Il pessimismo nasce in Francia nel 1759, informa Pontiggia. Dicono che sia stato un illuminista disincantato, Mallet du Pan, a coniare l'espressione, ma forse non è vero. C'è del pessimismo anche sulle origini dei termine. Fa il suo ingresso ufficiale nell'Académie Française, nel 1835, dove viene accolto nel lessico accademico. Naturalmente ci riferiamo all'espressione e non alla sostanza; di pessimisti ce n'erano già prima di Cristo, fra gli etruschi e gli egizi, fino ai poeti pagani; il suo atto dl nascita è in quel distico che ritiene un male già l'esser nati ed un bene il morir più presto possibile. Ma dopo millenni di lamenti, solo nel secolo dei lumi fa la sua comparsa l'espressione pessimismo. L'ottimismo nasce un ventennio prima, e a denunciare la nascita del trovatello sono i gesuiti che nel 1737, in uno scritto apparso sulla rivista Memoires de Trevoux, lo identificano in Leibniz e nella sua teoria sul mondo attuale ritenuto il migliore dei mondi possibili. Dunque, la prima volta che si usa la parola ottimismo è per criticarlo.
Entrambi nascono nell'alveo del razionalismo. Il primo conflitto tra pessimisti e ottimisti è narrato da Voltaire in Candide ou l'optimisme, che ridicolizza appunto la visione rosea della vita; dopo il terremoto di Lisbona vi fu chi, come lui, vide il mondo abbandonato dalla Provvidenza, e chi viceversa ritenne che esistesse, come poi dirà Manzoni, anche la Provvida sventura, il male che produce il bene. Già 130 anni fa, nel Dizionario di Niccolò Tommaseo debuttano in Italia i vocaboli di ottimista e pessimista.
Ma la coppia è diseguale. Si riconosce con qualche difficoltà uno statuto filosofico all'ottimismo, mentre ci si inchina devoti al pessimismo letterario e filosofico, dal romanticismo in poi: l'asse Leopardi-Schopenhauer ha fatto scuola, letteralmente. E' a scuola, infatti, che sulla scia di De Sanctis, il pessimismo fa il suo ingresso trionfale e petulante e si trasforma pure in maniera. Ognuno ricorderà lo strazio delle lezioni sul pessimismo leopardiano, zeppe di luoghi comuni che riducevano la visione tragica del poeta ad una lagna tra il luttuoso e lo iettatorio. E invece, ci ricorda Pontiggia, nessuno come Leopardi ci ha dato un'immagine luminosa e dolce della felicità, del paesaggio, dell'amore, della giovinezza.
Insomma, non c'è solo morte, dolore e infelicità nei suoi pensieri e nei suoi canti. E poi c'è una bella differenza tra il senso tragico dell'esistenza e il pessimismo, che ne è un cascame ideologico-moralistico, umorale e giaculatorio. Nietzsche, per esempio, era un pensatore tragico, ma ridente; tutt'altro che pessimista, era danzante e lieve, a tratti euforico, pur nella disperazione. Fu negli anni Venti e Trenta che assunse nobiltà il kulturpessimismus, la corrente di pensiero che attraversò la mitteleuropea e si intrecciò alla letteratura della crisi. A cominciarla fu quel profeta piangente di Spengler che dopo il Tramonto dell'Occidente, scrisse un breve saggio, Pessimismus? (pubblicato a mia cura in Spengler Scritti e pensieri, Sugarco), che può dirsi il manifesto del pessimismo.
E che il suo pessimismo nascesse più dalla biografia e dal carattere che dalla filosofia e dallo sguardo alla civiltà, lo si può vedere dai suoi frammenti di diario, melanconici e pessimistici, pubblicati da Adelphi (A me stesso). Un conto, infatti, è la melanconia che di solito accompagna il genio e gli animi sensibili, assai più della serenità e della gioia; un altro, invece, è la visione pessimista, che appartiene come l'ottimismo, al regno artificioso della falsa coscienza. Non può esistere un pessimismo o un ottimismo in assoluto, anche perché non abbiamo termini di paragone per giudicare la vita in sé; non possiamo dire se sia un male o un bene in sé vivere o morire, mancando di conoscere il suo contrario. E invece ne abbiamo troppi, e divergenti, termini di confronto per dare una valutazione attendibile della vita in generale nel paragone con le altre vite. Pessimismo e ottimismo dipendono troppo dall'osservatore e troppo poco dalla realtà; sono impressioni soggettive e non esiti oggettivi.