versa il mondo. Per quanto riguarda Lindsey Graham, poi, forse è il caso che si metta d’accordo col suo compagno di merende Bolton – col quale condivide il Credo neocon e l’idea di un ingaggio diretto degli Usa nel conflitto ucraino – per decidere se a finire in galera debba essere Putin o i giudici dell’Aia.
 
La storia, sopratutto quella recente, viene in genere presentata al pubblico nella cornice di un sistema dottrinale basato su alcuni dogmi fondamentali. Nel caso delle società totalitarie, la questione è tanto ovvia da non richiedere commenti.
La situazione è più interessante in società che non hanno forme rozze di repressione e di controllo ideologico. ( Gli Stati Uniti, per esempio, sono sicuramente una delle società meno repressive della storia passata o presente quanto a libertà d'informazione e di repressione). Tuttavia, raramente un'analisi di eventi storici cruciali raggiungerà un grande pubblico se non è conforme a certi tesi.
"Gli Stati Uniti partano sempre con buone intenzioni ".
Con questa formula da incantesimo rituale, un critico dell'interventismo americano entra nell'arena del dibattito consentito, dei pensieri ammissibili.
Per accettare il dogma, una persona che non riesca a tollerare più di un certo grado di contraddizione interna, deve evitare attentamente la documentazione ufficiale, che in una società libera è vasta, così come la registrazione dei progetti ad alto livello che si trova nei documenti del Pentagono , in particolare quelli relativi ai primi anni del coinvolgimento mondiale degli Stati Uniti, negli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, quando furono sviluppate e formulate le linee strategiche essenziali.
Nelle professioni accademiche e nei media l'intellighenzia tende generalmente a restare in linea; essa rifiuterà di mettere in dubbio gli articoli di fede, di separare i documenti storici dalla loro interpretazione canonica e di procedere a presentare una versione della storia veramente autonoma dall'analisi ufficiale.
Gli occasionali scostamenti dall'ortodossia sono di scarsa importanza, fintanto che restano confinati a circoli ristretti che possono essere ignorati, definiti come "irresponsabili", "ingenui", "incapaci di comprendere la complessità della storia" o altrimenti bollati come inaccettabili con familiari parole in codice.


Noam Chomsky
 
La formula di camp David non solo è stata incapace di produrre la sistemazione generale promessa dal presidente Carter, ma ha anche contribuito a una seconda invasione israeliana del libano nel giugno del '82.
Neutralizzando l'Egitto, il trattato fra Egitto e Israele permetteva a quest'ultimo di continuare con i suoi piani per schiacciare la resistenza palestinese e cancellarne l'identità nazionale, con l'intenzione di perpetuare l'occupazione della Cisgiordania, della striscia di Gaza e delle alture del Golan.
Gli accordi di Camp David e il successivo piano Regan introdotto nel settembre dell'82 erano basati su promesse scorrette circa la "sicurezza " di Israele e le minacce arabe contro di essa.
Alcuni sviluppi avevano rivelato la complicità dell'amministrazione Regan nell'invasione israeliana del libano dell'82, che si riteneva avrebbe prodotto risultati considerati vantaggiosi sia per gli interessi americani sia per le mire espansionistiche di Israele.
Gli interessi dell'amministrazione americana e del governo Likud di Israele si unificano attorno a tre obiettivi :
- distruggere le infrastrutture palestinesi in libano;
- ridisegnare la carta politica del paese;
- ridurre la siria a proporzioni controllabili.
la pax America e la pax israeliana dovevano essere realizzate mediante la campagna cinicamente denominata " Pace in Galilea".
l'operazione dell'82, come quella precedente, L'operazione Litani del'78, rientravano nella strategia sionista di lunga durata per il libano e la Palestina.
La destabilizzazione israeliana del Libano, nella ricerca di uno Stato cliente a controllo maronita, ha assunto svariate forme, dall'estensione al libano della formula di Camp David all'invasione vera e propria del paese nell'82,
Per quanto riguarda l'imposizione di una soluzione alla Camp David, Begin fece una dichiarazione al parlamento israeliano il 7 maggio 1982, invitando il Libano ad avviare negoziati con Israele sulla base del ritiro siriano e dell'espulsione dei palestinesi dal Libano.
Questa proposta suscitò una reazione entusiastica da parte di Bashir Gemayel, comandante dei reparti falangisti libanesi, che, il 28 maggio 1979, dichiarò al Monday Morning Post di Beirut.

Questi principi sono sani e dovrebbero essere accettati, se si vuole che gli sforzi libanesi abbiano successo.
il presidente Sadat ha accettato una proposta simile, e ora sta guidando l'Egitto verso un'era di benessere e prosperità,
Quando sarà riconosciuto al Libano il diritto di perseguire il suo benessere ?

Gemayel aggiunse :

direte che sto difendendo Sadat quando difendo Sa'ad Haddad, ma sarei un codardo senza onore se non difendessi il mio punto di vista.


l'invasione del 1982 fece talmente pendere l'equilibrio interno a favore degli alleati libanesi di Israele , che la maggioranza di musulmani, nazionalisti e altri gruppi anti-israeliani si trovò in uno stato di sottomissione vera e propria.
Agli sconfitti furono imposte le condizioni del vincitore.
il nuovo alleato di Israele, bashir Gemayel doveva diventare presidente del libano.
nonostante l'assassinio di Gemayel prima che potesse entrare in carica, le cose cominciarono ad andare secondo la strategia di Israele.
Israele si assicuro un ufficio di collegamento a Beirut , molto simile ad una ambasciata; il partito falangista e il figlio del suo capo Amin Gemayel, ora presidente del libano, iniziarono a rimodellare il paese secondo la loro volontà.
ben presto l'egemonia settaria prese piede, finanziata da Israele e appoggiata da USA.
nell'autunno dell'83 , le truppe israeliane furono costrette alla ritirata fino al fiume Awali.
nell'84, Regan ordinò la ritirata delle truppe statunitensi, mentre i drusi e gli sciiti facevano il loro ingresso a Beirut il 10 febbraio.
Amin gemayel, che doveva la sua carica all'invasione israeliana, fu costretto, nelle nuove circostanze politiche e militari a ripudiare l'accordo Shultz e a chiudere l'ufficio di Israele nel mese di luglio dello stesso anno.
nel '82 Israele con la sua invasine non solo raggiunse la quasi totalità dei suoi scopi, ma spinse anche le forze libanesi di destra su una posizione che confina con il fasciamo e fa della riunificazione e della reintegrazione una possibilità remota.
l'invasione del '82 fu il propulsore di una guerra civile libanese con un costo esagerato di vite umane e proprietà.
Questa tragedia ha coperto un numero vasto di violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani.


Spunti tratti dal libro di Serge Thion intitolato "sul terrorismo israeliano"

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ISRAEL'S SACRED TERRORISM​



by Livia Rokach, Third Edition

A study based on Moshe Sharett's Personal Diary, and other documents. Foreword by Noam Chomsky
Index and Foreword

To all the Palestinian victims of Israel's unholy terrorism, whose sacrifice, suffering and ongoing struggle will yet prove to be the pangs of the rebirth of Palestine...​
AAUG PRESS ASSOCIATION OF ARAB-AMERICAN UNIVERSITY GRADUATES, INC., Belmont, Massachusetts

First published in the United States of America by AAUG Press c1980, 1982, 1986 by the Association of Arab-American University Graduates, Inc. All rights reserved in the U.S. Published 1980. Third Edition 1986

Printed in the United States of America

Library of Congress Cataloging in Publication Data Rokach, Livia. lsrael's sacred terrorism. (AAUG information paper series: no. 23) ISBN 0-937694-70-3
ISRAEL'S SACRED TERRORISM: Contents and Foreword
 
Ricorderete la vicenda del default dello Sri Lanka, della crisi alimentare ed energetica che lo colpì durante l'anno passato.
A inizio settimana, il #FMI ha erogato un nuovo prestito di quasi tre miliardi di dollari in cambio delle solite "#riforme".
La cosa ha una serie di implicazioni non di poco conto.
I debiti che lo Sri Lanka (chiunque) contrae con il FMI legano il paese agli interessi occidentali (USA, Europa, Giappone che sono poi i big dell'organizzazione) e a precise politiche economiche (che a dispetto della neutralità, sono di carattere ideologico).
Gli analisti occidentali indicano la svolta come positiva (nell'immediato sicuramente questa avrà un impatto positivo per la popolazione), ma non tengono conto del meccanismo auto-alimentante tra prestiti e politiche neoliberiste.
La storia dei processi di decolonizzazione e post-coloniale ci racconta di come i prestiti occidentali (o delle organizzazioni internazionali in mano a attori occidentali) siano stati spesso i cavalli di ***** per una politica economica rapace. Noi stessi, in Europa e Italia, abbiamo sperimentato (in parte sperimentiamo) i rigori della disciplina economica al potere: i greci hanno subito le bacchettate di questo Robin Hood al contrario.
I vari finanziamenti allo Sri Lanka saranno legati indissolubilmente all'azione politica del governo; ricorderete le montiane "riforme". Questo termine dall'apparenza progressista, in realtà ormai utilizzato per indicare presunti canoni oggettivi (che non possono essere fissati come tali, essendo economia e politica parte delle dinamiche sociali e quindi necessariamente di parte), finiscono sovente a indicare la macelleria sociale a cui i paesi debitori sono costretti.
I paesi perdono la sovranità (tramite il meccanismo del rilascio a più tranches legate alla riforme), questa perdita non è mai breve o temporanea, tende a stabilizzarsi. Di solito non riescono a ripagare i debiti, finendo nuovamente in balia dei creditori, altre volte vengono legati indissolubilmente a uno o più poteri occidentali (stati o multinazionali) che abusano della loro posizione per aumentare i guadagni. In alcuni casi, i paesi riescono tramite una politica di compressione salariale e spiccatamente favorevole al capitale, ad attirare investitori e ad uscire dalla povertà. Tutto questo, avviene però di solito con molte cessione al capitale, una totale compressione dei diritti del lavoro e nessuna attenzione a diritti o ambiente.
I media occidentali continuano a colpevolizzare la Cina di quanto accaduto nell'ultimo anno, ma buona parte dei debiti era detenuto da investitori privati; tra i governativi il ruolo della Cina non era poi molto diverso da altri. Anche qui, dovremmo forse indagare il ruolo avuto dal colonialismo e dai suoi strascichi successivi, dalla rivalità con l'India (talvolta fomentata dall'Occidente, in funzione anti-indiana), al capitombolo successivo all'avvicinamento con la Cina.
Avanzo una suggestione (che ha il valore che ha, non datele peso): in questa epoca di rivoluzioni colorate e spread, la cacciata di un presidente -con rivolta popolare, più che comprensibile- aperto agli investimenti cinesi (e quindi alla Via della Seta e alla strategia del filo di perle nell'Oceano Indiano) e la sostituzione con uno nuovo che decide di chiedere aiuto al FMI (perché non alla Nuova Banca di Sviluppo dei BRICS?), può essere interpretato in tanti modi.
Tempo fa, Trinidad e Tobago -uno stato caraibico- dovendo scegliere tra un prestito FMI e uno cinese ha preferito il secondo. Le condizioni erano nettamente vantaggiose (tasso di interessi più vantaggioso, nessuna pretesa sulla politica interna -a differenza del FMI-, obbligo ad usare parte del prestito in macchinari o medicinali cinesi -quindi in prodotti UTILI alla popolazione).
Meccanismi come questo non sono generici, non sono idee astratte, non sono scelte dei governi. In Occidente sono i meccanismi che tutti abbiamo sostenuto votando, iscrivendoci a un sindacato, pagando le tasse, ecc.
Tempo fa un amico dalla Russia scrisse (parafraso): "Quando la popolazione occidentale capirà cosa vuole dire veramente l'ascesa cinese e dei BRICS, il multipolarismo, la resistenza russa all'allargamento UE e NATO e come questo impatterà sul suo tenore di vita e consumi cambierà rapidamente idea e chiederà alla propria classe dirigente la guerra".
Risposi scettico, pensavo che la popolazione occidentale avesse capito il limite ecologico ed economico-politico dello "sviluppo", pensavo che alla fine la catastrofe sarebbe stata evitata: inizio ad avere qualche dubbio al riguardo.
Inizio, anzi, a temere che il pensiero di sinistra (specie quello cresciuto nel clima del boom, convinto che le risorse siano infinite e con un'idea dicotomica del potere) sia una sorta di laicizzazione del giustificazionismo cristiano dei propri peccati, una sorta di confessione collettiva.
Come ho detto in passato: l'esercito di riserva dell'imperialismo siamo noi, i produttori di ricchezza anche nei momenti di svago, i consumatori di quella ricchezza, i guardiani dell'ordine costituito.
Noi siamo già tutti inquadrati come un grande esercito e per il nostro svago del sabato sera siamo ben disposti a lavorare in una fabbrica di napalm... Tanto cadrà molto lontano da casa nostra....

Gabriele germani
 
Dopo l'uscita giovialmente fascista di La Russa sui partigiani, eccoci ricaduti stancamente per la miliardesima volta nel giochino politico più stantio della storia italiana.
A destra ogni tanto si sveglia qualcuno, estraendo l'orbace dall'armadio tarlato del nonno, e per darsi un tono tira fuori qualche trombonata da Cinegiornale dell'Istituto Luce. Sorge naturale il sospetto che gente come il ridente Presidente del Senato siano a libro paga del PD, perché cosa farebbe il comitato di affari multinazionali che risponde a quel nome senza le sue cicliche rimpatriate "antifasciste"?
Se non ci fosse ogni tanto qualche anziano reduce che se ne esce con un bel "Quando c'era LVI!" una buona parte del PD (e dell'odierno arco costituzionale) non sarebbe distinguibile dal reparto pubbliche relazioni di una Corporation multinazionale.
Ma grazie al cielo ogni tanto, come i pugili suonati che menano pugni all'aria al suonare del gong, di quando in quando si riesce ancora a riesumare qualche scampolo di "minaccia fascista" d'antan e a "sinistra" per qualche giorno si può respirare:
"Fiuuu! Abbiamo ancora una ragione di esistere".
Ora, il punto davvero grave, quello imperdonabile e che se ignorato oramai deve essere inteso come dolo, è non capire DOVE sta il potere oggi e qual è l'orizzonte odierno di pericolo rappresentato da QUESTO potere.
Perché, sia ben chiaro, è sacrosanto tener ferma la condanna del fascismo storico.
E' sacrosanto perché è giusto lottare contro un Potere impermeabile alla volontà popolare, contro un Potere che monopolizza la comunicazione mediatica, contro un Potere che censura le voci politicamente sgradite, un Potere dove politica, "padroni del vapore" e magistratura si allineano nello schiacciare ogni contestazione, un Potere guerrafondaio e affetto da un patologico senso di superiorità.
E' giustissimo combattere tutto questo.
Solo che oggi tutto questo non lo si trova sotto il nome "fascismo".
Il Potere reale, il Potere apparentemente illimitato, arrogante e pericoloso oggi è nelle mani di un blocco politico tecnocratico e neoliberale, trasversale a destra e sinistra, un blocco il cui baricentro è il "medio-progressismo" (cit. Fantozzi) rappresentato al meglio da forze come il PD.
E' così negli USA, è così nell'UE ed è così in Italia.
E riciclare oggi il "pericolo fascista" non è più un errore di analisi: è una colpa politica grave, è complicità con il potere nella sua forma più pericolosa.
di Andrea Zhok
 
GLI EFFETTI DELLA PARTNERSHIP RUSSIA-CINA SULL’ARTICO
Cosa è emerso dall’incontro tra Xi Jinping e Putin a Mosca: progetti a breve e lungo termine per l’Artico.
Russia e Cina vicine come non mai. Ora che le aziende occidentali non investono più a Mosca, è Pechino l’ancora di salvezza a cui Putin vuole aggrapparsi per mantenere saldo il proprio ruolo nell’Artico, ma anche altrove. Si tratta di una dipendenza molto forte a cui starebbe andando incontro la Russia, e di un legame di pura convenienza che invita Xi Jinping a ricambiare i favori russi.
Nei giorni scorsi il leader cinese si è recato a Mosca per una visita di stato di tre giorni, durante la quale sono venuti fuori davvero tanti temi cari ai due paesi. Ad esempio si è discusso di energia e trasporti nell’Artico: secondo Putin, i due paesi stanno cercando di dar vita ad una sorta di organizzazione che regoli il traffico lungo le rotte della Northen Sea Route. Dall’incontro è emerso un impegno congiunto Russia-Cina per perseguire l’obiettivo.
D’altronde la rotta riguarda gran parte della costa russa, da est di Nova Zemlya passando per il mare di Kara e lo Stretto di Bering. Ma è anche luogo d’interesse dei traffici cinesi da molto tempo; si stima infatti che la compagnia marittima COSCO è la principale compagnia di navigazione lungo questa rotta, ininterrottamente da oltre 10 anni, ed ha effettuato più viaggi di qualunque altro paese, eccetto la Russia.
C’è poi il discorso legato agli investimenti cinesi. Da anni la Cina investe nell’Artico e sa bene che la Russia è un ottimo pivot per portare avanti un soft power basato sulla presenza infrastrutturale. Pechino ha investito oltre 90 miliardi di dollari in attività estrattive, sia per l’energia che per le miniere artiche. Tutte queste attività, rientranti nella Belt and Road Initiative, rappresentano una grande strategia precisa, attiva dal 2013 e destinata ad essere di lungo termine.
La Russia è stata ed è destinataria di molti di questi investimenti. Da quando è in atto il conflitto in Ucraina, questo rapporto non si è affatto affievolito, ma è andato anzi a toccare livelli record: nel 2022 il commercio sino-russo ha fatto registrare un aumento di un terzo, pari a 190 miliardi di dollari.
Nel 2023 la cifra potrebbe essere maggiore. Per il momento la Russia ha un solido accordo con la Cina per l’esportazione del GNL, del carbone e dell’elettricità. La Cina ha un gran bisogno di fonti energetiche per reggere il suo mastodontico peso ed il suo sviluppo economico, per questo, il cambio di rotta dei traffici energetici della Russia, ha dato giovamento ad entrambi i player. Se riusciranno, come si sono promessi a migliorare i collegamenti attraverso trasporti internazionali e corridoi logistici, potrebbe crearsi un’asse molto solido basato principalmente su aspetti economici.
La Cina è presente nell’Artico a vario titolo. Pare che i progetti che la riguardino in qualche modo siano 39; in alcuni di essi detiene interessi diretti, in altri gli interessi si articolano in vie traverse. Tra questi non mancano grandi progetti da miliardi di dollari d’investimento. Per esempio la China National Petroleum Corporation (CNPC), compagnia di bandiera cinese, possiede il 20% del progetto Yamal LNG della Novatek ed il 10% di Artcic LNG2 prossimo progetto estrattivo.
Questo solo per citarne alcuni, ma la presenza cinese negli affari russi è molto più marcata e si esplicita principalmente negli investimenti. I due progetti appena citati vantano un corposo investimento di Pechino, nonché un prestito di 12 miliardi di dollari che le banche cinesi hanno elargito alla Russia nel 2016 in cambio di un inserimento diretto della Cina nei progetti principali. Questo tradotto in termini pratici significa che la Cina ha ottenuto la maggior parte di contratti per la costruzione di infrastrutture nell’Artico russo, tra cui anche quelli per la realizzazione dei moduli per l’estrazione del GNL. Inoltre, la Cina ha realizzato anche le navi: 14 gestite da Pechino, 7 sono state realizzate in Cina. In totale Pechino avrebbe avuto un ritorno di circa 8,5 miliardi di dollari.
In sostanza, la partnership tra Russia e Cina conviene evidentemente ad entrambi. La Russia ha perso i suoi storici canali di vendita occidentali a seguito della guerra, mentre la Cina ha sempre bisogno di energia e di espandere i mercati e gli investimenti. È chiaro che per il momento si parla di una partnership basata solo ed esclusivamente su questioni economiche; aspetti militari e strategici, seppur presenti, non riguardano le attuali tensioni internazionali, e anche se Putin e Xi ne hanno discusso, la priorità resta economica. Almeno fin quando sarà Pechino a detenere un punto focale sui temi e sugli investimenti, sarà questo il trend. La Cina vorrebbe portare la Russia con sé nei propri progetti strategici a lunga scadenza, ma è ancora presto per dirlo.
-di Domenico Modola-
 
Il Brasile esporterà in Cina senza passare dal dollaro americano

Si intensificano le relazioni bilaterali commerciali tra Brasile e Cina, con Pechino intenzionata ad espandere la sua sfera d’influenza non solo in Medioriente, ma anche in America Latina, soppiantando di fatto Washington. Durante un seminario a Pechino questo mercoledì, infatti, è stato annunciato dal ministero delle Finanze brasiliano un accordo tra le banche centrali dei due Paesi che permetterà di utilizzare le valute locali – real e yuan – per gli scambi commerciali, garantendo la conversione e la liquidità tra le due valute. Per chi lo desidera, gli scambi potranno comunque continuare ad essere effettuati in dollari. La “camera di compensazione” dovrà essere stabilita in una banca cinese in Brasile, designata dalla Banca Centrale di Pechino. La Cina utilizza già lo stesso sistema in altri Paesi del mondo, tra cui anche Cile e Argentina. Per quanto riguarda l’ambito degli investimenti privati, a margine del seminario, imprese cinesi e brasiliane hanno firmato oltre 20 accordi di partnership riguardanti i settori della transizione energetica e della lotta al cambiamento climatico, commercio e servizi, infrastrutture e costruzioni, estrazione petrolifera e mineraria, oltre che industria, agribusiness, finanza, salute e tecnologia dell’informazione e della comunicazione. «L’evento, a cui hanno partecipato oltre 500 imprenditori brasiliani e cinesi, ha voluto contribuire al consolidamento e alla diversificazione delle relazioni commerciali e dei flussi di investimento, con un focus su transizione energetica, innovazione e sostenibilità», ha riferito il ministero degli Esteri brasiliano in una nota.

“Questo è uno sforzo per ridurre i costi di transazione”, ha affermato Tatiana Rosito, segretario per gli affari internazionali presso il ministero delle Finanze, durante il seminario a Pechino. All’evento avrebbe dovuto presenziare anche il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, con la partecipazione di oltre 240 uomini d’affari, ma a causa di una polmonite Lula non ha potuto partecipare e anche gli annunci che avrebbe dovuto fare il governo sono stati rinviati. Se per Brasilia l’obiettivo è ridurre i costi di transazione, per Pechino si tratta di un modo per ridurre la propria dipendenza dalla valuta statunitense promuovendo lo yuan come moneta di scambio, considerate le crescenti tensioni geopolitiche con gli USA nella zona dell’Indo-Pacifico e non solo. L’utilizzo dello Yuan come valuta di scambio era già stato concordato durante il viaggio di Xi Jinping in Arabia Saudita lo scorso dicembre e ora potrebbe affermarsi anche in America Latina, sancendo il peso crescente della Cina nello scacchiere globale e contribuendo a sgretolareulteriormente il predominio del dollaro.

Ci sono poi altri due elementi che promettono di consolidare le relazioni bilaterali tra i due Stati indebolendo il ruolo americano nella regione: un accordo che consentirà alle banche brasiliane di partecipare al sistema di pagamento nel mercato finanziario cinese e il ruolo della BNDES, la Banca Nazionale per lo Sviluppo Economico e Sociale brasiliana, collegata al Ministero dello sviluppo, dell’industria, del commercio e dei servizi. La BNDES ha messo a punto un accordo per accedere ai crediti asiatici e finanziare progetti in Brasile, sia in termini di infrastrutture che di energia di transizione. L’intesa avrebbe dovuto essere sottoscritta nei giorni scorsi durante la visita di Lula a Pechino, ma a causa dell’annullamento del viaggio è stata attualmente sospesa. Natalia Dias, direttrice dei mercati dei capitali presso BNDES, ha spiegato che nel processo di negoziazione sono in ballo cinque miliardi di dollari in prestiti bilaterali, la metà dei quali verrebbe dalle banche asiatiche. Per quanto riguarda la Cina, l’obiettivo è che il finanziamento possa servire a promuovere progetti infrastrutturali guidati da aziende di Pechino che, attualmente, il Brasile non è ancora in grado di realizzare.

Gli accordi stipulati tra Brasile e Cina – entrambi membri del BRICS – dimostrano il peso crescente del gruppo nelle dinamiche internazionali grazie a nuovi accordi commerciali, finanziari e di sviluppo ormai completamente indipendenti dall’influenza dell’anglosfera. Le nuove intese bilaterali e la progressiva instaurazione di un sistema finanziario sganciato dal biglietto verde promettono di dare vita a una nuova struttura di relazioni globali, maggiormente equilibrata e solidale, in grado di garantire lo sviluppo dei Paesi del sud del mondo, grazie all’orientamento verso un nuovo assetto multipolare.

[di Giorgia Audiello]
 
Donald Trump è stato ufficialmente incriminato: sarà il primo presidente USA a processo

Dopo cinque anni di indagini e settimane di dichiarazioni al vetriolo, la conferma è arrivata: il gran giurì di Manhattan (una giuria formata da 23 cittadini estratti a sorte) ha ufficialmente incriminato per i pagamenti elargiti in nero a una pornostar Donald Trump, che la prossima settimana si consegnerà alle autorità e verrà arrestato. È la prima volta che accade per un ex presidente degli Stati Uniti. Trump ha reagito parlando di una «caccia alle streghe» ordita contro di lui al fine di «distruggere il movimento Make America Great Again» e di una «persecuzione politica».

L’atto d’accusa è stato depositato in tribunale, ma i suoi contenuti non sono ancora stati diramati pubblicamente. L’oggetto del contendere sono i 130mila dollari che Trump avrebbe versato nel 2016, in piena campagna elettorale per la presidenza Usa, all’attrice hard Stormy Daniels, il cui vero nome è Stephanie Clifford. Secondo il procuratore di New York Alvin Bragg, essi sarebbero serviti per comprare il silenzio della donna sui rapporti sessuali che i due avrebbero consumato nel 2006, quando la moglie del tycoon, Melania Knauss, stava dando alla luce il figlio Barron. Il versamento fu anticipato dall’allora legale di Trump Michael Cohen, che avrebbe poi ottenuto un rimborso dal cliente dopo la sua salita alla Casa Bianca. Semplici «onorari», secondo l’ex Presidente Usa, mentre Cohen, sentito dal gran giurì, ha testimoniato contro Trump. Il pagamento, secondo il procuratore, deve essere inquadrato come un «finanziamento» in nero effettuato per salvare la sua campagna elettorale, che sarebbe potuta sfociare in un altro risultato ove la vicenda non fosse stata coperta.

Sono intanto in corso i negoziati tra la procura distrettuale di New York e gli avvocati di Trump. Si sostanzierebbero nell’approdo volontario del tycoon nella “Grande Mela”, dove sarà formalmente arrestato, martedì prossimo. Trump sarà accompagnato dai servizi segreti in quanto ex Presidente, saranno rilevate le sue impronte digitali e scattate le foto segnaletiche, poi dovrà comparire davanti al giudice per rendere la dichiarazione di innocenza o colpevolezza (si è sempre dichiarato «not guilty»). Infine lascerà il tribunale, probabilmente senza cauzione, dal momento che si tratta di reati non violenti.

L’incriminazione non potrà comunque intralciare formalmente la corsa di Trump alle presidenziali del 2024, poiché la Costituzione americana non richiede ai candidati di avere la fedina penale pulita. L’ex Presidente, d’altra parte, appare intenzionato a cercare di utilizzare politicamente a proprio favore il caso. Già dalle scorse settimane Trump – non è affatto una novità – ha denunciato la persecuzione politica: «Hanno portato questa accusa falsa, corrotta e vergognosa contro di me – ha scritto su Truth Social l’ex Presidente – solo perché sto con il popolo americano». Riferendosi al procuratore Bragg, Trump ha sostenuto che «invece di fermare l’ondata di criminalità senza precedenti che ha travolto New York, sta facendo il lavoro sporco di Joe Biden, ignorando gli omicidi, i furti con scasso e le aggressioni su cui dovrebbe concentrarsi». Una narrazione non troppo diversa a quella cui eravamo abituati in Italia nell’era berlusconiana.

Nel frattempo, Trump resta sotto inchiesta anche per altre vicende. Due indagini federali sono guidate da un procuratore speciale: la prima riguarda i presunti incitamenti di Trump ai suoi supporters nella cornice del cosiddetto Assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, che potrebbe tradursi in un’incriminazione per cospirazione; l’altra concerne invece il ritrovamento di documenti segreti, che avrebbero dovuto essere consegnati da Trump al National Archive, nel suo resort in Florida. In Georgia è poi aperta un’altra inchiesta, che si basa sul contenuto di una conversazione telefonica del 2020 – a margine dello spoglio elettorale delle presidenziali perse da Trump – in cui il tycoon chiedeva al Segretario di Stato georgiano Brad Raffensperger di ribaltare il risultato. In Georgia, i democratici trionfarono con un margine di 11779 voti: Trump, denunciando brogli, ne reclamava «11780, uno in più di quelli che abbiamo, perché abbiamo vinto lo Stato».

[di Stefano Baudino]
 
Un nuovo rapporto ONU certifica le torture in Libia e accusa l'Europa

Secondo il Consiglio per i diritti umani, sostenuto dalle Nazioni Unite, le prove sono ormai chiare e inconfutabili: in Libia – un Paese che negli ultimi anni è diventato un punto di transito per milioni di persone di diversa nazionalità che cercano di arrivare in Europa – sono stati commessi crimini contro l’umanità ai danni di residenti e migranti. Abusi a cui, secondo il gruppo di esperti, avrebbe contribuito anche l’Unione europea, supportando economicamente le forze armate e finanziando l’intercettazione e la detenzione di migranti.

Che le forze dell’ordine nazionali utilizzino metodi poco ortodossi per contenere la migrazione è cosa ormai nota. Basti pensare all’episodio del 25 marzo scorso, quando una motovedetta libica ha minacciato la nave Ocean Viking della ong Sos Méditerranée e un gommone carico di migranti, sparando in aria e in acqua. Certo, il fatto che per la prima volta un rapporto ufficiale ne certifichi le violenze, ammonendo al contempo Bruxelles, è invece di per sé una grossa novità.

I risultati sono stati raccolti dalla Missione indipendente di accertamento dei fatti sulla Libia (FFM), partita il 22 giugno 2020 per indagare sulle violazioni e gli abusi dei diritti umani in tutta la Libia, e al fine di prevenire un ulteriore deterioramento della situazione e individuare possibili responsabili. Negli anni gli esperti hanno condotto centinaia di interviste, ascoltando i racconti di migranti e testimoni che hanno vissuto sulla propria pelle il caos di un Paese diviso tra amministrazioni rivali e milizie in guerra.

Mohamed Auajjar, capo della missione conoscitiva, ha dichiarato che la sua squadra ha portato alla luce «numerosi casi di detenzione arbitraria, omicidio, tortura, stupro, riduzione in schiavitù, anche sessuale e sparizione forzata», spesso sotto la minaccia delle armi. Gli intervistati hanno raccontato di abusi sessuali ai danni di donne e uomini, anche da parte di guardie che lavorano sia per le autorità statali che per gruppi di trafficanti – «abbiamo fondati motivi per ritenere che il personale di alto rango della Guardia costiera libica sia colluso con trafficanti e contrabbandieri». Le vittime «includevano bambini, uomini e donne adulti, difensori dei diritti umani, politici, rappresentanti della società civile, membri delle forze armate o di sicurezza, legali e persone omosessuali o presunte tali».

Tuttavia, secondo il gruppo, negli ultimi tre anni sono le donne ad aver visto maggiormente la propria condizione sprofondare. Nel rapporto infatti si scrive di discriminazione “sistematica” contro di loro, sfociata in aumento della violenza domestica e sessuale, non punita da alcuna legge, e una generale impunità per i crimini commessi contro importanti donne ‘leader’, tra cui la parlamentare Sihem Sergiwa, sparita nel nulla nel 2019, e l’attivista Hannan Barassi, uccisa nel 2020.

Molti dei migranti che arrivano in Libia nella speranza di poter muoversi altrove, finiscono per essere trattenuti seppur senza alcun capo d’accusa, lasciati morire in condizioni orribili e\o «sottoposti regolarmente a torture e isolamento», senza avere accesso ad acqua, cibo o altri beni di prima necessità. Condizioni che per il Consiglio per i diritti umani – che tra l’altro ha condiviso il suo rapporto con la Corte penale internazionale – non sono più tollerabili, e alla luce delle quali le autorità dell’UE dovrebbero rivedere le loro politiche e gli accordi presi con la Libia.

La guardia costiera del Paese, infatti, riceve addestramento e attrezzature direttamente dall’UE, ed entrambe le entità coordinano vicendevolmente gli interventi, in un lavoro che potremmo definire ‘di squadra’. Certo, «l’UE non è responsabile di crimini di guerra, ma il sostegno fornito ha aiutato e favorito i crimini». Immediata la reazione della Commissione europea, il cui portavoce, Peter Stano, ha ribadito che «l’UE non ha finanziato la guardia costiera libica». Ma che, piuttosto, l’aiuto fornitogli «aveva lo scopo di migliorare le loro prestazioni in termini di ricerca e soccorso».

Prendendo per vere tali affermazioni, il problema è che i modi di sostenere le violazioni dei diritti umani non sono sempre e solo quelli che si vedono. L’Italia, ad esempio, oltre a fornire motovedette e addestramento, con la Libia ha uno stretto rapporto basato sul gas. Proprio lo scorso gennaio Claudio Descalzi, Amministratore Delegato dell’ENI e da Farhat Bengdara, presidente della compagnia petrolifera di Stato ‘National oil corporation’ (NOC) hanno stipulato un accordo da 8 miliardi di dollari di investimenti per l’esplorazione di nuovi giacimenti. Senza dimenticare poi il famoso “Memorandum Italia-Libia”, un’alleanza in cui l’Italia si impegna a fornire alla Libia supporto finanziario e tecnico per contrastare la migrazione verso la nostra penisola. Da quando è stato siglato (nel 2017) ad oggi, sono più di 100 mila le persone riportate indietro, dopo essere state intercettate dalla Guardia Costiera Libica nelle acque del Mediterraneo centrale.

[di Gloria Ferrari]
 
https://www.lindipendente.online/20...rinnova-il-memorandum-di-intesa-con-la-libia/
3 NOVEMBRE 2022

È scattato ieri il rinnovo automatico del memorandum Italia-Libia, l’intesa tra i due Paesi siglata per la prima volta nel 2017 dall’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e l’omologo libico Fayez Mustafa Serraj. L’art. 8 di tale documento recitainfatti che questo “ha validità triennale e sarà tacitamente rinnovato alla scadenza per un periodo equivalente, salvo notifica per iscritto di una delle due Parti contraenti, almeno tre mesi prima della scadenza del periodo di validità”. Una clausola che è appunto scattata ieri, nonostante gli appelli e le proteste delle associazioni umanitarie, l’ultima delle quali si è svolta lo scorso 26 ottobre a Roma e ha visto la partecipazione di 40 associazioni oltre che della società civile.

Attraverso tale accordo l’Italia si impegna a fornire alla Libia supporto finanziario e tecnico per contrastare la migrazione verso la nostra penisola. Da quando è stato siglato il Memorandum ad oggi sono circa 100 mila le persone che sono state riportate in Libia, dopo essere state intercettate dalla Guardia Costiera Libica nelle acque del Mediterraneo centrale. Tuttavia diversi punti di tale accordo sono sempre stati mantenuti oscuri dal governo italiano, a partire dall’entità dei finanziamenti e finendo con l’indicazione specifica di chi siano gli effettivi beneficiari delle donazioni di denaro e mezzi. Tanto per fare un esempio, l’ultima donazione risale allo scorso ottobre, quando l’Italia ha ceduto al Paese nordafricano 14 navi veloci da impiegare per il recupero e il rimpatrio dei migranti in mare da parte delle forze libiche, per un valore di 6,65 milioni di euro. Dalla documentazione manca, tuttavia, un’indicazione precisa rispetto a chi beneficerà di tale donazione, dal momento che non viene fatto riferimento né all’Amministrazione generale per la sicurezza costiera (GAS) né alla Direzione per la lotta all’immigrazione illegale (DCIM), ma solamente a una generica “polizia libica”.

Va tenuta presente, inoltre, la frammentazione della situazione politica libica, spaccata tra il Governo di Unità Nazionale (GNU) di Abdul Hamid Dbeibah e il Governo di Stabilità Nazionale (GNS) di Fathi Bashagha, che impedisce di fatto la conduzione unitaria del Paese. Non va dimenticato, inoltre, che le prove materiali prodotte negli anni delle torture atroci cui i migranti sono soggetti una volta finiti nelle mani della Guardia Costiera Libica e riportati in Libia si sprecano, come testimonia uno dei video diffusi dalla ONG Refugees in Libya.

 
Iran e Arabia Saudita hanno siglato uno storico accordo di pace e cooperazione

Potrebbe essere uno storico accordo quello raggiunto a Pechino, su intermediazione cinese, tra Iran e Arabia Saudita, mettendo fine a sette anni di forte tensione. Non è un fulmine a ciel sereno, infatti, le trattative erano già avviate da tempo. L’accordo tra i due Paesi potrebbe innescare un brusco cambiamento nello scacchiere geopolitico medio-orientale e generare forti ripercussioni anche su quello globale, segnando di fatto un allontanamento dello sceiccato di Riyad da Washington e Tel Aviv. Il patto è senz’altro una vittoria diplomatica della Cina e adesso i due Paesi firmatari sembrano già muoversi sulla scia di quello che potrebbe segnare un nuovo corso politico per l’area mediorientale.

I governi di Iran e Arabia Saudita hanno rilasciato un comunicato congiunto sull’accordo, sul quale Pechino farà da garante. Alla presenza di Wang Yi, diplomatico cinese di alto rango, erano presenti il segretario del Consiglio supremo di sicurezza nazionale iraniano, Ali Shamkhani, e il consigliere per la sicurezza nazionale saudita, Musaad bin Mohammed al-Aiban. La dichiarazione congiunta stabilisce come prima cosa il ristabilimento dei legami e la riapertura delle rispettive ambasciate entro due mesi.

«Rimuovere le incomprensioni e le visioni orientate al futuro nelle relazioni tra Teheran e Riyadh porterà sicuramente a migliorare la stabilità e la sicurezza regionale, nonché ad aumentare la cooperazione tra le nazioni del Golfo Persico e il mondo dell’Islam per gestire le sfide attuali», sono state le parole di Shamkhani. Da parte saudita sono arrivati i ringraziamenti ad Iraq e Oman, per aver partecipato al processo di mediazione; al-Aiban ha poi detto: «Mentre apprezziamo ciò che abbiamo raggiunto, speriamo che continueremo a continuare il dialogo costruttivo». Gli incontri tra Arabia Saudita e Iran sono iniziati nel 2021, ospitati e con l’intermediazione dell’Iraq. Ufficialmente, i rapporti tra i due Paesi si erano interrotti nel 2016 dopo che le sedi diplomatiche saudite furono assalite da manifestanti che protestavano per l’esecuzione di alcuni sciiti avvenuta circa un mese prima a Riyad.

Ma si trattò di un pretesto. Le tensioni erano alte già dal 2011, anno di conflitti e sconvolgimenti politici per il mondo arabo. Questo periodo è stato definito da F. Gregory Gause come “guerra fredda del Medio Oriente”, i cui contendenti principali sono Arabia Saudita e Iran, in lotta per l’egemonia della regione. Come già spiegato in occasione del Monthly Report numero 16, del novembre scorso, quello tra Arabia Saudita (sunnita e wahabita) e Iran (sciita) è uno scontro settario e religioso che sul piano pratico si traduce in un conflitto che riguarda interessi economici e geopolitici. La guerra è stata definita fredda, nel senso che non vi è mai stato uno scontro diretto, quanto piuttosto l’utilizzo delle guerre per procura. Anche le reciproche e inconciliabili alleanze hanno influito sulla definizione di “guerra fredda”: gli Stati Uniti e il mondo Occidentale sostengono l’Arabia Saudita e i suoi alleati regionali mentre l’Iran è sostenuto da Cina e, soprattutto, Russia. E se allarghiamo lo sguardo oltre il Medio Oriente, comprendendo nell’analisi anche il Vicino Oriente, la questione si fa ancor più complessa poiché vi è anche la posizione di peso di Israele, anch’esso Paese alleato dell’Occidente, in particolar modo degli Stati Uniti. In questo triangolo geopolitico per l’egemonia di Vicino e Medio Oriente (il cosiddetto Medio Oriente allargato), ogni nazione è nemica delle altre e solo alcune amicizie in comune permettono periodi di minor contrasto tra due delle parti in conflitto; questo è stato motivo di rapporti più distesi tra i Paesi del Golfo, sotto la guida saudita, e Israele. In merito, come non ricordare gli Accordi di Abramo, negoziati a partire dal 2019 e firmati nel 2020 negli Stati Uniti, da parte di Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, per la normalizzazione dei rapporti tra questi ultimi due con Israele. Sebbene i sauditi si siano sempre mostrati restii a far parte ufficialmente degli accordi con Israele, è chiaro che li abbiano avallati ufficiosamente, permettendo agli alleati, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, di siglarli.

Con lo scoppio della guerra aperta in Ucraina e la richiesta occidentale di sanzionare Mosca tagliandola fuori dal consesso globale, qualcosa è cambiato. L’Arabia Saudita ha rigettato la richiesta degli Stati Uniti di non tagliare la produzione di greggio in seno all’OPEC ed ha iniziato a commerciare il petrolio con la Cina, miglior acquirente del petrolio saudita. Nell’occasione, dalla Casa Bianca, Biden ha accusato l’OPEC di «allinearsi con la Russia», avvertendo l’Arabia Saudita che dovrà affrontare le conseguenze della decisione di tagliare la produzione che favorirebbe Russia e Iran.

Nel frattempo, da Israele viene fatto sapere che il tentativo di normalizzare i suoi legami con l’Arabia Saudita non sarà influenzato dal riavvicinamento di Riyadh con l’Iran. Gli Emirati Arabi Uniti (EAU), per bocca del Ministro degli Esteri, Abdullah bin Zayed Al Nahyan, hanno accolto con favore l’accordo raggiunto tra Arabia Saudita e Iran secondo cui i due paesi ripristineranno le relazioni diplomatiche. «La ripresa delle relazioni tra Arabia Saudita e Iran è un importante passo avanti per la stabilità e la prosperità regionale» sono state le parole del Ministro. Gli EAU sembrano voler intraprendere l’avvio di un riposizionamento, alla luce del nuovo accordo, accusando Israele per la sua politica definita terrorista e anti-araba nonché minacciando di porre fine al primo accordo di libero scambio posto in essere tra Israele e un Paese arabo, siglato nel maggio dello scorso anno.

Sebbene si debba attendere gli sviluppi e il dettaglio di tale accordo, quest’ultimopotrebbe senz’altro ridisegnare le politiche internazionali e gli interessi strategici di una regione molto importante per gli equilibri geopolitici attuali.

[di Michele Manfrin]
 

"Il grande disegno di Kissinger": 50 anni fa i petrodollari nascevano in questo modo

di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico



Come è noto, l’Europa distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale riuscì a rimettersi in piedi grazie soprattutto agli aiuti forniti dagli Stati Uniti – in cambio della rinuncia alla sovranità politica da parte degli Stati del “vecchio continente” – nell’ambito dell’ormai celeberrimo Piano Marshall, il quale impedì che le prospettive di ricostruzione si infrangessero sui vincoli della bilancia dei pagamenti di ogni singolo Paese. Eppure, dal punto di vista strettamente economico, la linea operativa portata avanti da Washington produsse ricadute molto più positive sull’Europa e sul Giappone che sugli stessi Stati Uniti, i quali, fungendo anche da mercato di sbocco per le merci prodotte in Europa, cominciarono a fare fatica a realizzare tassi di crescita analoghi a quelli conseguiti dalla Comunità Economica Europea (il cui export, nel 1960, fu per la prima volta superiore a quello statunitense) e si videro costretti a far leva sull’enorme spazio di manovra garantito dal ruolo di valuta di riferimento di cui era titolare il dollaro per emettere moneta in misura tale da finanziare il proprio deficit, che stava cominciando a crescere in maniera preoccupante.


CONVERTIBILITA' DI "FACCIATA"

Il consigliere economico del presidente Charles De Gaulle, Jacques Rueff, si era accorto di come la convertibilità tra dollaro ed oro fosse divenuta ormai soltanto “di facciata”, in quanto il dollaro aveva ormai acquisito lo status di moneta fiduciaria solo formalmente ancorata ad un valore fisico reale. Rueff fece quindi notare a De Gaulle come questo stato di cose fosse garante di pesanti squilibri valutari e consentisse agli Stati Uniti di accumulare deficit crescenti nella bilancia commerciale senza pagarne il prezzo corrispettivo.

E mentre il generale valutava il da farsi, cominciava a verificarsi un incremento costante delle conversioni di dollari in oro da parte dei detentori del metallo prezioso, che con il loro operato presero ad erodere le riserve auree statunitensi. Ciò indusse Washington ad esercitare forti pressioni sui propri alleati (Paesi europei e Giappone), dai quali riuscì infine ad ottenere la ratifica, nel 1961, di un trattato che limitava il diritto alla conversione ai soli dollari depositati nelle rispettive banche centrali. La Repubblica Federale Tedesca, la quale aveva sviluppato il proprio sistema industriale a livelli tali da superare in competitività il concorrente statunitense, stava tuttavia fronteggiando una forte pressione al rialzo sul marco che costrinse la Bundesbank ad acquistare grandi quantità di dollari sui mercati valutari per mantenere le parità prestabilite. In breve tempo la stessa Bundesbank, vista e considerata l’inefficacia dei propri interventi di fronte alle speculazioni a favore della moneta tedesca, fu però costretta a ritirarsi per lasciar fluttuare il valore del marco, il quale cominciò a subire una serie di rivalutazioni che misero parzialmente in ombra il prestigio e la centralità del dollaro, assestando un colpo molto duro al vacillante sistema di Bretton Woods. Così, dopo ben tre recessioni (1953/1954, 1957/1958, 1960/1961), le turbolenze generate dalla politica adottata da De Gaulle e la prorompente ascesa tedesca, Washington decise di portare fino in fondo il ‘keynesismo militare’, varando un robusto piano di riarmo nucleare in previsione di un’escalation in Estremo Oriente, dove i guerriglieri nord-vietnamiti erano riusciti a scacciare i francesi e si apprestavano a riunificare il Paese portandolo nell’orbita di Mosca.


VARIABILE VIETNAM

Sotto il profilo economico, invece, gli Stati Uniti erano preoccupati per la crescente popolarità che le tesi comuniste stavano conoscendo in buona parte dei Paesi del Terzo Mondo, i quali avrebbero dovuto continuare a fornire materie prime a costi sufficientemente bassi da assicurare un consistente margine di guadagno alle multinazionali Usa senza inceppare la crescita economica europea e giapponese. L’intervento diretto statunitense in Vietnam, ordinato dal presidente Lyndon Johnson, comportò un ulteriore aumento delle spese militari (che tornarono a superare il 10% del Pil) che il governo decise di non finanziare attraverso l’inasprimento della pressione fiscale. Le continue difficoltà incontrate dall’economia statunitense finirono rapidamente per entrare in rotta di collisione con i costi del conflitto in Vietnam e con gli sproporzionati consumi del popolo nordamericano, provocando un crescente disavanzo con l’estero che raggiunse i 36 miliardi di dollari nel 1967, a fronte del progressivo assottigliamento delle riserve auree, che passarono da oltre 20 a 12 miliardi di dollari nell’arco di un decennio. Il governo di Parigi propose allora di rivalutare l’oro, incassando lo sdegnoso rifiuto da parte di Washington e Londra (poiché anche la sterlina, che rappresentava il secondo caposaldo del sistema scaturito da Bretton Woods, avrebbe subito una forte svalutazione in seguito ad una manovra simile).

Per tutta risposta, De Gaulle annunciò l’imminente revoca del trattato del 1961 ed iniziò immediatamente a convertire in oro (il cui valore al mercato di Londra schizzò letteralmente verso l’alto) tutte le riserve di valuta statunitense depositate presso la Banque de France. Londra cedette quindi alle pressioni internazionali accettando di svalutare del 14% la sterlina e contribuendo in tal modo ad incrementare pesantemente le richieste di conversione in oro della valuta statunitense. Nel marzo del 1968, Johnson, conscio dell’impossibilità statunitense di soddisfare tali richieste, dispose, di concerto con Londra, la sospensione temporale del mercato dell’oro e ordinò successivamente di trasferire le residue riserve auree nei forzieri di Fort Knox. Alcuni economisti avevano allora suggerito di allentare i controlli sulle esportazioni di capitale allo scopo di favorire la conquista del mercato europeo da parte delle multinazionali americane, ma ciò avrebbe ulteriormente aggravato lo stato della bilancia dei pagamenti. In altre parole, «non esistono – annotava Henry Kissinger, fresco di nomina a capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale – accorgimenti monetari attraverso i quali gli altri Paesi concederanno agli Stati Uniti la completa libertà di fare spese estere nella misura da essi desiderata, siano esse per difesa, aiuti, investimenti o importazioni. Anche sotto un regime di limitata flessibilità, che aiuterebbe entro certi limiti, gli Stati Uniti sarebbero soggetti a vincoli sia interni sia internazionali, se il dollaro dovesse tangibilmente deprezzarsi sui mercati del cambio in seguito a eccessive spese estere». Per le alte sfere statunitensi, il problema consisteva dunque nell’instaurare un sistema che permettesse agli Usa di effettuare investimenti esteri in misura illimitata, scaricando sull’estero le relative ripercussioni.


IL PIANO WERNER E L'UE

Nel frattempo la Comunità Europea stava implementando il cosiddetto ‘piano Werner’, finalizzato a realizzare la completa Unione Monetaria Europea (Uem) entro e non oltre l’arco temporale di un decennio. Vennero così ridotti i margini di oscillazione (dallo 0,75% allo 0,60%) consentiti rispetto alla parità tra monete, ma la Germania si vide subito costretta a lasciar fluttuare il marco per effetto del massiccio afflusso di dollari presso la Bundesbank. Nonostante questo inquietante segnale premonitore, l’Europa, la cui industria ormai ricostruita era riuscita a colmare il divario con quella statunitense, rappresentava comunque un serio concorrente per gli Usa, specialmente grazie all’Uem che, secondo alcun autorevoli economisti come Arthur Bloomfield, avrebbe incrementato il potere contrattuale europeo in campo monetario, determinato una riduzione dei flussi di capitale tra gli Usa e la Comunità Europea e ridimensionato il ruolo del dollaro come riserva valutaria internazionale. Queste difficoltà dovute alle mosse strategiche europee andarono a sovrapporsi a quelle segnalate da Kissinger, costringendo il governo statunitense a prendere in considerazione l’ipotesi di ripudiare univocamente gli accordi di Bretton Woods, specialmente in seguito a un documento della Federal Reserve (Fed) in cui si sottolineava che: «se prendiamo l’iniziativa, coglieremo di sorpresa gli altri Paesi, e in particolare quelli della Comunità Europea, prima che siano in grado di elaborare una posizione coordinata per affrontare la crisi, e avremo maggiori possibilità di prevalere nei negoziati successivi».


FINE DELLA CONVERTIBILITA'

Il colpo di spugna fu effettuato il 15 agosto del 1971, con la sospensione della convertibilità del dollaro in oro e la trasformazione del dollaro in moneta ‘fluttuante’, il cui valore sarebbe stato determinato dal rapporto tra domanda e offerta. Come conseguenza, il mercato internazionale piombò nel caos più assoluto, spingendo i ministri del Tesoro e i governatori delle Banche Centrali delle nazioni appartenenti al G-10 a riunirsi presso la sede dello Smithsonian Institute nel tentativo di salvare l’agonizzante Gold Exchange Standard attraverso la fissazione di nuovi rapporti di parità. La sproporzione tra dollari circolanti e oro detenuto dalla Fed era però tale da richiedere un aumento del prezzo dell’oro del 400%, cosa che avrebbe minato definitivamente la già vacillante fiducia internazionale nei confronti del dollaro. Gli Stati Uniti, nient’affatto disposti ad accettare questa soluzione, fecero valere il proprio peso politico per far naufragare tutte le proposte avanzate dai rappresentanti stranieri presenti a quella riunione, i quali giunsero addirittura (con l’eccezione di De Gaulle) ad approvare una clausola che prevedeva il divieto di stabilire qualsiasi limite temporale alla decisione americana, che venne poi (1977) definitivamente ‘scolpita su pietra’ grazie al riconoscimento del principio di inconvertibilità assoluta del dollaro, valido e applicabile tanto nei confronti delle valute alternative quanto dei vari metalli preziosi. Fu la fine di Bretton Woods. Si riuscì solo a raggiungere un’intesa in base alla quale il dollaro si svalutò dell’8%, innescando automaticamente i meccanismi di rivalutazione di marco, yen e franco svizzero. Nel 1972, la pubblicazione dei dati relativi ai deficit statunitensi mosse una poderosa ondata speculativa contro il dollaro guidata proprio dalle grandi banche statunitensi che, unitamente alle dinamiche di sganciamento dall’oro, provocò una svalutazione della divisa statunitense pari a circa il 40%. Dal momento che era proprio il dollaro a regolare il mercato petrolifero mondiale, il suo deprezzamento avrebbe ridimensionato gli introiti dei Paesi produttori e del cartello oligopolistico delle cosiddette “sette sorelle”, spingendo gli Stati esportatori a richiedere valute più stabili del dollaro per i pagamenti delle forniture di petrolio.

L'OPZIONE PETROLIO PER SALVARE IL DOLLARO

Per gli Usa, si trattava di un prospettiva intollerabile, che non a caso fu al centro delle discussioni vertice del Bilderberg Club tenutosi in Svezia nel 1973. Tema centrale della riunione era la questione politico-economica europea, con particolare riferimento alla stima delle possibili ricadute sui rapporti tra Stati Uniti ed Europa (incrinati soprattutto per effetto dell’unilateralismo promosso dal duo Nixon-Kissinger) che avrebbe potuto provocare l’adozione di una politica energetica e di sicurezza di carattere comunitario da parte del “vecchio continente”. Secondo documenti resi pubblici molti anni dopo, nel corso dell’incontro, cui presero parte ospiti illustri (come Lord Richardson e Lord Greenhill della British Petroleum, Robert O. Anderson dell’americana Atlantic Ritchfield Corporation, Eric Roll della Warburg, George Ball della Lehman Brothers, David Rockefeller, Zbigniew Brzezinski, Arthur Dean, Giovanni Agnelli, ecc.), era stata prospettata la possibilità di favorire l’aumento esponenziale del prezzo del petrolio anche a costo di sacrificare la crescita economica mondiale, poiché ciò avrebbe consentito di rafforzare il dollaro, saldare il legame tra valuta Usa e petrolio e affidare ad alcune banche anglo-americane accuratamente selezionate (Chase Manhattan Bank, Citibank, Barclays, Lloyds, ecc.) il compito di gestire il conseguente processo di riciclaggio dei petrodollari, consolidando lo strapotere degli istituti bancari di Londra e New York e del potente cartello oligopolistico del petrolio.

L’evento destabilizzante in grado di produrre lo scenario prefigurato dal Bilderberg Club si concretizzò il 6 ottobre del 1973, quando Siria ed Egitto entrarono in conflitto con Israele per la riconquista delle regioni del Golan e del Sinai occupate dallo Stato ebraico nel 1967. La Guerra dello Yom Kippur apparve fin dall’inizio come un conflitto piuttosto “strano”, in quanto preceduto da chiari segnali di allarme provenienti dall’Egitto, che sotto la presidenza di Anwar al-Sadat aveva dapprima espulso il personale tecnico sovietico, compromettendo un’alleanza che aveva garantito al Paese aiuti di natura sia civile che militare, e successivamente rilasciato dichiarazioni e organizzato manovre militari il cui senso profondo era difficilmente equivocabile. L’intelligence israeliana informò Tel Aviv dell’imminenza dell’attacco egiziano, ma ciò non impedì alle forze siriano-egiziane di colpire piuttosto duramente l’aviazione e le forze di terra israeliane.

Alcuni analisti tendono a giustificare la sbalorditiva inadeguatezza militare dimostrata da Israele in quell’occasione con motivazioni di carattere eminentemente politico, secondo cui fu in realtà l’intervento diretto di Kissinger a convincere i dirigenti di Tel Aviv a tenere un profilo artificiosamente passivo di fronte alla minaccia incombente, dietro il ricatto del blocco dei finanziamenti che gli Usa concedevano (e continuano a concedere) annualmente allo Stato ebraico. Mentre conflitto infuriava, Arabia Saudita ed Abu Dhabi decretarono il blocco degli approvvigionamenti di idrocarburi destinati agli Stati Uniti e a tutti i Paesi accusati di sostenere Israele, ma le grandi compagnie petrolifere si avvalsero della collaborazione dello Shah di Persia Reza Pahlavi per aggirare l’embargo e garantire il regolare afflusso di petrolio. Quando Israele riuscì poi a rovesciare la situazione e ad avere la meglio sui propri avversari, grazie anche al forte sostegno che gli Usa avevano cominciato ad accordare, l’Opec decretò un primo aumento del prezzo di riferimento dell’oro nero da 3,01 a 5,11 dollari al barile, prima di procedere a una seconda rivalutazione l’anno seguente, che fece toccare al greggio quota 11,65 dollari per barile; un aumento complessivo del 400% circa, più che sufficiente a compensare la svalutazione subita dal dollaro. Secondo gli stessi analisti che hanno parlato di ‘passività’ artificiosa israeliana pilotata dagli Stati Uniti, questo rincaro petrolifero rappresenterebbe il punto d’approdo dell’ambiziosissima e complessa operazione orchestrata dietro le quinte dal presidente Richard Nixon e dal segretario di Stato Henry Kissinger, dalle compagnie petrolifere americane, dagli sceicchi arabi e dallo Shah di Persia Reza Pahlavi nel corso della riunione del Bilderberg Club.

Lo shock si rivelò talmente distruttivo da inaugurare una profonda e drammatica fase recessiva, con fallimenti aziendali a catena, aumento della disoccupazione e innalzamento dei tassi di inflazione, che colpì, seppur parzialmente, anche gli stessi Stati Uniti (Ford e General Motors, assieme a tante altre compagnie dipendenti dal petrolio, furono costrette a licenziare centinaia di migliaia di lavoratori). Gli Usa ebbero tuttavia modo di conoscere un incremento dei consumi energetici del 20% a fronte di un crollo del 25% registrato a livello planetario. Le necessità economico-finanziarie statunitensi condensate nella politica estera condotta da Herny Kissinger gettarono le basi affinché presso l’intero Medio Oriente si instaurasse un clima di guerra permanente e i Paesi del Terzo Mondo venissero progressivamente risucchiati nella crisi del debito che esplose in maniera dirompente negli anni ’80.

Da questo grande disegno ideato da Kissinger trassero invece beneficio, oltre alle già citate banche commerciali, le grandi imprese multinazionali Usa (sulle 100 più potenti del mondo, ben 27 erano di origine statunitense verso la fine degli anni ’90), che grazie al nuovo status ottenuto dalla divisa statunitense riuscirono a raddoppiare gli investimenti esteri da 7,5 a 14,2 miliardi di dollari nell’arco del quinquennio 1970-1975. Grandi vantaggi spettarono anche alle grandi compagnie petrolifere, le quali ebbero la possibilità di moltiplicare esponenzialmente i propri profitti e di trovare anche la legittimazione politica degli alti prezzi per avviare una serie di estrazioni off-shore nel Mare del Nord e nelle gelide acque territoriali dell’Alaska.
 

Lo spettro del conflitto termonucleare globale durante la Guerra fredda​

Una rassegna storica e tecnica delle previsioni, le strategie e le minacce degli anni in cui l’impensabile è stato pensato.​

Roberto Paura giornalista scientifico e culturale, direttore della rivista "Futuri" e vicedirettore di "Quaderni d'Altri Tempi", collabora con diverse testate. Ha conseguito un dottorato in comunicazione della scienza all'Università di Perugia.

Nel luglio 1985, in risposta a un colpo di stato promosso dai sovietici a Belgrado, le forze americane invadono la Jugoslavia. In Unione Sovietica il Politburo – che vede la sua sfera d’influenza scricchiolare dopo che la Corea del Nord e il Vietnam hanno intrapreso processi di liberalizzazione e i paesi del Patto di Varsavia sono squassati da movimenti di protesta – decide di rispondere mobilitando l’Armata Rossa e invadendo l’Europa attraverso la Germania ovest, la Norvegia e la Turchia. Ben presto, tuttavia, la forza d’invasione convenzionale si scontra con una dura opposizione e i sovietici non riescono a spingersi oltre l’occupazione dei Paesi Bassi. Frustrata dallo stallo, Mosca lancia un attacco nucleare su Birmingham, a cui gli americani rispondono distruggendo Minsk. Poco dopo, un colpo di stato da parte dei nazionalisti ucraini rovescia il governo sovietico e mette fine alla guerra.

Nel 1988 invece, per prevenire il dispiegamento di una rete intelligenti di satelliti anti-missili balistici in orbita da parte degli Stati Uniti, l’Unione Sovietica fa esplodere sei bombe atomiche sopra i cieli americani, mettendone a tappeto le apparecchiature elettroniche. Prima che il suo aereo precipiti, il presidente statunitense riesce a dare l’ordine di una rappresaglia massiccia che distrugge le principali città sovietiche, inclusa Mosca. L’URSS reagisce con un altro lancio di missili balistici che spazza via le principali città della costa est, tra cui Washington e New York. Al termine di questo devastante scambio, durato appena 36 minuti, le vittime si contano in decine di milioni, mentre i paesi europei decidono di dichiarare la neutralità sulla base di un accordo segreto precedentemente siglato da Francia, Regno Unito e Germania ovest: la loro scelta mette fine all’escalation nucleare.

Questi due scenari provengono da due diverse opere apparse rispettivamente nel 1978 e nel 1984: la prima, La terza guerra mondiale, scritta da Sir John Hackett, fu uno dei maggiori successi editoriali di quell’anno, e si basava su considerazioni dei principali esperti di strategia nucleare dell’epoca; la seconda, Warday, rientra nel genere della “docufiction”: i due autori, Whitley Strieber e James Kunetka, ricostruiscono sotto forma di inchiesta le vicende che cinque anni prima hanno scatenato la terza guerra mondiale, attraverso interviste, documenti governativi e altri elementi fittizi. Ma fu nel 1983 che uscì la più spaventosa ricostruzione di un’ipotetica guerra nucleare: The Day After, il film prodotto dall’emittente americana ABC e diretto da Nicholas Meyer, fu visto da quasi cento milioni di cittadini statunitensi generando un tale sgomento che lo stesso Ronald Reagan ne fu atterrito al punto da abbandonare la sua spavalderia e ammettere che “una guerra atomica non si può vincere e non si deve mai combattere”.

Ripercorrere i dibattiti e gli scenari di un’epoca che pensavamo ormai passata può tornare di estrema utilità per il presente, soprattutto se vogliamo assicurare alla nostra civiltà un futuro.
Anche i suoi predecessori erano giunti alla stessa conclusione, benché le pressioni perché gli Stati Uniti si lanciassero in un conflitto nucleare con l’Unione Sovietica non mancassero. Per tutto il corso della Guerra fredda, americani e sovietici si prepararono alla terza guerra mondiale mettendo a punto strategie, scenari e piani d’azione che includevano un uso massiccio della bomba atomica, spingendo fino in fondo il pedale dell’acceleratore nella corsa agli armamenti e saturando il mondo con un arsenale sufficiente a spazzare via la vita umana dalla faccia della Terra.

Eppure, la Guerra fredda si concluse senza che quel conflitto distruttivo che tutti si aspettavano scoppiasse. Se ciò accadde fu anche grazie all’intenso dibattito sulla strategia nucleare, la cui evoluzione oscillò continuamente tra possibilismo e intransigenza, tra la possibilità di fare della bomba atomica un’arma come le altre nel vasto arsenale delle grandi potenze e la convinzione che si trattasse, all’opposto, di un’arma troppo terribile per essere usata. Lo scorso giugno sulla rivista Foreign Policy un articolo di Michael Auslin, ricercatore della Stanford University, ha suggerito che gli Stati Uniti debbano re-imparare la strategia nucleare, se vorranno riuscire a disinnescare la minaccia di una Terza guerra mondiale. Ripercorrere i dibattiti e gli scenari di un’epoca che pensavamo ormai passata può quindi tornare di estrema utilità per il presente, soprattutto se vogliamo assicurare alla nostra civiltà un futuro.

First strike
Nella seconda metà degli anni Quaranta gli Stati Uniti erano l’unica nazione al mondo dotata della bomba atomica; tutti sapevano che l’Unione Sovietica aveva piani per svilupparla, ma nessuno era in grado di dire quanto tempo sarebbe occorso per restaurare l’equilibrio di potenza. I più ottimisti parlavano degli anni Sessanta. I più pessimisti ritenevano, all’opposto, che l’URSS fosse molto avanti e che per questo bisognasse fermarla prima che scatenasse un conflitto atomico su scala mondiale. Tra i più insospettabili sostenitori di questa tesi figurava il pacifista Bertrand Russell, secondo il quale era preferibile nuclearizzare i sovietici prima che si dotassero a loro volta della bomba per evitare che arrivassero a soggiogare l’Europa e poi il mondo intero (nel 1955 Russell avrebbe firmato insieme ad Albert Einstein il celebre manifesto per chiedere il disarmo globale).

Più naturale era la determinazione di generali come Leslie Groves, che aveva diretto il progetto Manhattan e visto per primo di cosa era capace la bomba atomica, e soprattutto Curtis LeMay, che dopo aver comandato tutti i maggiori bombardamenti aerei in Europa e Giappone aveva assunto nel 1948 la guida del neonato Strategic Air Command (SAC), con l’obiettivo di trasformarlo nel comando centrale della guerra atomica.


LeMay era un convinto sostenitore della necessità di dotare l’Air Force del potenziale nucleare sottraendolo alla marina: in effetti, nel 1946 l’operazione Crossroads, che testò le potenzialità della bomba nell’atollo di Bikini su una flotta di navi, mostrò che l’arma atomica era poco efficace su bersagli sparsi su un’area molto grande, dato che la maggior parte delle navi (schierate in classiche posizioni di battaglia) rimase illesa; LeMay ne approfittò per enfatizzare la necessità di usarla non in contesti di teatro – ossia in battaglie terrestri o navali – ma contro le grandi città nemiche. E per distruggere le grandi città nemiche occorreva disporre di grandi flotte di bombardieri in grado di trasportare le pesanti bombe atomiche fin sull’obiettivo. Il piano Halfmoon, approvato nel 1948 dallo Stato maggiore USA, prevedeva dapprima 50, poi 133 bombe da sganciare sull’Unione Sovietica, otto delle quali destinate a Mosca. Quando, l’anno successivo, i sovietici eseguirono con successo il primo test atomico, lasciando pressoché di stucco gli americani, che non si aspettavano un così rapido ripristino dell’equilibrio di forza, il piano Halfmoon divenne il perno operativo di un possibile first strike, l’attacco nucleare da scatenare nel caso in cui l’Armata Rossa avesse invaso l’Europa occidentale – prospettiva considerata talmente imminente che il piano era stato redatto in emergenza – senza che le forze convenzionali alleate riuscissero a contrastarne l’avanzata.

Era questo lo scenario su cui si basava l’idea di una guerra combattuta attraverso le armi nucleari tra le due superpotenze. Per tutta la Guerra fredda, le forze convenzionali della NATO schierate in Europa occidentale furono in inferiorità numerica rispetto alle divisioni sovietiche e un attacco generale orientato all’invasione difficilmente avrebbe avuto altro esito – secondo gli strateghi dell’Alleanza atlantica – di una vittoria totale di Mosca. L’arsenale nucleare americano doveva servire a impedire una simile vittoria, attraverso la minaccia di un contrattacco devastante, del tipo nation-killing, orientato cioè alla completa distruzione dell’Unione Sovietica. Una simile prospettiva inorridiva il presidente Truman, che pure non aveva esitato a far sganciare le atomiche su Hiroshima e Nagasaki: il piano Halfmoon fu rispedito al mittente con la richiesta di svilupparne un altro che non prevedesse l’uso di bombe atomiche. “Una simile guerra non è un’opzione politica per una persona razionale”, dichiarò Truman nel 1953 nel suo ultimo messaggio al Congresso.

Ben presto, negli anni Cinquanta, divenne chiaro che non tutti i gradi di incertezza di una guerra potevano essere quantificati e quindi trasformati in valori calcolabili nell’ambito di una simulazione.
Ma gli scontri con le forze armate erano destinati a proseguire: dapprima per dirimere la “rivolta degli ammiragli”, ossia la reazione della Marina al progetto di LeMay di porre gli ordini atomici sotto la gestione del SAC e quindi dell’aviazione; poi per contrastare l’ambizione dell’Air Force di assumere il controllo diretto degli ordigni sottraendolo alla decisione di ultima istanza sul loro impiego che Truman intendeva riservare al potere civile, fidandosi poco dei vertici delle forze armate che considerava troppo imbevuti di anticomunismo; infine richiamando e destituendo il generale Douglas MacArthur dal comando supremo durante la guerra di Corea, a causa della sua inclinazione a estendere il conflitto alla Cina, sulla base della convinzione – sostenuta da LeMay – che si potesse far uso dell’arsenale nucleare per distruggere le principali città della Corea del Nord e costringere i cinesi a ripiegare.

Massive retaliation
L’irrazionalità di simili progetti fu confermata anche dalle prime simulazioni di guerra al computer. Nello specifico il piano di MacArthur in Corea del Nord fu passato al vaglio del SEAC (Standard Eastern Automatic Computer) in dotazione al governo a Washington: l’oracolo informatico concluse che le conseguenze per l’economia americana sarebbero state disastrose. Negli anni Cinquanta la fucina dei war games divenne la RAND Corporation, acronimo di Research ANd Development (“ricerca e sviluppo”), serbatoio intellettuale al servizio dell’Air Force e delle ambizioni di Curtis LeMay. Vi facevano parte fisici, ingegneri, sociologi, impegnati nello sforzo di rendere “razionale” e “calcolabile” le incertezze della loro epoca; o, per usare le parole di uno dei loro esperti più noti, Herman Kahn, di “pensare l’impensabile”. La guerra nucleare era ovviamente in cima all’elenco di incertezze da domare.

L’armamentario matematico per riuscirci spaziava dall’analisi dei sistemi alla teoria dei giochi fino a un’esotica applicazione di un metodo sviluppato per prevedere il comportamento stocastico delle particelle atomiche, chiamato Monte Carlo per richiamare l’aleatorietà delle roulette del casinò. Ben presto divenne chiaro che non tutti i gradi di incertezza di una guerra potevano essere quantificati e quindi trasformati in valori calcolabili nell’ambito di una simulazione. Alla meglio, osservò ironicamente LeMay, le simulazioni confermavano solo quanto egli già da tempo perorava: che servivano più bombardieri, più bombe, più soldi.

Altri studi giunsero a conclusioni diverse. Per esempio il progetto Vista condotto dal California Institute of Technology agli inizi degli Cinquanta, tra i cui esperti figurava anche Robert Oppenheimer, il “padre” della bomba atomica, suggeriva che fosse possibile sconfiggere le divisioni sovietiche in Europa usando armi nucleari tattiche sul campo, le cosiddette “armi di teatro”, anziché bombardare le città dell’URSS: si sarebbe in tal modo risparmiata la vita ai civili limitando danni e vittime. Il progetto Solarium voluto nell’estate del 1953 dal presidente Dwight Eisenhower, che riunì nel solario della Casa Bianca tre diversi team di consulenti esterni e ufficiali della Difesa per costruire strategie di reazione a un attacco sovietico, condusse il presidente a scartare l’idea di una guerra preventiva. Una stima della CIA richiesta da Eisenhower concludeva che una guerra nucleare avrebbe comportato un totale collasso economico, con due terzi degli americani bisognosi di cure mediche, anche in caso di vittoria. La sua conclusione riecheggiava quella di Truman: “L’unica cosa peggiore di perdere una guerra globale è vincerne una”.

Il generale LeMay non si diede per vinto e suggerì di cambiare strategia: anziché puntare alle città sovietiche, un attacco nucleare avrebbe dovuto prendere di mira gli arsenali nemici e le loro basi aeree e missilistiche, per impedire ogni possibile rappresaglia. Si trattava cioè di progettare un attacco di “controforza” (counter-force) al posto del tradizionale attacco “contro-risorse” (counter-value): ciò avrebbe reso l’eventualità di un attacco preventivo decisamente meno rischiosa, perché il nemico non sarebbe riuscito a lanciare il second strike, l’attacco di rappresaglia. Inoltre, usando una cinica finezza lessicale, si poteva sostenere che un simile attacco non fosse preventivo (preventive) ma pre-eventivo (pre-emptive), vale a dire teso a impedire un evento, in questo caso un first strikesovietico contro gli Stati Uniti: non appena lo Strategic Air Command fosse stato certo dell’imminenza di un attacco nucleare ai danni del territorio americano, sarebbe scattato il blitz controforze per annientare le forze d’attacco nucleare sovietiche prima ancora che si alzassero da terra.

La strategia, tuttavia, non mancava di difficoltà. Perché un attacco di controforza potesse funzionare, occorreva che tutti i bersagli militari nemici venissero distrutti. Se anche solo un bombardiere o un missile balistico fosse sopravvissuto abbastanza da raggiungere il territorio americano e colpire una grande città, le conseguenze sarebbero apparse alla popolazione civile inaccettabili. E tuttavia distruggere una base aerea o un silos missilistico è molto più complicato che distruggere una grande città densamente abitata: richiede enorme precisione e bombardamenti multipli per riuscire a distruggere i depositi spesso costruiti in profondità o al riparo sotto le montagne: si calcolò che per ciascuna base nemica occorressero 4-5 bombe atomiche, costringendo non solo ad aumentare significativamente l’arsenale americano, ma spingendo la corsa agli armamenti lungo una curva esponenziale, dal momento che per ogni nuovo missile costruito dal nemico sarebbe stato necessario costruire un numero di ordigni quattro o cinque volte maggiore. Come conseguenza, in appena cinque anni – tra il 1956 e il 1961 – l’arsenale nucleare americano passò da 4.618 bombe a ben 24.111.

A rendere politicamente credibile l’ipotesi di un impiego dell’arsenale nucleare americano fu il Segretario di Stato di Eisenhower, John Foster Dulles.
A rendere politicamente credibile l’ipotesi di un loro impiego fu il Segretario di Stato di Eisenhower, John Foster Dulles: pur consapevole quanto il suo presidente della necessità di usare l’atomica a scopo dissuasivo anziché operativo, vale a dire come deterrente, Dulles fu tra i primi a porsi il problema di come rendere tale deterrente credibile ed evitare che l’URSS lo prendesse per un bluff. Secondo la nuova concezione strategica americana definita “New Look” e presentata nel gennaio 1954 da Dulles in un discorso al Council on Foreign Relations di Washington, gli USA avrebbe dovuto “basarsi in primo luogo su una grande capacità di risposta immediata” contro ogni atto ostile da parte dell’URSS attraverso una rappresaglia massiccia (massive retaliation): ciò implicava che un attacco nucleare non si sarebbe verificato solo in caso di attacco diretto agli Stati Uniti, ma anche di fronte a episodi considerati inaccettabili come, per esempio, il tentativo dei sovietici di prendere Berlino. Si trattava di una strategia estremamente rischiosa, tipicamente definita di brinkmanship, ossia giocata sull’orlo del precipizio.

Finite deterrence
Tra coloro che non erano affatto convinti della bontà di una simile strategia uno dei più influenti fu Paul Nitze, che aveva lavorato nella finanza prima di passare alla consulenza politica nel secondo dopoguerra, divenendo uno dei più ascoltati consiglieri di Truman e membro del National Security Council, l’organo deputato a definire la politica di sicurezza nazionale americana. Qui nel 1957 Nitze fu tra i principali redattori del cosiddetto rapporto Gaither (dal nome del presidente del comitato di studi preposto alla sua definizione, Horace Gaither), che stimava imminente il sorpasso della capacità militare sovietica su quella americana, superando del 100% la spesa militare USA e dotandosi di un arsenale di missili balistici intercontinentali (ICBM) in grado di rendere del tutto obsoleti i bombardieri dell’Air Force.

Anche se le conclusioni principali del rapporto – tra cui l’avvio di un programma nazionale per la costruzione di bunker antiatomici per prepararsi all’attacco sovietico – furono respinte da Eisenhower, che le riteneva fondate su ipotesi fantasiose (e in questo aveva ragione), il rapporto Gaither metteva soprattutto in discussione la fattibilità dell’approccio della rappresaglia massiccia. Che senso aveva minacciare l’URSS di un attacco nucleare devastante dal momento in cui i loro arsenali erano ormai in grado di sferrare un letale second strike a prescindere da quanti sforzi fossero compiuti nel conservare la supremazia nucleare? Il problema che il rapporto Gaither presentava riguardava l’asimmetria della deterrenza o, come lo definì il generale francese André Beaufre, “il potere livellatore dell’atomo”. Nel suo saggio Dissuasion et Stratégie (1964, in italiano tradotto come Difesa della bomba atomica), Beaufre lo spiega così:



È esatto affermare che due avversari, di cui uno, ad esempio, abbia una capacità di reazione efficace del 90 per cento (capacità effettiva di distruzione del 90 per cento delle risorse del suo avversario) e l’altro abbia una capacità di reazione effettiva del 15 per cento (capacità effettiva di distruzione del 15 per cento delle risorse del suo avversario) si trovino in una situazione di reciproca dissuasione (…). Il fenomeno comporta in effetti un grado d’equilibrio che sarebbe stato inconcepibile, dato queto rapporto di forze con mezzi tradizionali.


Oggi le potenze nucleari sono a loro agio con questo concetto, se si pensa sia alla capacità della Corea del Nord di esercitare un potere dissuasivo nei confronti degli Stati Uniti e della Corea del Sud con un arsenale assai ridotto ma in grado di sopravvivere a un first strike grazie alla dislocazione dei missili su sottomarini e treni in movimento, sia soprattutto alla politica nucleare della Cina, che una volta dotatasi della bomba atomica decise di non seguire USA e URSS in una sfrenata corsa agli armamenti ma di limitarsi a una capacità di deterrenza credibile. Questo principio della “deterrenza limitata” (finite deterrence) o “deterrenza minima”, rifiutato da Mosca, fu promosso invece attivamente da alcuni ambienti della Difesa USA a partire dalla fine degli anni Cinquanta, quando iniziarono a entrare in servizio i missili Polaris lanciabili da sottomarini: la loro capacità di sopravvivere a un qualsiasi first strike rendeva credibile l’ipotesi della deterrenza limitata.

Ma LeMay vi si oppose strenuamente, sostenendo che gli USA non dovessero combattere la guerra fredda in una situazione di difesa, e il suo successore alla guida del SAC, il generale Thomas S. Power, spinse ancora più in avanti la politica di brinkmanship americana, introducendo l’allerta in volo, vale a dire la pratica di mantenere continuamente in volo tra l’Alaska e il confine con l’URSS un certo numero di bombardieri pronti a portarsi sui rispettivi bersagli e sganciare le bombe atomiche in caso di arrivo del Go code, il segnale inviato dalla valigetta nucleare del presidente.

Il rapporto Gaither funse tuttavia da base per una messa in discussione della dottrina di Dulles fondata sulla rappresaglia massiccia. La complessità della politica internazionale richiedeva un approccio più sfumato nel confronto con la minaccia sovietica rispetto all’unica opzione di una “guerra termonucleare globale” (secondo la celebre espressione del film Wargames), troppo drammatica perché potesse essere sostenuta senza che Mosca rinunciasse alla tentazione di andare a vedere le carte per scoprire il bluff. Il piano operativo di guerra nucleare definito dal SAC, noto come SIOP (acronimo di Single Integrated Operational Plan), era, da questo punto di vista, talmente devastante nelle sue specifiche da risultare inconcepibile per ogni presidente che si succedette alla Casa Bianca, cosicché di fatto fu sempre considerato inattuabile. Il SIOP indicava i 3279 siti in Unione Sovietica, Cina, Corea del Nord e paesi del Patto di Varsavia da colpire, con tanto di altitudine del “punto zero” in cui la bomba sarebbe dovuta esplodere per massimizzare i suoi effetti, valore calcolato da un supercomputer. Il piano prevedeva che a tre giorni dall’attacco sarebbe rimasta uccisa il 54% della popolazione sovietica e il 16% di quella cinese, per un totale di circa 220 milioni di persone, a cui aggiungere le vittime nei giorni e mesi successivi a causa del fallout radioattivo.

Flexible answer
Una delle principali critiche alla dottrina della rappresaglia massiccia era contenuta in un libro del 1957 intitolato Nuclear Weapons and Foreign Policy scritto da un allora giovane studioso dell’Università di Harvard, Henry Kissinger. A suo dire, era necessario ripristinare l’elemento politico nella strategia nucleare e rifiutare il concetto secondo cui la politica termina dove inizia la guerra: era la dottrina della “guerra nucleare limitata” o della “risposta flessibile” (flexible answer), che rifiutava lo scenario di una guerra totale. In caso di un’aggressione sovietica che non consistesse in un attacco nucleare massiccio ma in un evento limitato (per esempio la presa di Berlino) gli USA avrebbero dovuto reagire sì con una rappresaglia, ma limitata, per far capire all’URSS la propria determinazione a rispondere con forza ma evitando l’escalation.

Questa strategia avrebbe portato allo scambio di attacchi nucleari, ma limitati possibilmente alle forze militari avversarie anziché agli obiettivi civili, lasciando in ogni momento lo spazio aperto per negoziare una tregua o una pace. Nei giorni della crisi di Berlino del 1961, scatenata dalla decisione della Germania est di costruire il famigerato muro divisorio tra le due parti della città, le tesi di Nitze e di Kissinger furono determinanti per la definizione di un piano di emergenza commissionato dal presidente Kennedy e coordinato dal suo nuovo Segretario di Stato, Robert McNamara, che aveva lasciato un ben più lautamente retribuito posto di presidente della Ford per assumere quell’incarico. Il piano prevedeva, in caso di escalation, una prima fase di attacchi nucleari selettivi contro basi militari e truppe nemiche, a cui sarebbe seguita una seconda fase con un uso limitato di armi di teatro; solo nella terza fase, se l’URSS non si fosse fermata, si sarebbe passati alla guerra atomica generale.



Herman Kahn sosteneva che, oltre a una capacità di deterrenza, gli Stati Uniti dovessero dotarsi di una capacità di “combattimento e vittoria” di una guerra atomica.


Anche Herman Kahn, il guru della RAND Corporation, era un fermo sostenitore di questa svolta della strategia nucleare. Nel marzo 1959 Kahn tenne tre conferenze all’Università di Princeton su questo tema, confluite poi l’anno successivo nel ponderoso volume On Thermonuclear War. Kahn se la prendeva con la retorica politica secondo cui una guerra nucleare sarebbe l’anticamera dell’estinzione della specie umana e nel mondo post-atomico “i vivi invidieranno i morti”: a suo dire, questa retorica impediva ogni tentativo di razionalizzare il conflitto atomico, che era invece il suo compito alla RAND. Per mostrare le fallacie logiche di un approccio unicamente fondato sulla deterrenza attraverso la minaccia di una rappresaglia massiccia, Kahn propose un inquietante “esperimento mentale”, quello della Doomsday Machine, l’Ordigno Fine del Mondo reso celebre dal film di Stanley Kubrick Il dottor Stranamore (il cui personaggio eponimo, che proviene dalla fantomatica Bland Corporation, è ispirato proprio a Kahn e alla RAND Corporation).

Unico scopo di un simile ordigno sarebbe quello di cancellare dalla Terra ogni traccia di vita umana. Collegato a una serie di sensori sparsi in tutti gli Stati Uniti, e posto in una località a prova di blitz atomico, l’ordigno si attiverebbe automaticamente una volta rilevata l’esplosione di un certo numero di bombe atomiche sopra gli Stati Uniti. In poco tempo, la macchina annienterebbe l’umanità. L’esistenza di un simile ordigno sarebbe sufficiente a dissuadere definitivamente l’URSS dall’attaccare gli USA. Tuttavia la sua costruzione, pur sembrando una perfetta garanzia per una pace mondiale, la più alta forma possibile di deterrenza, avrebbe semplicemente sostituito una spada di Damocle (la guerra termonucleare globale) con un’altra (la possibilità di una sua attivazione).

Per superare l’impasse, Kahn sosteneva che, oltre a una capacità di deterrenza, gli Stati Uniti dovessero dotarsi di una capacità di “combattimento e vittoria” di una guerra atomica. Per farlo, occorreva mettere gli americani in condizione di sopravvivere a un first strike (o a un second strike di contro-risorse), il che implicava elaborare un piano per la costruzione di rifugi antiatomici e per l’evacuazione dei civili dalle grandi città in tempi rapidi. A quel punto la fattibilità di un conflitto nucleare sarebbe stata decisamente maggiore, grazie alla possibilità di mitigarne sensibilmente le conseguenze. Uno scenario in cui le vittime di una guerra nucleare non superano i venti milioni e la ripresa economica non impiega più di dieci anni è decisamente più accettabile di uno in cui muoiono 160 milioni di persone e che richiede cento anni per una completa ripresa. Il primo, infatti, implica danni inferiori a quelli prodotti dalla Seconda guerra mondiale, nello specifico un numero di vittime inferiore di più della metà. Se questi fossero stati i costi della terza guerra mondiale – chiedeva Kahn al suo uditorio – davvero sarebbero stati tutti d’accordo nel non combatterla, considerando il rischio alternativo di un “mondo libero” conquistato dai comunisti?

L’URSS, secondo Kahn, era da questo punto di vista avvantaggiata, perché le grandi città erano poche e la popolazione nelle campagne perlopiù viveva in abitazioni dalle pareti molto spesse e con finestre piccole, adeguate per offrire una prima protezione da fallout radioattivi. In realtà il Cremlino era, su questo fronte, molto più avanti del governo americano, poiché stava dotando Mosca di una rete di bunker in grado di ospitare migliaia di persone e collegate da tunnel sotterranei al fine di garantire la sopravvivenza della classe dirigente in caso di attacco, oltre a possedere piani di evacuazione rapida della popolazione dalle grandi città. Inoltre, il governo sovietico stava investendo nello sviluppo di sistemi di difesa anti-missili balistici, che per quanto rozzi potevano in linea teorica riuscire a intercettare un certo numero di testate prima che colpissero il bersaglio. Ma così come Eisenhower aveva respinto le conclusioni del rapporto Gaither così Kennedy respinse la proposta di Kahn di investire circa 150 milioni di dollari nella costruzione di bunker sotto le villette delle famiglie americane della middle-class. La motivazione era sostanzialmente la stessa: rifiutare la prospettiva che una guerra nucleare potesse essere possibile, abituando la popolazione a un simile scenario, poiché dal possibile al reale non c’è che un passo.

Mutual Assured Destruction
Nonostante le critiche di cui fu subissato per il suo cinismo, il libro di Kahn poneva nondimeno l’essenziale problema della credibilità della deterrenza: se si parte dal presupposto che in nessun caso può essere combattuta una guerra nucleare, che credibilità può avere la minaccia di combatterla? Ciò implicava la necessità di “pensare l’impensabile”, per usare la celebre formula di Kahn, ossia di identificare scenari in cui un simile conflitto fosse davvero possibile. La teoria della “guerra nucleare sublimitata” era una possibile risposta. Si poteva cioè dimostrare la determinazione di utilizzare la bomba atomica facendola esplodere in modo dimostrativo in un’area disabitata dell’URSS, per esempio in Kamchatka o nella tundra del circolo polare artico; Kissinger proponeva a tal fine di impiegare armi tattiche contro forze nemiche in battaglia.

Ma non mancavano i limiti di una simile dottrina, come in generale di quella della deterrenza graduale. Innanzitutto, le capacità tecnologiche non erano tali da garantire durante la guerra il mantenimento di un collegamento tra le due potenze attraverso cui far passare il negoziato (la celebre “linea rossa” tra la Casa Bianca e il Cremlino sarebbe stata istituita solo dopo la crisi di Cuba); in secondo luogo, non era affatto certo che in caso di rappresaglia limitata la controparte non avrebbe reagito in modo sproporzionato: la teoria dei giochi sosteneva di sì, ma si basava sul presupposto che i due attori fossero razionali, il che nel mondo reale è un assunto indimostrato; infine, si osservava che, accettando la possibilità di una guerra nucleare limitata, si accresceva il rischio di una terza guerra mondiale, perché le due superpotenze sarebbero state incentivate a iniziare uno scambio atomico dalle conseguenze imprevedibili. Chruščëv, in particolare, la riteneva una posizione molto aggressiva, orientata a rompere l’equilibrio nucleare, mentre ai membri europei della NATO sembrò un modo per mettere gli Stati Uniti al riparo da un attacco nucleare sul proprio territorio scaricando tutte le conseguenze di un conflitto generalizzato sull’Europa, il che non era un sospetto troppo lontano dalla verità.

Robert McNamara avvertì ben presto i rischi delle tesi di Kissinger e di Kahn e all’indomani della crisi di Cuba (in cui si avvide del pericolo di un’escalation controllata in grado di sfociare in una guerra generalizzata) iniziò a sviluppare una nuova dottrina, quella della “distruzione reciproca assicurata”, nota con l’acronimo MAD (Mutual Assured Destruction). Esposta a una conferenza a San Francisco nel 1967, la dottrina di McNamara prevedeva che gli Stati Uniti mantenessero una capacità di deterrenza tale da impedire qualsiasi capacità di first strike dell’Unione Sovietica, conservando invece una credibile capacità di second strike in grado di provocare talmente tanti danni all’avversario da rendere una sua vittoria impossibile. Era in parte un ritorno alla rappresaglia massiccia, ma questa volta senza collegarla direttamente a una potenziale aggressione limitata da parte dell’URSS: semplicemente, la MAD asseriva l’impraticabilità di un conflitto nucleare qualsivoglia, in totale opposizione alle tesi di Kissinger e di Kahn. Persino il vecchio SIOP degli anni Cinquanta fu ripreso e aggiornato per rendere tale minaccia credibile.

Divenuto dapprima consigliere per la sicurezza nazionale (1969), e poi Segretario di Stato (1973), Kissinger cercò di revisionare il SIOP, benché il Pentagono tentasse di mettergli i bastoni tra le ruote; ma il suo tentativo di far tornare in auge la dottrina della guerra sublimitata in Vietnam non funzionò: nelle fasi più critiche del conflitto vietnamita, Kissinger persuase Nixon a seguire la tattica di MacArthur e di LeMay in Corea, ossia di minacciare l’uso della bomba atomica per sbloccare lo stallo. La chiamavano la “teoria del pazzo”, ma né i vietnamiti né i sovietici abboccarono e la MAD rimase sostanzialmente al suo posto: la guerra nucleare, semplicemente, non era un’opzione realistica.

Si dovette attendere la fine degli anni Settanta perché l’assunto della MAD venisse nuovamente messo in discussione da un gruppo di politologi di estrazione neo-conservatrice, riuniti nel Committee on the Present Danger (CPD), un gruppo di pressione critico nei confronti della presidenza democratica di Carter (un sostenitore della deterrenza limitata, intenzionato a tagliare i fondi per l’ampliamento degli arsenali nucleari) da cui Ronald Reagan avrebbe successivamente attinto per costruire la sua squadra di consiglieri. Il CPD era dell’idea che gli Stati Uniti stessero entrando in una “finestra di vulnerabilità” nel corso della quale l’Unione Sovietica sarebbe riuscita ad assumere una superiorità nucleare in termini di numero di missili e di capacità di difesa tale da convincerla a lanciare un first strike. Era una tesi simile a quella del rapporto Gaither, e come tale era prevalentemente politica; tra i suoi proponenti, non a caso, figurava nuovamente Paul Nitze. Il consigliere per la sicurezza nazionale di Carter, Zbigniew Brzezinski, la prese in ogni caso abbastanza sul serio da elaborare un “rinnovamento strategico” sancito nel 1980 dalla Direttiva presidenziale 59 (PD-59), che si basava sull’assunto secondo cui la strategia sovietica contemplasse la fattibilità di una guerra nucleare e la possibilità di una sua vittoria, come uno dei membri del CPD, lo storico di Harvard Richard Pipes, aveva suggerito in un lungo saggio sulla rivista neo-conservatrice Commentary dal titolo Why the Soviet Union Thinks It Could Fight and Win a Nuclear War (“Perché l’Unione Sovietica pensa di poter combattere e vincere una guerra nucleare”). Era un articolo, quello di Pipes, intriso di assunti ideologici:



La classe dirigente sovietica considera il conflitto e la violenza naturali regolatori di tutte le vicende umane: le guerre tra nazioni, da questo punto di vista, rappresentano solo una variante delle guerre tra classi, e il ricorso all’una o all’altra dipende dalle circostanze. Un mondo senza conflitti vedrà la luce solo quando il modo di produzione socialista (vale a dire, il comunismo) si diffonderà su tutta la faccia della terra.


Brzezinski sosteneva che la PD-59 non fosse una messa in discussione della MAD, ma una sua estensione: essa in effetti escludeva l’ipotesi di una guerra totale ma prendeva in considerazione la possibilità di un conflitto nucleare prolungato di tipo limitato o graduale, e prevedeva le necessarie contromisure per affrontare un simile scenario.

Nuclear winter
L’equilibrio del terrore non piaceva invece affatto a Ronald Reagan. Giudicò la MAD “la cosa più folle che abbia mai sentito” (del resto l’acronimo ben si prestava a questi giochi di parole) e nel suo idealismo da ex attore hollywoodiano propose di sostituirlo con il concetto di Mutual Assured Survival (MAS), ossia “sopravvivenza reciproca assicurata”. Alla base di questa idea c’era la possibilità di realizzare uno scudo spaziale, che alcuni tecnologi forse un po’ troppo ottimisti sugli ultimi sviluppi delle tecnologie laser e satellitari stimavano possibile realizzare di lì a pochi anni. Se fosse stato possibile mettere al riparo l’America da un bombardamento nucleare, la MAD sarebbe stata definitivamente archiviata insieme alla spada di Damocle di una guerra termonucleare globale, come spiegò Reagan in uno dei suoi discorsi:



Cosa succederebbe se i popoli liberi potessero vivere nella certezza di sapere che la loro sicurezza non si basa sulla minaccia di una rappresaglia istantanea degli Stati Uniti quale deterrente contro un attacco sovietico e che noi possiamo intercettare e distruggere missili balistici strategici prima che essi raggiungano il nostro territorio o quello dei nostri alleati?


Il progetto Strategic Defense Initiative (SDI), più noto con il nome mediatico di Star Wars, fu presentato da Reagan nel marzo 1983, l’anno in cui in cui l’hype per la saga di Guerre Stellari era al culmine per l’uscita dell’ultimo capitolo della trilogia, Il ritorno dello Jedi. Gli esperti la considerarono poco più di una strategia mediatica, perché era evidente che non esisteva (e non sarebbe esistita per decenni) una tecnologia in grado di intercettare e distruggere il 100% dei missili balistici nemici durante la loro fase di crociera in orbita attraverso armi laser satellitari, e in ogni caso il dispiegamento di uno scudo spaziale non avrebbe impedito la possibilità di atomiche sganciate dai tradizionali bombardieri. I sovietici vi videro invece una immediata minaccia, perché riportava gli Stati Uniti al credo di Kahn sulla necessità di rendere la guerra nucleare “combattibile e vincibile”.

Reagan in effetti ne era consapevole e per questo la sua prima proposta prevedeva di sostituire i sistemi offensivi con quelli difensivi, vale a dire eliminare tutte le armi atomiche e dotarsi solo di scudi spaziali. Sperava di poter essere il presidente che avrebbe eliminato tutte le bombe atomiche del mondo, giungendo a un accordo definitivo con l’Unione Sovietica. Un’idea del genere sarebbe sembrata folle solo pochi anni prima, ma gli umori dell’opinione pubblica stavano cambiando. L’inquietante scenario che milioni di americani avevano visto in televisione con The Day After era poca cosa rispetto alle previsioni presentate nel 1983 da un gruppo di scienziati sulla prestigiosa rivista Science.

Gli autori, noti con la sigla TTAPS dalle iniziali dei loro cognomi (Turco, Toon, Ackermann, Polack e l’iconico Carl Sagan, lo scienziato più celebre d’America), avevano sviluppato un modello che mostrava come l’esplosione di numerose testate nucleari durante una guerra atomica avrebbe innescato immensi incendi nei punti di detonazione, destinati ad allargarsi e a intossicare l’atmosfera con così tanto fumo, polvere e ceneri da coprire la luce solare per settimane. Come conseguenza le temperature sarebbero crollate, distruggendo i raccolti, mentre l’interruzione della fotosintesi avrebbe spazzato via quasi l’intera vegetazione mondiale, distrutto la catena alimentare, condotto all’estinzione la maggior parte delle specie animali. “La possibilità di un’estinzione di Homo sapiens non può essere esclusa”, concludevano gli autori.

Era la prospettiva dell’inverno nucleare (nuclear winter), una fortunata formula che diede ampia risonanza all’articolo, anche grazie alla pubblicazione, l’anno successivo, di un saggio divulgativo (The Cold and the Dark: The World After Nuclear War) firmato da Sagan e da Paul R. Ehrlich, l’autore di un celebre best-seller degli anni Sessanta, The Population Bomb, sulle conseguenze apocalittiche della sovrappopolazione. Non era il primo studio sugli effetti ecologici di una guerra nucleare: la stessa RAND era stata apripista di questo genere di analisi negli anni Cinquanta, senza però pervenire a conclusioni definitive; nel 1974 uno dei consulenti della RAND, Fred Iklé, divenuto direttore dell’agenzia americana per il controllo degli armamenti, commissionò uno studio sulle conseguenze di lungo termine di una guerra nucleare all’Accademia Nazionale delle Scienze; il rapporto, frutto del lavoro di 56 esperti di diverse discipline, poneva l’accento sul rischio che l’enorme concentrazione di monossido d’azoto in atmosfera a causa delle esplosioni atomiche spazzasse via il tenue strato d’ozono che circonda la Terra, esponendola alle letali radiazioni ultraviolette.

Ciò che forse ridusse l’impatto mediatico di questo rapporto fu il fatto che gli studiosi avessero preso in considerazione un conflitto in grado di sprigionare 10.000 megatoni di potenza, decisamente catastrofico, mentre lo studio TTAPS nove anni più tardi più tardi mostrava che l’inverno nucleare si sarebbe verificato anche con un totale di 100 megatoni di potenza, il che avrebbe reso infattibile anche la guerra nucleare sublimitata tanto amata da Herman Kahn.

Sulla scorta di queste analisi, i leader politici iniziarono a “pensare l’impensabile” in direzione diversa: anziché rendere più credibile la guerra nucleare, si trattava di rendere più credibile il disarmo globale. A un certo punto ci andarono vicinissimo, quando durante i colloqui di Reykjavík nell’ottobre 1986 Reagan e il nuovo leader sovietico Michail Gorbačëv si dissero pronti a procedere verso una rapida eliminazione dei rispettivi arsenali. Ma poi Reagan insisté nel proseguire lo sviluppo dello scudo spaziale in contemporanea con la riduzione degli arsenali, ipotesi che per l’Unione Sovietica significava rompere l’equilibrio e garantire agli Stati Uniti la possibilità del first strike.

Fu il fisico Andrej Sacharov, che aveva contributo a sviluppare la bomba all’idrogeno in Unione Sovietica e che nel 1975 aveva vinto il premio Nobel per la pace per il suo attivismo politico, a convincere Gorbačëv che un potenziale scudo spaziale non andava considerata come un’arma offensiva, ma, nelle sue parole, come “una linea Maginot nello spazio”. Si trattava cioè di spostare la cortina di ferro fuori dalla Terra, riducendo le possibilità di una guerra nucleare. Gorbačëv si lasciò persuadere e nel 1987 le due potenze firmarono un primo trattato di riduzione degli armamenti. Nel 1991 il comando del SAC fu assunto dal generale George Lee Butler, che per prima cosa si studiò il piano di battaglia della guerra nucleare, il SIOP. A differenza dei suoi predecessori, lo giudicò “il documento più assurdo e irresponsabile che avessi mai letto in vita mia”. Fu praticamente cancellato e sostituito da una serie di nuovi documenti (denominati National Strategic Response Plans), dotati di ampia flessibilità e senza i target precostituiti destinati a essere presi di mira da centinaia di bombe atomiche l’uno. La Guerra fredda era davvero finita.

Lo spettro del conflitto termonucleare globale durante la Guerra fredda
 
LA GUERRA DELLE FALKLAND

Il 2 aprile 1982, la flotta dell’Ammiraglio Anaya salpa per le isole Falkland – per gli argentini Malvinas – abitate da circa 2000 coloni inglesi ferventemente pro-britannici, occupandole militarmente.

Differentemente da quanto si pensi, questa mossa non era inaspettata. Non solo gli inglesi avevano già inviato sottomarini nucleari in loco, ma la disputa diplomatica sulle isole Falkland – che si protraeva sin dall’indipendenza dell’Argentina (accendendosi ulteriormente all’inizio degli anni ’60) – era già diventata militare da più di 5 anni.

Il Regno Unito – il cui governo era presieduto dalla Iron Lady, Margaret Tatcher – risponderà prontamente inviando una Task Force navale, dando inizio ad una guerra che – per certi versi – sconvolse il mondo, gli argentini e gli inglesi stessi.

In questa prima parte ripercorreremo gli eventi fino all’invio della task force britannica e riassumeremo le reazioni diplomatiche della comunità internazionale, nella prossima ripercorreremo l’intervento inglese a partire dalla riconquista di South Georgia.

SOUTHERN THULE

La prima avvisaglia militare del conflitto è sconosciuta ai più.
Nel 1976, 6 anni prima dell’invasione delle Falkland, la marina argentina sbarca 50 “tecnici” sull’isola disabitata di Southern Thule, nell’arcipelago delle South Sandwich Islands, in una zona dell’atlantico di fatto dimenticata da Dio, abitata solamente da pinguini, a ridosso dell’Antartico. I militari argentini issano la loro bandiera, costruiscono una piccola caserma e una stazione metereologica.

L’occupazione viene scoperta solo settimane dopo dal governo inglese, e due anni dopo dalla House of Commons, che interrogherà l’allora premier Callaghan. Il Primo Ministro rivelerà di aver espresso parere negativo riguardo alla proposta – che aveva ricevuto – di riprendere l’isola con l’intervento dei marines, e la questione verrà dimenticata.

I 6 anni successivi saranno marcati da infruttuose trattative diplomatiche, marcate da posizioni britanniche ed argentine inconciliabili tra loro e – soprattutto – inconciliabili con i desiderata della popolazione delle Falkland, saldamente ancorata alla madrepatria. Il massimo a cui si riuscirà ad arrivare sarà un “ponte aereo” tra le Falkland e l’Argentina, che portò il governo di Londra – nel mezzo di una feroce spending review – a tagliare il collegamento via mare, lasciando gli abitanti delle Falkland in balia di quello che consideravano (a ragione) un aggressore.

SOUTH GEORGIA
La seconda escalation militare avverrà nel 1982, due settimane prima dell’invasione vera e propria delle Falkland.

Il 19 marzo una quarantina di operai di una compagnia privata argentina sbarcano a Leith – sull’isola di South Georgia – per smantellare una vecchia stazione di balenieri, in accordo con il consolato britannico. Una volta sbarcati, però, si rifiuteranno di chiedere le necessarie autorizzazioni alla base di ricerca antartica britannica situata sull’isola, issando una bandiera argentina e continuando a lavorare come nulla fosse.

Sorprendendo gli argentini, la Tatcher deciderà di inviare la nave Endurance da Port Stanley fino in South Georgia, intimando ai lavoratori di andarsene. La giunta risponderà inviando una nave di guerra e sbarcando dei marines insieme ad una quindicina di operai rimasti sull’isola, ma per il momento non ci saranno scontri.

Questa volta, però, il governo inglese non lascerà correre come nel caso di Southern Thule: Il 28 marzo viene presa la decisione di inviare 3 sottomarini nucleari nell’atlantico meridionale. Si è messa in moto la catena di eventi che inevitabilmente porterà alla guerra.

LA DECISIONE ARGENTINA

Qua c’è da fare una postilla: Secondo Max Hastings – quantomeno – la decisione di invadere le Falkland era già stata presa nel 1976 in occasione del colpo di stato, che portò al potere la giunta militare guidata dal generale dell’esercito Leopoldo Galtieri. L’ammiraglio Anaya, capo di stato maggiore della marina ed esponente di spicco della giunta, l’aveva posta come precondizione per il sostegno della marina al governo militare.

Era però stato stabilito – visto lo stallo dei negoziati bilaterali e all’ONU – che l’invasione dovesse avvenire nell’estate del 1982, dopo che le forze armate argentine avessero ottenuto dalla Francia ulteriori caccia Super Etendard e soprattutto missili Excocet, che si riveleranno l’arma più temibile a loro disposizione durante la guerra.

I motivi che portarono ad anticipare la data al 2 aprile furono principalmente due.
In primis gli eventi che furono messi in moto a South Georgia (senza, pare, una specifica direzione del governo argentino) forzarono la mano agli inglesi, e fecero maturare negli argentini una mentalità da “ora o mai più”; dovuta al fatto che dei rinforzi inglesi nell’atlantico del sud (che in effetti stavano arrivando) avrebbero reso l’operazione molto più difficoltosa. Come per i tedeschi nel 1914 – che videro nella modernizzazione ferroviaria russa (con fondi francesi) un fattore capace di ribaltare i rapporti di forza – e i russi nel 2022, gli argentini sentirono di star perdendo la loro posizione di vantaggio.
In secundis, la giunta stava portando avanti un programma di riforme economiche deflattive che potremmo definire di “austerity“, e la sua popolarità era più bassa che mai. Ridare al popolo argentino Las Malvinas avrebbe anche salvato i destini politici della giunta.
Sarebbe scorretto quindi dire – come molti fanno – che la guerra ebbe solo motivazioni di carattere interno da parte argentina. Questi fattori semplicemente contribuirono ad anticiparla.

L’INVIO DELLA TASK FORCE
Il 2 aprile, i pochi marines inglesi presenti a Port Stanley, nelle Falkland, e a South Georgia, opposero resistenza per quanto poterono. Causarono morti argentini senza subirne neanche uno a loro volta, ma ovviamente dovettero arrendersi. Le Malvinas si trovavano ufficialmente sotto il dominio argentino.

A molti potrebbe sembrare scontato che una potenza mondiale e oceanica come il Regno Unito avrebbe subito inviato la marina per difendere il proprio territorio da un’invasione del terzo mondo – soprattutto ad oggi – alla luce delle guerre che si sono combattute in Bosnia, in Iraq, in Afghanistan, per motivi molto più fumosi e molto meno comprensibili dalla popolazione.

Le cose però, ai tempi, non stavano proprio così.

Bisogna innanzitutto far notare come la marina inglese fosse, si può dire, nel suo peggior stato di sempre.
Veniva da almeno 25 anni di tagli continui (nel 1980 addirittura fu imposta una moratoria totale sulle spese militari), mancava di carburante, e soprattutto era stata relegata ad un ruolo di guardia dell’Atlantico del Nord nell’ambito della strategia anti-sovietica della NATO. Relegata – per la maggior parte – ad un ruolo anti-sottomarino, e quindi poco preparata per operazioni anfibie, proiezioni di forza, combattimento nave-nave. L’allora Segretario alla Difesa, Sir John Nott, prevedeva uno smantellamento totale di quelle capacità di proiezione che invece erano care agli ammiragli della marina, e che si dimostreranno chiaramente vitali nel conflitto delle Falkland.

E’ infatti ormai stabilito che gli argentini stessi fossero convinti che non sarebbe arrivata nessuna risposta militare dal Regno Unito. Non solo, pensavano che se anche ci fosse stata volontà politica, un’operazione del genere non sarebbe stata militarmente possibile.

Oltreché di tipo militare, le difficoltà erano anche di tipo politico. Nell”82 la decolonizzazione era stata portata a termine bene o male per intero, e non c’era alcuna certezza sul fatto che la comunità internazionale (finanche quella europea) avrebbe supportato diplomaticamente la difesa delle Falkland.

La decisione di inviare la flotta, benché fosse supportata sia dal pubblico britannico che dalla quasi totalità della House of Commons, fu in realtà sofferta per il gabinetto della Tatcher; e fu presa infine a causa della caparbietà dell’Iron Lady e del suo Ammiraglio della Flotta – Sir Henry Leach – che irruppe non invitato nella riunione d’emergenza del governo, perorando la causa della task force.

LA BATTAGLIA DIPLOMATICA
Prima di soffermarci sull’aspetto militare del conflitto – sicuramente più interessante – facciamo un breve riassunto di quello diplomatico.

Dal punto di vista diplomatico, il Regno Unito riuscì a ricevere più supporto di quanto si sarebbe mai aspettato.
Riuscì ad ottenere una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che condannava l’aggressione argentina ed intimava il ritiro delle truppe, tramite l’astensione dell’Unione Sovietica in seno al consiglio (di certo non giocò in favore di Galtieri il carattere spiccatamente anti-comunista del suo regime, che gli aveva invece garantito la simpatia di Raegan).

La Comunità Europea impose subito delle sanzioni sull’Argentina (nonostante la posizione eterodossa di Craxi), Germania e Francia congelarono le loro esportazioni militari. Le banche (ca va sans dire, con sede nella City of London) smisero di prestare soldi all’Argentina, nonostante essa si premurò di rispettare comunque tutti i pagamenti dei suoi debiti nel corso del conflitto.

Per quanto riguarda gli USA – nonostante un’impostazione neutralistica iniziale – e nonostante dissidi interni tra l’amministrazione presidenziale (filo-argentina) e il dipartimento di stato (filo-britannico), alla fine si schierarono convintamente con il Regno Unito. Si rifiutarono – ad esempio – di fornire importanti manuali tecnici agli argentini, che avrebbero ad essi consentito di usare in modo più efficacie le loro bombe (spesso infatti, non esplodevano a contatto con le navi britanniche).

Fu fondamentale per il Regno Unito anche il supporto del Cile di Pinochet: Non solo le stazioni di ricezione cilene captavano segnali che riportavano speditamente ai britannici; il regime di Galtieri era particolarmente preoccupato da un’invasione di terra cilena dovuta a delle dispute territoriali, e quindi mantenne gran parte delle sue truppe migliori sul confine cileno, segnando le sorti della – per nulla scontata – battaglia di terra che avverrà sulle Falkland.

Salpava così la task force britannica, salutata con manifestazioni patriottiche da civili ammassati sul molo. Composta da portaerei, fregate, cacciatorpedinieri, sottomarini, navi cargo e addirittura una nave da crociera (la Canberra) requisita per trasportare la 3a brigata commando dei royal marines; per una guerra coloniale che mai i britannici avrebbero pensato di poter combattere nel 1982.

LA RIPRESA DI SOUTH GEORGIA

La prima missione della task force fu, possiamo dire, prettamente politica. Fu la liberazione dell’isola di South Georgia.

Una parte del contingente di marines e forze speciali stazionato ad Ascension Island (la base inglese nell’atlantico più vicina alle Falkland) sotto il comando del Brigadiere Julian Thompson, si diresse verso South Georgia – invero dalla poca valenza strategica – per consegnare una vittoria politica al governo della Tatcher, rafforzando il supporto domestico per la missione.

La guerra delle Falkland iniziò – per i britannici – con un evento fortunato ed un evento sfortunato.

Il primo fu la localizzazione – per pura fortuna – del sottomarino argentino Santa Fe (che rappresentava una minaccia non indifferente per la task force) e la sua debilitazione al largo di Leith. La seconda fu la disastrosa missione di ricognizione dei SAS e dello SBS sulle montagne innevate di South Georgia e sulle sue coste, abortita più volte causa mal tempo e che costò più di un elicottero ai britannici (per puro miracolo nessuna vita).

Dopo il bombardamento del Santa Fe i britannici, nonostante gran parte dei marines fosse ancora lontana da South Georgia, decisero di andare fino in fondo vedendo gli argentini in evidente difficoltà. Circa 75 uomini – principalmente dei SAS e dello SBS – arrivarono in elicottero sull’isola e – una volta giunti alla base argentina di Grytviken – non dovettero fare altro se non accettare la resa del Capitano argentino Alfred Astiz e dei suoi uomini. Il giorno dopo anche la guarnigione di Leith si arrese.

I britannici avevano liberato South Georgia senza perdere neanche un uomo.

Ora si preparavano alla battaglia navale e alla riconquista delle Falkland vere e proprie.

LA BATTAGLIA NAVALE

Poco dopo la riconquista di South Georgia, la posta del conlfitto si alza drammaticamente.

La task force britannica aveva dichiarato – con l’inizio delle operazioni – una “zona di esclusione” di 200 miglia nautiche intorno alle Isole Falkland, all’interno della quale ogni nave argentina sarebbe stata attaccata. Un’espediente, se vogliamo, per mantenere limitato il conflitto.

L’1 maggio, il sottomarino nucleare Conqueror avvista l’incrociatore argentino General Belgrano, scortato da due cacciatorpedinieri. Il sottomarino, originariamente, era a caccia della portaerei argentina fuori dalla zona di esclusione, ma – nonostante non avesse trovato il suo bersaglio principale – chiese al comando il permesso di affondare la General Belgrano, una grossa, vecchia, nave da guerra con a bordo più di mille uomini.

Le autorità militari – il giorno successivo – chiesero il permesso al gabinetto di guerra politico, che lo concesse.

La General Belgrano venne infine colpita e affondata, causando la morte di 368 marinai argentini.

Dopo questo avvenimento, la marina dell’ammiraglio Anaya rimase in porto o attaccata alla costa argentina per tutta la durata della guerra. Non vi fu mai una battaglia navale tra la flotta argentina e quella britannica.

AFFONDAMENTO DELLA SHEFFIELD E PREPARAZIONE ALLO SBARCO

La flotta di Sua Maestà ora, protetta dai suoi sottomarini al largo della costa argentina, si sentì libera di iniziare a bombardare le installazioni argentine su East Falkland.

Forse fu proprio questo falso senso di sicurezza che portò all’affondamento della Sheffield.

Il 4 maggio, il radar del cacciatorpediniere iniziò a dare dei segnali, che inizialmente vennero interpretati come quelli di un aereo amico o di un caccia argentino. Fu solo quando dal ponte i marinai videro del fumo all’orizzonte, che capirono che in realtà quello che stava arrivando era proprio uno dei temuti missili Excocet. Missile che appena 5 secondi dopo colpì la nave, non lasciando tempo di attivare contromisure. La Sheffield fu danneggiata in modo irreparabile ed affondò poco dopo; in tutto vi furono 20 morti e 26 feriti.

Tutto d’un tratto, la guerra era diventata reale anche per i britannici. Da quel momento in poi, furono molto più cauti nel dispiegamento della task force, in particolare delle portaerei, che furono poste a distanza di sicurezza.

Nei giorni che seguirono, i britannici realizzarono gradualmente l’impossibilità di stabilire supremazia aerea in vista di uno sbarco, e si dedicarono invece a pattuglie, bombardamenti e raid per rendere più facile il lavoro degli uomini di Thompson, al momento ancora in attesa ad Ascension Island.

Uno degli episodi più iconici di questo periodo della guerra fu certamente il raid di Pebble Island; in occasione di cui un piccolo team di SAS si infiltrò in una base aerea argentina, distruggendo 11 velivoli senza perdere neanche un uomo. I SAS persero invece 22 uomini quando un albatross colpì il motore di un elicottero Sea King che li stava trasportando, facendolo precipitare in mare.

LO SBARCO A SAN CARLOS

Il 21 maggio, quando i marines, i para, le guardie reali e membri delle forze speciali sbarcarono nella baia di San Carlos, scelta per la protezione naturale che offriva, a discapito della sua lontananza dall’obiettivo principale (Port Stanley) non incontrarono nessuna resistenza ne da terra ne da mare. Il giorno seguente, però, iniziò una delle battaglie aeree più feroci da dopo la seconda guerra mondiale.

L’aereonautica argentina, senza dubbio il ramo delle forze armate che ha combattuto con più tenacia in questo conflitto, e il ramo aereo della marina, effettuarono per giorni delle sortite sulle navi britanniche ormeggiate nella baia di San Carlos. Principalmente, con bombe convenzionali che in molte occasioni non esplosero come avrebbero dovuto, ma anche con i pochi missili excocet a disposizione delle forze armate argentine.

I britannici si difesero da queste sortite sia da terra, tramite il sistema Rapier e i missili a guida manuale Blowpipe, nell’aria con pattuglie di incercettazione dei loro Harrier, più agili nel combattimento dei Super Etendard francesi, e da mare, tramite i missili Sea Dart, Sea Cat e Sea Wolf installati sulle fregate e sui cacciatorpedinieri, oltreché tramite cannoni Oerlikon manuali.

Gradualmente le perdite argentine fecero affievolire i raid aerei, ma il prezzo che pagarono i britannici fu alto: Persero le navi Ardent, Antelope e Coventry. La perdita più pesante, però, non avvenne a San Carlos ma al largo delle Falkland.

Un missile excocet, diretto presumibilmente verso una delle portaerei britanniche, colpì la nave container Atlantic Conveyor, causando 12 morti e la perdita di 10 elicotteri Wessex e 4 elicotteri Chinook, difficilmente sostituibili e fondamentali per condurre la battaglia di terra che sarebbe cominciata a breve. La perdita di questi elicotteri, costrinse i contingenti britannici a muoversi nelle Falkland a passo di marcia, su terreno accidentato.

ASSALTO A GOOSE GREEN

La prima battaglia di terra della guerra avviene, come la ripresa di South Georgia, più per ragioni politiche che per ragioni militari. A causa dei continui raid aerei argentini e a causa della mancanza di elicotteri, il contingente britannico non si era praticamente mosso dalle sue posizioni iniziali nella baia di San Carlos e sul monte Kent. La politica voleva una vittoria, e la voleva in fretta, quindi, benché i militari avrebbero preferito una marcia decisiva su Port Stanley, si decise di catturare la guarnigione argentina nella vicina Goose Green. Guarnigione che, peraltro, era stata anche rinforzata dopo una fuga di notizie causata dai giornalisti britannici che accompagnavano il contingente.

L’assalto fu assegnato al secondo battaglione paracadutisti (2 para), che si mosse dalle sue anguste posizioni sul monte Kent da dove aveva assistito, impotente, alla battaglia aerea che infuriava sulla baia di San Carlos.

A Darwin Hill, i britannici incontrarono una delle resistenze più tenaci nel corso di tutta la guerra. Subirono imboscate e vennero soppressi dalle posizioni fortificate argentine, avendo anche a disposizione poche munizioni di artiglieria a causa della difficile situazione logistica.

I 4 reggimenti britannici, riuscirono infine a catturare le colline intorno a Goose Green, per poi recuperare le forze e pianificare l’assalto alla posizione vera e propria.

Non ci fu bisogno, però, di un assalto a Goose Green: La guarnigione argentina si arrese dopo una serie di trattive. In tutto si consegnarono circa 1200 prigionieri, il triplo degli uomini che avevano schierato i britannici.

In tutta la battaglia, i britannici persero 18 uomini.

PORT STANLEY
A posteriori, verrebbe da pensare che dopo Goose Green le sorti della guerra fossero già decise, e che la marcia su Port Stanley fosse solo una formalità.

La realtà ai tempi però non appariva così.

Seppur con minore intensità, continuò anche la battaglia aerea. La nave da trasporto anfibio Galahad fu colpita e affondata con un bombardamento convenzionale mentre trasportava un contingente a sud di Port Stanley, questo fu necessario a causa della già citata carenza di elicotteri e di trasporti in generale. Il contingente che arrivò a Port Stanley da nord, invece, principalmente formato dalla 3 brigata commando (3 commando) dei marines, si mosse completamente a passo di marcia.

Nonostante questo incidente, le forze britanniche erano ora in posizione per attaccare Port Stanley.

La capitale delle Falkland era circondata da colline, ampiamente fortificate e precedute da campi minati. Il comandante della guarnigione nonché governatore argentino delle Malvinas, Mario Menendez, era convinto di poter difendere le posizioni di Port Stanley per mesi, rendendo la guerra per i britannici politicamente e logisticamente insostenibile.

Non fu così: I britannici, seppur in alcuni casi con battaglie feroci, come quella di Mount Longdon, la cui cima fu conquistata dagli uomini di 3 commando con una carica alla baionetta, riuscirono a guadagnare le alture senza troppe difficoltà.

La situazione logistica delle truppe argentine, preparate per una breve occupazione piuttostoché per una guerra d’attrito, era pessima. Non avevano cibo, non avevano munizioni. Oltretutto, spesso e volentieri, venivano abbandonate senza ordini dai propri ufficiali durante gli attacchi britannici.

Infine, lo stesso Menendez, disobbedì all’ordine di Galtieri di montare un contrattacco (che sarebbe stato suicida), e il suo contingente si arrese a quello britannico.

Le Falkland, il 14 giugno, erano liberate, due mesi dopo l’inizio della loro occupazione.

La task force tornava in patria accompagnata dalle note di “Rule Britannia”, ma altri uomini, nel frattempo, partivano per le Falkland, che non sarebbero più state le stesse.

Oggi, “Fortress Falklands” è diventata realtà, le isole sono difese da una base della RAF, una fregata o un cacciatorpediniere permanentemente di stanza a Port Stanley e da un contingente di marines notevolmente espanso rispetto a quello che, con pochi mezzi, tentò di difendere Port Stanley nel 1982. Un’invasione argentina delle Falkland, oggi, sarebbe impossibile.

Il sole, per il momento, non è ancora tramontato sull’impero britannico.

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[Fonte: La guerra delle Falkland]

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