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L'economia del Terzo Millennio
Intervista a Milton Friedman
New York. «La globalizzazione non esiste. Oppure, se preferite, è sempre esistita. Quindi sarebbe ora di mettere da parte tutti questi discorsi su come governarla e sulla nuova architettura mondiale dell'economia. Lasciamo lavorare il mercato e le cose si metterano per il verso giusto». Milton Friedman ha deciso di aprire il secolo con una provocazione, sorridendo dell'affanno con cui alcuni suoi colleghi, e alcuni politici, cercano di mettere le briglie a un animale che per definizione non può essere domato.La storia di Friedman è un po' la storia del secolo che si è appena concluso, non solo dal punto di vista economico. Milton infatti nacque il 31 luglio del 1912 a Brooklyn, da genitori ebrei fuggiti negli Stati Uniti.
Oggi il loro Paese di origine si chiama Berehovo e sta in Ucraina, ma durante la sua esistenza ha cambiato padrone secondo i capricci della storia, passando dalle mani dei nazisti a quelle dei sovietici. È un caso, secondo Friedman, che quella terra straziata e contesa abbia potuto consentire a un suo figlio di diventare l'economista più influente della nostra epoca, così come fu un caso il suo incontro con la moglie Rose, ebrea scappata dalla Russia dopo un avventuroso passaggio in Polonia.
Ma come ogni buona sintesi della vita umana, Milton non è solo un simbolo delle follie che durante il secolo scorso hanno attraversato l'Europa. La sua esistenza, infatti, è anche uno dei molti esempi attraverso cui si spiega e si racconta il sogno americano, realizzato nell'era definita come il secolo americano. Infatti a Brooklyn, e poi in New Jersey, il padre si arrangiava dentro un negozietto, per tirare avanti la sua famiglia. E quando Milton riuscì ad arrivare alla Rutgers University, dovette accettare un posto da cameriere in un ristorante, per riuscire a far quadrare i conti alla fine del mese: «Stavamo uscendo dalla Grande depressione - racconta - e quindi non c'erano troppi soldi. L'accordo era che io servivo ai tavoli durante il pranzo e in cambio ricevevo un pasto gratis. La fine del mio turno, però, coincideva quasi con l'ora d'inizio di un corso che avevo deciso di frequentare e quindi dovevo ingozzarmi come una furia per riscuotere il mio salario. È strano come la vita lasci certi segni, perché da allora in poi non ho mai smesso di mangiare di corsa, anche ora che avrei tutto il tempo per farlo con calma». Quello studente cameriere sarebbe riuscito a prendere il dottorato alla Columbia University di New York e poi all'Università di Chicago, vincere il premio Nobel per l'economia nel 1976 e diventare il consigliere di due presidenti degli Stati Uniti e di parecchi altri capi di governo in giro per il mondo. Negli ultimi anni l'ho incontrato diverse volte per raccogliere i suoi giudizi, le sue analisi e i suoi racconti, che uso anche in questa intervista, frutto di un recente colloquio con lui e occasione di una riflessione più ampia sul secolo di cui egli è uno dei grandi personaggi.
Il giornale Washington Post ha pubblicato un editoriale in cui diceva che il secolo scorso, cominciato sotto l'influenza economica di John Maynard Keynes, si è chiuso sotto quella di Milton Friedman. Il «friedmanismo», secondo il Post, è diventato ormai un patrimonio universale, scalzando il keynesianismo. Magari qualche politico discute ancora le sfumature della dottrina del professore di Chicago, che nel frattempo è andato a vivere in California, ma le fondamenta del monetarismo sono state gettate ovunque, e quasi tutti le considerano con rispetto. Si sente davvero il trionfatore del secolo, sul piano economico?
Nella retorica forse, ma nella pratica no. Durante gli ultimi anni c'è stato un grande spostamento nei toni del dibattito, e tutti sembrano essere favorevoli a ridurre le dimensioni dello Stato, lasciare il mercato libero di agire, e usare la quantità di moneta circolante come strumento per accelerare o frenare l'economia. Ma sono chiacchiere. La sostanza degli atti dei governi è ben diversa, e lo dimostrano Paesi come il Giappone, dove i politici lanciano una politica keynesiana dopo l'altra. Anche in America, del resto, la vittoria è solo retorica. Le dimensioni dello Stato, infatti, sono aumentate durante gli ultimi anni e non so predire quando vedremo dei veri mutamenti di sostanza.
Il successo del «friedmanismo», insomma, è ancora un falso storico?
In realtà tutti i cambiamenti profondi devono essere preceduti da una fase di mutamento nella retorica. La storia ci ha insegnato che le novità economiche non si impongono mai di colpo. Per influenzare davvero il comportamento dei governi serve tempo, e il processo di trasformazione viene messo in moto prima di tutto dai cambiamenti nella retorica. Il socialismo, ad esempio, dominava il dibattito economico europeo già all'inizio di questo secolo, quando venne fondata la Fabian Society. Ma le prime forme di socialismo pratico, Urss a parte, le abbiamo viste comparire in Gran Bretagna soltanto dopo la fine della seconda guerra mondiale. Dunque sono serviti quasi cinquant'anni, prima che la retorica si trasformasse in azione. Lo spostamento della discussione verso i temi che io ho sempre sostenuto è cominciato con la caduta del muro di Berlino e la fine dell'Unione Sovietica: da allora sono passati poco più di dieci anni e quindi avremo bisogno ancora di parecchio tempo prima di capire se il mutamento è autentico o se si tratta solo di chiacchiere.
Proviamo a procedere con ordine. Durante la Grande Depressione lei era un ragazzo e stava cominciando la sua carriera universitaria. Poi però ha avuto la possibilità di studiare quello che forse è stato l'evento economico più traumatico del secolo scorso e ha dato la colpa soprattutto alla Federal reserve, incapace di usare bene gli strumenti della politica monetaria. Altri analisti, però, non credono che la Banca centrale americana abbia avuto tanta responsabilità nella Grande depressione, e distribuiscono i rimproveri, citando in generale i limiti del capitalismo.
Questo dibattito conferma il fatto che certe idee non sono ancora state digerite completamente. Negli anni trenta, gli economisti erano convinti che la politica monetaria fosse come un laccio: potevi usarlo per stringere e frenare, ma non per spingere e accelerare. La Federal reserve strozzò la circolazione della moneta e in questo modo contribuì a rendere drammatica la crisi, che altrimenti sarebbe stata superabile senza tanti danni. Oggi molti hanno capito che la politica monetaria si può usare non solo per frenare l'inflazione, ma anche per alimentare i consumi e la crescita, e quindi per tirare e per spingere. Nella pratica, però, c'è ancora chi non accetta questo consiglio. La dimostrazione più lampante è quella del Giappone che, dopo aver dato l'impressione di essere pronto a dominare il pianeta, è precipitato in una crisi lunga anni, capace di danneggiare un'intera regione del mondo. Le banche giapponesi sanno benissimo cosa dovrebbero fare per stimolare la circolazione della moneta, accettando un momentaneo aumento dei prezzi in cambio della ripresa economica. Però non si fidano e stanno ferme, arrendendosi piuttosto alle politiche keynesiane del governo. Il risultato è che Tokio da anni non riesce a rialzare la testa.
Lei stesso, però, ha avuto bisogno di tempo per convincersi. Nella sua autobiografia Two Lucky People, pubblicata da poco insieme a sua moglie Rose, lei dice di essersi sorpreso rileggendo le note di una testimonianza sulle condizioni dell'economia negli Stati Uniti, offerta al Congresso nel 1942. Quel discorso, infatti, era pieno di riferimenti keynesiani e non c'era neppure una riga dedicata all'importanza della moneta. Quando e come è avvenuta la conversione?
La conversione in realtà non c'è mai stata. La trasformazione delle mie idee è stata frutto di un processo progressivo e non è accaduta di colpo. Alla fine degli anni Cinquanta, però, la mia posizione era già chiara, e il libro Capitalism and Freedom che pubblicai nel 1962 racchiude ancora l'essenza delle mie teorie. Quanto a quella testimonianza del 1942, non so dirvi perché fosse così keynesiana. Probabilmente riflettevo il clima culturale di quell'epoca. Allora, del resto, mi occupavo soprattutto di statistica e quindi non avevo fatto abbastanza lavoro per muovermi verso i miei nuovi indirizzi.
Durante gli anni sessanta cominciò il suo coinvolgimento nella politica, con la collaborazione alla campagna elettorale di Barry Goldwater, candidato del Partito repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti. Il suo ingresso nello studio ovale della Casa Bianca, però, lo fece con Richard Nixon. Ci può raccontare come nacque questo rapporto, con il presidente forse più discusso nella storia del Paese?
Il primo incontro con Nixon lo ebbi quando era ancora presidente Eisenhower. Allen Wallis, un mio amico, era l'assistente speciale del capo della Casa Bianca, incaricato di lavorare con la Commissione per la stabilità dei prezzi e la crescita economica, guidata proprio dall'allora vice presidente Nixon. Non mi ricordo l'occasione dell'appuntamento, ma ricordo che ebbi un'impressione positiva. Nixon sembrava un uomo intelligente, disposto alla discussione intellettuale e personalmente gradevole. In quegli stessi anni lui sviluppò un rapporto di grande stima con Arthur Burns, mio ex professore, che ricopriva il ruolo di capo del Consiglio economico di Eisenhower. Quando nel 1968 Nixon lanciò la sua campagna presidenziale, chiese a Burns di guidare un gruppo che avrebbe dovuto consigliarlo sul piano economico, studiando anche i programmi da attuare in vista della possibile elezione. Burns mi reclutò e insieme chiamammo anche George Shultz, che poi sarebbe diventato segretario di Stato con Reagan. In questo modo cominciò la mia collaborazione diretta con Nixon.
All'inizio, dunque, sembrava una prospettiva interessante.
Senza dubbio. Ma purtroppo mi dovetti ricredere abbastanza presto. Dopo la vittoria nelle presidenziali, Nixon aveva stabilito il suo quartier generale provvisorio al Pierre Hotel di New York, dove andai a trovarlo per presentargli l'idea a cui avevo lavorato personalmente. Si trattava di una «Proposta per risolvere il problema della bilancia dei pagamenti americana», in cui suggerivo di approfittare dei primi giorni della nuova amministrazione per lasciar fluttuare il dollaro e liberarlo dal Gold standard, ossia l'impegno a convertire la moneta americana in oro, al prezzo fisso di trentacinque dollari per oncia. Nixon non mi diede ascolto. Ma poco tempo dopo, la richiesta britannica di rispettare il Gold standard lo mise con le spalle al muro. Quindi il 15 agosto del 1971, in condizioni ben più avverse di quando io gli avevo suggerito di agire, il presidente dovette cedere.
Secondo lei quella decisione, per aprire una parentesi sul presente, avrebbe dovuto significare anche la fine del sistema di Bretton Woods, e quindi la chiusura del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Questa sua convinzione resta valida anche oggi, con le crisi economiche che negli anni scorsi abbiamo visto esplodere in Asia, Russia e Brasile?
È ancora più valida. Il Fondo monetario internazionale venne creato al vertice di Bretton Woods con uno scopo preciso: garantire la stabilità dei cambi fissi. Una volta presa la decisione di abbandonare il Gold standard, i cambi fissi non esistevano più e quindi la sua funzione si era esaurita. Purtroppo, però, la storia ci ha insegnato che non esistono istituzioni più eterne delle grandi burocrazie, soprattutto se sono agenzie internazionali che sfuggono al controllo di un solo Paese. Quindi dal 1971 in poi, il Fondo non ha fatto altro che cercare nuovi compiti, per giustificare la sua sopravvivenza. Alla fine ha scelto di trasformarsi in agenzia di prestiti da ultima risorsa per i governi in crisi, e lungo la strada di questa trasformazione ha lasciato i cadaveri di molti disastri, che continua a provocare anche oggi.
Torneremo sulle crisi economiche internazionali e il ruolo dell'Fmi. Ma ora riprendiamo il filo del discorso su Nixon. C'è qualcosa che salva di quegli anni passati alla Casa Bianca?
Senza dubbio. Il progetto di cui sono più orgoglioso è quello che portò alla fine della leva militare e alla costituzione di un esercito di professionisti. Io ero assolutamente contrario alla leva, perché la consideravo una privazione del diritto di scelta del cittadino. Insieme ad altri, suggerii a Nixon di eliminarla e lui costituì una commissione per studiare il problema. In genere queste commissioni finiscono nel nulla e servono soprattutto ad accantonare i temi scottanti. La guerra del Vietnam, però, aveva reso troppo importante la questione della leva e quindi noi riuscimmo a portare a termine il nostro lavoro. Lo scambio più acceso lo ebbi proprio con il generale Westmoreland, comandante supremo delle truppe americane in Indocina. Durante una testimonianza disse che era contrario al nostro progetto, perché non voleva comandare un'armata di mercenari. Io lo interruppi e gli chiesi se preferiva comandare un'armata di schiavi. Lui rispose che non voleva sentir apostrofare i nostri patriottici soldati precettati come schiavi e io ribattei che non volevo sentir apostrofare i nostri patriottici volontari come mercenari. Westmoreland smise di parlare in quei toni e il 20 febbraio del 1970 noi completammo la nostra inchiesta. Il 27 gennaio del 1973 la leva venne abolita e gli Stati Uniti cominciarono a costruire un esercito professionale.
Nel 1973 Nixon era già stato eletto per il suo secondo mandato e il Washington Post stava cominciando a fare le prime rivelazioni sullo scandalo Watergate. Come ha vissuto lei quel dramma nazionale?
Dal mio punto di vista, Nixon ha fatto molto più male al Paese imponendo il controllo dei prezzi e dei salari nel 1971, che non con il Watergate. Quella decisione, infatti, fu presa in contemporanea con l'abolizione del Gold standard, perché era molto popolare. In sostanza serviva a mascherare la fine della conversione del dollaro, unendola a un provvedimento sbagliato di carattere interno. Sul piano economico, era una scelta che danneggiava il Paese. Sul piano politico, invece, mi fece capire che Nixon era pronto a sacrificare il bene pubblico, per garantire il suo vantaggio personale. Un altro episodio simile era avvenuto nel 1971, durante un incontro nello studio ovale. Da tempo il presidente stava facendo pressioni su Burns, affinché la Federal reserve abbassasse più rapidamente il costo del denaro. Le elezioni del 1972 infatti si stavano avvicinando e Nixon voleva che l'economia cominciasse a espandersi più velocemente, per favorire la sua vittoria. Io gli feci notare che un drastico aumento della moneta in circolazione non era desiderabile, perché avrebbe provocato un forte rialzo dell'inflazione. Lui mi rispose così: ci preoccuperemo di questo problema quando arriverà.
Ha avuto un chiarimento con Nixon, dopo il Watergate?
Ci siamo incontrati una volta, ma non abbiamo fatto una discussione molto profonda. Io ero un netto sostenitore di Nixon nel 1968, e un po' meno nel 1972, anche se lo votai lo stesso. A questo punto devo confessare di non essere sicuro che quel sostegno fosse giustificato. Pochi presidenti avevano dimostrato tanta intelligenza e pochi erano arrivati così vicini alla mia idea di gestione del governo: i risultati però sono stati molto inferiori alla retorica. In teoria Nixon era favorevole a uno Stato più piccolo e meno intrusivo, ma alla fine del suo mandato la spesa pubblica era rimasta invariata. L'esplosione della nuova attività regolativa del governo, poi, ebbe origine proprio durante la sua amministrazione e fra il 1968 e il 1974 il numero delle pagine dei regolamenti federali crebbe da 20 mila a 46 mila. La sua eredità è complessa come la sua personalità. Era un uomo intensamente privato, quasi timido, eppure visse tutta la sua esistenza in pubblico. Era ambizioso e pronto a sacrificare i suoi principi per ottenere vantaggi politici, ma sulla scena internazionale fu capace di decisioni molto coraggiose. Io non sono mai riuscito a unirmi al gruppo di chi odia Nixon. Piuttosto rimpiango il fatto che il suo talento non venne mai usato davvero e compatisco la tragedia personale a cui si è sottoposto per un eccesso di ambizione.
All'epoca in cui Nixon aveva lasciato la Casa Bianca, lei era tornato all'università di Chicago. E nel 1975 avvenne un altro episodio controverso della sua carriera: il viaggio nel Cile di Pinochet.
Ho cercato di chiarire questa vicenda in varie occasioni e ci proverò ancora. Io non sono mai stato un consigliere di Pinochet e della sua giunta e non condivido i sistemi autoritari che utilizzò. Il mio coinvolgimento con il Cile si limita a una visita di sei giorni, che feci nel marzo del 1975, su invito di un'organizzazione privata che si chiamava il Banco Hipotecario. Andai nel Paese sudamericano, feci alcune conferenze in diverse università e poi ebbi un solo incontro con Pinochet e alcuni membri del suo governo. Lui mi chiese di dargli dei suggerimenti per risolvere i problemi economici del Cile e io gli spedii una nota. Tutto qui.
Intervista a Milton Friedman
New York. «La globalizzazione non esiste. Oppure, se preferite, è sempre esistita. Quindi sarebbe ora di mettere da parte tutti questi discorsi su come governarla e sulla nuova architettura mondiale dell'economia. Lasciamo lavorare il mercato e le cose si metterano per il verso giusto». Milton Friedman ha deciso di aprire il secolo con una provocazione, sorridendo dell'affanno con cui alcuni suoi colleghi, e alcuni politici, cercano di mettere le briglie a un animale che per definizione non può essere domato.La storia di Friedman è un po' la storia del secolo che si è appena concluso, non solo dal punto di vista economico. Milton infatti nacque il 31 luglio del 1912 a Brooklyn, da genitori ebrei fuggiti negli Stati Uniti.
Oggi il loro Paese di origine si chiama Berehovo e sta in Ucraina, ma durante la sua esistenza ha cambiato padrone secondo i capricci della storia, passando dalle mani dei nazisti a quelle dei sovietici. È un caso, secondo Friedman, che quella terra straziata e contesa abbia potuto consentire a un suo figlio di diventare l'economista più influente della nostra epoca, così come fu un caso il suo incontro con la moglie Rose, ebrea scappata dalla Russia dopo un avventuroso passaggio in Polonia.
Ma come ogni buona sintesi della vita umana, Milton non è solo un simbolo delle follie che durante il secolo scorso hanno attraversato l'Europa. La sua esistenza, infatti, è anche uno dei molti esempi attraverso cui si spiega e si racconta il sogno americano, realizzato nell'era definita come il secolo americano. Infatti a Brooklyn, e poi in New Jersey, il padre si arrangiava dentro un negozietto, per tirare avanti la sua famiglia. E quando Milton riuscì ad arrivare alla Rutgers University, dovette accettare un posto da cameriere in un ristorante, per riuscire a far quadrare i conti alla fine del mese: «Stavamo uscendo dalla Grande depressione - racconta - e quindi non c'erano troppi soldi. L'accordo era che io servivo ai tavoli durante il pranzo e in cambio ricevevo un pasto gratis. La fine del mio turno, però, coincideva quasi con l'ora d'inizio di un corso che avevo deciso di frequentare e quindi dovevo ingozzarmi come una furia per riscuotere il mio salario. È strano come la vita lasci certi segni, perché da allora in poi non ho mai smesso di mangiare di corsa, anche ora che avrei tutto il tempo per farlo con calma». Quello studente cameriere sarebbe riuscito a prendere il dottorato alla Columbia University di New York e poi all'Università di Chicago, vincere il premio Nobel per l'economia nel 1976 e diventare il consigliere di due presidenti degli Stati Uniti e di parecchi altri capi di governo in giro per il mondo. Negli ultimi anni l'ho incontrato diverse volte per raccogliere i suoi giudizi, le sue analisi e i suoi racconti, che uso anche in questa intervista, frutto di un recente colloquio con lui e occasione di una riflessione più ampia sul secolo di cui egli è uno dei grandi personaggi.
Il giornale Washington Post ha pubblicato un editoriale in cui diceva che il secolo scorso, cominciato sotto l'influenza economica di John Maynard Keynes, si è chiuso sotto quella di Milton Friedman. Il «friedmanismo», secondo il Post, è diventato ormai un patrimonio universale, scalzando il keynesianismo. Magari qualche politico discute ancora le sfumature della dottrina del professore di Chicago, che nel frattempo è andato a vivere in California, ma le fondamenta del monetarismo sono state gettate ovunque, e quasi tutti le considerano con rispetto. Si sente davvero il trionfatore del secolo, sul piano economico?
Nella retorica forse, ma nella pratica no. Durante gli ultimi anni c'è stato un grande spostamento nei toni del dibattito, e tutti sembrano essere favorevoli a ridurre le dimensioni dello Stato, lasciare il mercato libero di agire, e usare la quantità di moneta circolante come strumento per accelerare o frenare l'economia. Ma sono chiacchiere. La sostanza degli atti dei governi è ben diversa, e lo dimostrano Paesi come il Giappone, dove i politici lanciano una politica keynesiana dopo l'altra. Anche in America, del resto, la vittoria è solo retorica. Le dimensioni dello Stato, infatti, sono aumentate durante gli ultimi anni e non so predire quando vedremo dei veri mutamenti di sostanza.
Il successo del «friedmanismo», insomma, è ancora un falso storico?
In realtà tutti i cambiamenti profondi devono essere preceduti da una fase di mutamento nella retorica. La storia ci ha insegnato che le novità economiche non si impongono mai di colpo. Per influenzare davvero il comportamento dei governi serve tempo, e il processo di trasformazione viene messo in moto prima di tutto dai cambiamenti nella retorica. Il socialismo, ad esempio, dominava il dibattito economico europeo già all'inizio di questo secolo, quando venne fondata la Fabian Society. Ma le prime forme di socialismo pratico, Urss a parte, le abbiamo viste comparire in Gran Bretagna soltanto dopo la fine della seconda guerra mondiale. Dunque sono serviti quasi cinquant'anni, prima che la retorica si trasformasse in azione. Lo spostamento della discussione verso i temi che io ho sempre sostenuto è cominciato con la caduta del muro di Berlino e la fine dell'Unione Sovietica: da allora sono passati poco più di dieci anni e quindi avremo bisogno ancora di parecchio tempo prima di capire se il mutamento è autentico o se si tratta solo di chiacchiere.
Proviamo a procedere con ordine. Durante la Grande Depressione lei era un ragazzo e stava cominciando la sua carriera universitaria. Poi però ha avuto la possibilità di studiare quello che forse è stato l'evento economico più traumatico del secolo scorso e ha dato la colpa soprattutto alla Federal reserve, incapace di usare bene gli strumenti della politica monetaria. Altri analisti, però, non credono che la Banca centrale americana abbia avuto tanta responsabilità nella Grande depressione, e distribuiscono i rimproveri, citando in generale i limiti del capitalismo.
Questo dibattito conferma il fatto che certe idee non sono ancora state digerite completamente. Negli anni trenta, gli economisti erano convinti che la politica monetaria fosse come un laccio: potevi usarlo per stringere e frenare, ma non per spingere e accelerare. La Federal reserve strozzò la circolazione della moneta e in questo modo contribuì a rendere drammatica la crisi, che altrimenti sarebbe stata superabile senza tanti danni. Oggi molti hanno capito che la politica monetaria si può usare non solo per frenare l'inflazione, ma anche per alimentare i consumi e la crescita, e quindi per tirare e per spingere. Nella pratica, però, c'è ancora chi non accetta questo consiglio. La dimostrazione più lampante è quella del Giappone che, dopo aver dato l'impressione di essere pronto a dominare il pianeta, è precipitato in una crisi lunga anni, capace di danneggiare un'intera regione del mondo. Le banche giapponesi sanno benissimo cosa dovrebbero fare per stimolare la circolazione della moneta, accettando un momentaneo aumento dei prezzi in cambio della ripresa economica. Però non si fidano e stanno ferme, arrendendosi piuttosto alle politiche keynesiane del governo. Il risultato è che Tokio da anni non riesce a rialzare la testa.
Lei stesso, però, ha avuto bisogno di tempo per convincersi. Nella sua autobiografia Two Lucky People, pubblicata da poco insieme a sua moglie Rose, lei dice di essersi sorpreso rileggendo le note di una testimonianza sulle condizioni dell'economia negli Stati Uniti, offerta al Congresso nel 1942. Quel discorso, infatti, era pieno di riferimenti keynesiani e non c'era neppure una riga dedicata all'importanza della moneta. Quando e come è avvenuta la conversione?
La conversione in realtà non c'è mai stata. La trasformazione delle mie idee è stata frutto di un processo progressivo e non è accaduta di colpo. Alla fine degli anni Cinquanta, però, la mia posizione era già chiara, e il libro Capitalism and Freedom che pubblicai nel 1962 racchiude ancora l'essenza delle mie teorie. Quanto a quella testimonianza del 1942, non so dirvi perché fosse così keynesiana. Probabilmente riflettevo il clima culturale di quell'epoca. Allora, del resto, mi occupavo soprattutto di statistica e quindi non avevo fatto abbastanza lavoro per muovermi verso i miei nuovi indirizzi.
Durante gli anni sessanta cominciò il suo coinvolgimento nella politica, con la collaborazione alla campagna elettorale di Barry Goldwater, candidato del Partito repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti. Il suo ingresso nello studio ovale della Casa Bianca, però, lo fece con Richard Nixon. Ci può raccontare come nacque questo rapporto, con il presidente forse più discusso nella storia del Paese?
Il primo incontro con Nixon lo ebbi quando era ancora presidente Eisenhower. Allen Wallis, un mio amico, era l'assistente speciale del capo della Casa Bianca, incaricato di lavorare con la Commissione per la stabilità dei prezzi e la crescita economica, guidata proprio dall'allora vice presidente Nixon. Non mi ricordo l'occasione dell'appuntamento, ma ricordo che ebbi un'impressione positiva. Nixon sembrava un uomo intelligente, disposto alla discussione intellettuale e personalmente gradevole. In quegli stessi anni lui sviluppò un rapporto di grande stima con Arthur Burns, mio ex professore, che ricopriva il ruolo di capo del Consiglio economico di Eisenhower. Quando nel 1968 Nixon lanciò la sua campagna presidenziale, chiese a Burns di guidare un gruppo che avrebbe dovuto consigliarlo sul piano economico, studiando anche i programmi da attuare in vista della possibile elezione. Burns mi reclutò e insieme chiamammo anche George Shultz, che poi sarebbe diventato segretario di Stato con Reagan. In questo modo cominciò la mia collaborazione diretta con Nixon.
All'inizio, dunque, sembrava una prospettiva interessante.
Senza dubbio. Ma purtroppo mi dovetti ricredere abbastanza presto. Dopo la vittoria nelle presidenziali, Nixon aveva stabilito il suo quartier generale provvisorio al Pierre Hotel di New York, dove andai a trovarlo per presentargli l'idea a cui avevo lavorato personalmente. Si trattava di una «Proposta per risolvere il problema della bilancia dei pagamenti americana», in cui suggerivo di approfittare dei primi giorni della nuova amministrazione per lasciar fluttuare il dollaro e liberarlo dal Gold standard, ossia l'impegno a convertire la moneta americana in oro, al prezzo fisso di trentacinque dollari per oncia. Nixon non mi diede ascolto. Ma poco tempo dopo, la richiesta britannica di rispettare il Gold standard lo mise con le spalle al muro. Quindi il 15 agosto del 1971, in condizioni ben più avverse di quando io gli avevo suggerito di agire, il presidente dovette cedere.
Secondo lei quella decisione, per aprire una parentesi sul presente, avrebbe dovuto significare anche la fine del sistema di Bretton Woods, e quindi la chiusura del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Questa sua convinzione resta valida anche oggi, con le crisi economiche che negli anni scorsi abbiamo visto esplodere in Asia, Russia e Brasile?
È ancora più valida. Il Fondo monetario internazionale venne creato al vertice di Bretton Woods con uno scopo preciso: garantire la stabilità dei cambi fissi. Una volta presa la decisione di abbandonare il Gold standard, i cambi fissi non esistevano più e quindi la sua funzione si era esaurita. Purtroppo, però, la storia ci ha insegnato che non esistono istituzioni più eterne delle grandi burocrazie, soprattutto se sono agenzie internazionali che sfuggono al controllo di un solo Paese. Quindi dal 1971 in poi, il Fondo non ha fatto altro che cercare nuovi compiti, per giustificare la sua sopravvivenza. Alla fine ha scelto di trasformarsi in agenzia di prestiti da ultima risorsa per i governi in crisi, e lungo la strada di questa trasformazione ha lasciato i cadaveri di molti disastri, che continua a provocare anche oggi.
Torneremo sulle crisi economiche internazionali e il ruolo dell'Fmi. Ma ora riprendiamo il filo del discorso su Nixon. C'è qualcosa che salva di quegli anni passati alla Casa Bianca?
Senza dubbio. Il progetto di cui sono più orgoglioso è quello che portò alla fine della leva militare e alla costituzione di un esercito di professionisti. Io ero assolutamente contrario alla leva, perché la consideravo una privazione del diritto di scelta del cittadino. Insieme ad altri, suggerii a Nixon di eliminarla e lui costituì una commissione per studiare il problema. In genere queste commissioni finiscono nel nulla e servono soprattutto ad accantonare i temi scottanti. La guerra del Vietnam, però, aveva reso troppo importante la questione della leva e quindi noi riuscimmo a portare a termine il nostro lavoro. Lo scambio più acceso lo ebbi proprio con il generale Westmoreland, comandante supremo delle truppe americane in Indocina. Durante una testimonianza disse che era contrario al nostro progetto, perché non voleva comandare un'armata di mercenari. Io lo interruppi e gli chiesi se preferiva comandare un'armata di schiavi. Lui rispose che non voleva sentir apostrofare i nostri patriottici soldati precettati come schiavi e io ribattei che non volevo sentir apostrofare i nostri patriottici volontari come mercenari. Westmoreland smise di parlare in quei toni e il 20 febbraio del 1970 noi completammo la nostra inchiesta. Il 27 gennaio del 1973 la leva venne abolita e gli Stati Uniti cominciarono a costruire un esercito professionale.
Nel 1973 Nixon era già stato eletto per il suo secondo mandato e il Washington Post stava cominciando a fare le prime rivelazioni sullo scandalo Watergate. Come ha vissuto lei quel dramma nazionale?
Dal mio punto di vista, Nixon ha fatto molto più male al Paese imponendo il controllo dei prezzi e dei salari nel 1971, che non con il Watergate. Quella decisione, infatti, fu presa in contemporanea con l'abolizione del Gold standard, perché era molto popolare. In sostanza serviva a mascherare la fine della conversione del dollaro, unendola a un provvedimento sbagliato di carattere interno. Sul piano economico, era una scelta che danneggiava il Paese. Sul piano politico, invece, mi fece capire che Nixon era pronto a sacrificare il bene pubblico, per garantire il suo vantaggio personale. Un altro episodio simile era avvenuto nel 1971, durante un incontro nello studio ovale. Da tempo il presidente stava facendo pressioni su Burns, affinché la Federal reserve abbassasse più rapidamente il costo del denaro. Le elezioni del 1972 infatti si stavano avvicinando e Nixon voleva che l'economia cominciasse a espandersi più velocemente, per favorire la sua vittoria. Io gli feci notare che un drastico aumento della moneta in circolazione non era desiderabile, perché avrebbe provocato un forte rialzo dell'inflazione. Lui mi rispose così: ci preoccuperemo di questo problema quando arriverà.
Ha avuto un chiarimento con Nixon, dopo il Watergate?
Ci siamo incontrati una volta, ma non abbiamo fatto una discussione molto profonda. Io ero un netto sostenitore di Nixon nel 1968, e un po' meno nel 1972, anche se lo votai lo stesso. A questo punto devo confessare di non essere sicuro che quel sostegno fosse giustificato. Pochi presidenti avevano dimostrato tanta intelligenza e pochi erano arrivati così vicini alla mia idea di gestione del governo: i risultati però sono stati molto inferiori alla retorica. In teoria Nixon era favorevole a uno Stato più piccolo e meno intrusivo, ma alla fine del suo mandato la spesa pubblica era rimasta invariata. L'esplosione della nuova attività regolativa del governo, poi, ebbe origine proprio durante la sua amministrazione e fra il 1968 e il 1974 il numero delle pagine dei regolamenti federali crebbe da 20 mila a 46 mila. La sua eredità è complessa come la sua personalità. Era un uomo intensamente privato, quasi timido, eppure visse tutta la sua esistenza in pubblico. Era ambizioso e pronto a sacrificare i suoi principi per ottenere vantaggi politici, ma sulla scena internazionale fu capace di decisioni molto coraggiose. Io non sono mai riuscito a unirmi al gruppo di chi odia Nixon. Piuttosto rimpiango il fatto che il suo talento non venne mai usato davvero e compatisco la tragedia personale a cui si è sottoposto per un eccesso di ambizione.
All'epoca in cui Nixon aveva lasciato la Casa Bianca, lei era tornato all'università di Chicago. E nel 1975 avvenne un altro episodio controverso della sua carriera: il viaggio nel Cile di Pinochet.
Ho cercato di chiarire questa vicenda in varie occasioni e ci proverò ancora. Io non sono mai stato un consigliere di Pinochet e della sua giunta e non condivido i sistemi autoritari che utilizzò. Il mio coinvolgimento con il Cile si limita a una visita di sei giorni, che feci nel marzo del 1975, su invito di un'organizzazione privata che si chiamava il Banco Hipotecario. Andai nel Paese sudamericano, feci alcune conferenze in diverse università e poi ebbi un solo incontro con Pinochet e alcuni membri del suo governo. Lui mi chiese di dargli dei suggerimenti per risolvere i problemi economici del Cile e io gli spedii una nota. Tutto qui.