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Senza Frontiere di Tahar Ben Jelloun
Clandestini come kamikaze
Quando non si ha più nulla da perdere, la morte diventa banale e può essere persino una liberazione
La notte del 2 luglio la polizia marocchina ha arrestato un convoglio di 104 persone: tutti africani che stavano per imbarcarsi alla volta della Spagna. Il giorno prima, un´altra barca, carica di tunisini, era naufragata al largo delle coste della Tunisia e in prossimità di quelle italiane. Si sono contati parecchi morti e dispersi.
Ogni giorno, uomini e donne, a volte con bambini di pochi mesi, tentano di varcare il mare per mettere piede sul suolo europeo. Li chiamano clandestini, o anche, con espressione più sofisticata, ´candidati all´immigrazione clandestina´. In Spagna li hanno soprannominati ´pateras´, che è poi il termine per designare quelle disgraziate imbarcazioni, per nulla affidabili, di proprietà di mafiosi che si arricchiscono sulla miseria altrui.
L´Europa si confronta con questo problema dal 1986, data dell´entrata in vigore dei visti per attraversare i confini dei suoi Stati. Ma al di là dell´aspetto drammatico, si è colpiti dalla determinazione di queste persone venute dal Sud, che non temono più né la polizia, né la morte per annegamento, né le umiliazioni cui vanno incontro quando sono arrestati. Come se avessero la stessa volontà dei kamikaze di andare fino in fondo, di sacrificare tutto pur di riuscire a farcela, e di ricominciare ogni volta che possono. Alcuni di loro non si fermano davanti a nulla. Per buona parte dei 104 africani arrestati al confine marocchino, quello era il quarto tentativo.
Anche il Marocco ha i suoi clandestini: è divenuto ormai l´ultima tappa di un lungo viaggio. Alcuni lasciano l´Africa subsahariana a dorso di cammello, e poi proseguono in pullman o a piedi, per arrivare dopo settimane di marcia a Tangeri o a Ceuta. Quando vedono il mare, è come se il sogno stia già per realizzarsi. Ma qui cadono nelle mani della mafia locale, che promette loro il paradiso per spogliarli del loro denaro. In Marocco, sono definiti ´harragas´, dal verbo arabo ´haraqa´, che vuol dire bruciare. Infatti, per non rischiare di essere rispediti nei paesi d´origine, in caso d´arresto bruciano i loro documenti. Non hanno più un´identità, e quindi è impossibile respingerli. Hanno cancellato il loro paese dalla carta geografica. La loro terra è l´esilio, l´emigrazione, clandestina o legale che sia. Sono ormai una sorta di ebrei erranti in terre ricche, che non lo sono però per tutti. È vero che l´Europa, nonostante il suo passato coloniale e il suo fabbisogno di manodopera, non può "accogliere tutta la miseria del mondo", come aveva detto un ex premier francese, il socialista Michel Rocard.
Allora che fare? Come porre fine a questo fenomeno sempre più drammatico?
Ci si potrebbe riuscire soltanto mettendo in pratica una nuova politica dell´immigrazione. Si tratterebbe di stabilire scientificamente le esigenze di manodopera dell´Europa, e di negoziare un piano d´immigrazione con i paesi del Sud più colpiti dall´indigenza e dalla disoccupazione, nel rispetto della legge così come dei diritti e della dignità di ciascuno.
Tutti gli esperti ripetono che da qui al 2010, l´Europa avrà bisogno di vari milioni di immigrati. Ma nei paesi del Sud le disuguaglianze sociali ed economiche si vanno aggravando. Un conto è negoziare una nuova politica di cooperazione tra il Nord e il Sud; altro è investire nei paesi del Sud. Perché gli uomini e le donne di questi paesi non abbiano più alcuna voglia di lasciarsi tutto alle spalle e di rischiare la vita per entrare clandestinamente in Europa è necessario procurare loro un lavoro in patria. Solo un grande sforzo di investimenti e di condivisione - o in altri termini, una politica meno egoista, più generosa - potrà scoraggiare i candidati all´emigrazione clandestina. Dato che la repressione e i rischi mortali non li trattengono dal reiterare i loro tentativi, occorre andare al di là della sorveglianza e della repressione, e dare loro un appiglio concreto perché ritrovino la speranza di poter vivere nel proprio paese senza dover rischiare la vita perdendo tutto. Se si cerca di forzare la porta del vicino, è perché si è persa ogni nozione di rispetto, di diritto e di dignità. Lo si legge negli occhi delle donne africane recentemente salvate da un naufragio. Una di loro, una madre di famiglia, ha detto davanti alla telecamera mentre allattava il suo bimbo di un anno: "Anche se ora mi rimpatriano, io tornerò". C´è qualcosa che è più forte di tutto: la morte non fa più paura! Come nel caso dei kamikaze, l´istinto di vita cede alla volontà di morte. Quando non si ha più nulla da perdere né da sperare, la morte diventa banale, e può essere persino una liberazione.
Clandestini come kamikaze
Quando non si ha più nulla da perdere, la morte diventa banale e può essere persino una liberazione
La notte del 2 luglio la polizia marocchina ha arrestato un convoglio di 104 persone: tutti africani che stavano per imbarcarsi alla volta della Spagna. Il giorno prima, un´altra barca, carica di tunisini, era naufragata al largo delle coste della Tunisia e in prossimità di quelle italiane. Si sono contati parecchi morti e dispersi.
Ogni giorno, uomini e donne, a volte con bambini di pochi mesi, tentano di varcare il mare per mettere piede sul suolo europeo. Li chiamano clandestini, o anche, con espressione più sofisticata, ´candidati all´immigrazione clandestina´. In Spagna li hanno soprannominati ´pateras´, che è poi il termine per designare quelle disgraziate imbarcazioni, per nulla affidabili, di proprietà di mafiosi che si arricchiscono sulla miseria altrui.
L´Europa si confronta con questo problema dal 1986, data dell´entrata in vigore dei visti per attraversare i confini dei suoi Stati. Ma al di là dell´aspetto drammatico, si è colpiti dalla determinazione di queste persone venute dal Sud, che non temono più né la polizia, né la morte per annegamento, né le umiliazioni cui vanno incontro quando sono arrestati. Come se avessero la stessa volontà dei kamikaze di andare fino in fondo, di sacrificare tutto pur di riuscire a farcela, e di ricominciare ogni volta che possono. Alcuni di loro non si fermano davanti a nulla. Per buona parte dei 104 africani arrestati al confine marocchino, quello era il quarto tentativo.
Anche il Marocco ha i suoi clandestini: è divenuto ormai l´ultima tappa di un lungo viaggio. Alcuni lasciano l´Africa subsahariana a dorso di cammello, e poi proseguono in pullman o a piedi, per arrivare dopo settimane di marcia a Tangeri o a Ceuta. Quando vedono il mare, è come se il sogno stia già per realizzarsi. Ma qui cadono nelle mani della mafia locale, che promette loro il paradiso per spogliarli del loro denaro. In Marocco, sono definiti ´harragas´, dal verbo arabo ´haraqa´, che vuol dire bruciare. Infatti, per non rischiare di essere rispediti nei paesi d´origine, in caso d´arresto bruciano i loro documenti. Non hanno più un´identità, e quindi è impossibile respingerli. Hanno cancellato il loro paese dalla carta geografica. La loro terra è l´esilio, l´emigrazione, clandestina o legale che sia. Sono ormai una sorta di ebrei erranti in terre ricche, che non lo sono però per tutti. È vero che l´Europa, nonostante il suo passato coloniale e il suo fabbisogno di manodopera, non può "accogliere tutta la miseria del mondo", come aveva detto un ex premier francese, il socialista Michel Rocard.
Allora che fare? Come porre fine a questo fenomeno sempre più drammatico?
Ci si potrebbe riuscire soltanto mettendo in pratica una nuova politica dell´immigrazione. Si tratterebbe di stabilire scientificamente le esigenze di manodopera dell´Europa, e di negoziare un piano d´immigrazione con i paesi del Sud più colpiti dall´indigenza e dalla disoccupazione, nel rispetto della legge così come dei diritti e della dignità di ciascuno.
Tutti gli esperti ripetono che da qui al 2010, l´Europa avrà bisogno di vari milioni di immigrati. Ma nei paesi del Sud le disuguaglianze sociali ed economiche si vanno aggravando. Un conto è negoziare una nuova politica di cooperazione tra il Nord e il Sud; altro è investire nei paesi del Sud. Perché gli uomini e le donne di questi paesi non abbiano più alcuna voglia di lasciarsi tutto alle spalle e di rischiare la vita per entrare clandestinamente in Europa è necessario procurare loro un lavoro in patria. Solo un grande sforzo di investimenti e di condivisione - o in altri termini, una politica meno egoista, più generosa - potrà scoraggiare i candidati all´emigrazione clandestina. Dato che la repressione e i rischi mortali non li trattengono dal reiterare i loro tentativi, occorre andare al di là della sorveglianza e della repressione, e dare loro un appiglio concreto perché ritrovino la speranza di poter vivere nel proprio paese senza dover rischiare la vita perdendo tutto. Se si cerca di forzare la porta del vicino, è perché si è persa ogni nozione di rispetto, di diritto e di dignità. Lo si legge negli occhi delle donne africane recentemente salvate da un naufragio. Una di loro, una madre di famiglia, ha detto davanti alla telecamera mentre allattava il suo bimbo di un anno: "Anche se ora mi rimpatriano, io tornerò". C´è qualcosa che è più forte di tutto: la morte non fa più paura! Come nel caso dei kamikaze, l´istinto di vita cede alla volontà di morte. Quando non si ha più nulla da perdere né da sperare, la morte diventa banale, e può essere persino una liberazione.