Un'agenda per la politica dei redditi
di Guglielmo Epifani
L'articolo che pubblichiamo è stato scritto per la rivista trimestrale "Quaderni di rassegna sindacale Lavori" n.2, nei prossimi giorni
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La prima riflessione su cui intendo richiamare l’attenzione riguarda la tesi secondo cui negli anni novanta è sostanzialmente cresciuta la diseguaglianza tra i paesi, all’interno dei paesi, tra le famiglie, per due motivi: da un lato ragioni di mercato, dall’altro politiche redistributive non coerenti con un disegno di coesione sociale. Questa tesi è confermata da quello che abbiamo visto e verificato sul nostro terreno; credo che questo vada detto con forza, perché vedo in giro troppa faciloneria su alcuni discorsi anche d’impostazione contrattuale.
Negli ultimi anni abbiamo assistito non solo alla caduta del valore reale delle retribuzioni del lavoro dipendente, non solo a uno spostamento del reddito generato in favore di profitti e tasse, ma anche a una tendenziale, crescente divisione all’interno della stessa fascia dei lavoratori dipendenti. Questa è avvenuta in tre direzioni: tra nord e sud, visto che le retribuzioni del sud sono cresciute percentualmente meno di quelle del nord; tra uomo e donna, le retribuzioni del lavoro femminile sono cresciute percentualmente meno di quelle maschili; tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori «instabili», atipici od oggetto di processi di ristrutturazione, che ne hanno ridotto diritti e tutele.
Se a questo aggiungiamo il fatto che le politiche fiscali del governo hanno il segno che tutti conosciamo, e che solo negli ultimi due anni il combinato disposto tra la non restituzione del drenaggio fiscale e il nuovo intervento fiscale sul Tfr ha significato oltre 3 miliardi di euro in meno per il lavoro dipendente, ecco che emerge in modo abbastanza chiaro il segno e la qualità dei processi sociali e di redistribuzione che sono stati portati avanti.
Questa tesi è importante per tante ragioni. Ne voglio sottolineare una, in particolare: la ricchezza del paese è cresciuta dello 0,3 per cento nel 2003 – cioè, di nulla –; il nostro paese oggi ha costi unitari del lavoro tra i più bassi in Europa, un sistema di flessibilità tra i più alti in Europa, e comincia a far registrare fenomeni di diseguaglianza sociale e di dispersione retributiva tra i più rilevanti in Europa; ciononostante, lo sviluppo latita. Questa è la tesi definitiva che dovrebbe portare, non solo noi che ne siamo convinti da tempo, ma anche la nuova presidenza di Confindustria, ad esempio, a ragionare in termini diversi sui veri fattori di assenza di competitività e sviluppo del nostro sistema produttivo, a ricercare in altri campi gli strumenti e i terreni sui quali intervenire.
Un piccolo inciso sulla flessibilità. Quella che abbiamo oggi – che ci porta, con lo 0,3 per cento di sviluppo, a un aumento del tasso di occupazione rilevante anche nel 2003 – non è la flessibilità della nuova legge 30. Perché quest’ultima – dobbiamo dirlo con chiarezza – ancora non è in campo. Per tante ragioni, compreso il fatto che questo governo, nello scriverla, ha creato un mostro giuridico in cui, per la nostra opposizione e per l’assenza di certezza sul versante delle imprese, oggi praticamente in quasi nessuna parte del sistema produttivo vengono utilizzati i singoli istituti. Questa flessibilità, insomma, in parte è figlia della vecchia stagione.
Torniamo al tema del mancato sviluppo. Se la situazione è quella che descrivevo prima, è evidente che i problemi da affrontare sono totalmente di tutt’altro segno, avendo a che fare con la nostra specializzazione produttiva, i ritardi e le contraddizioni nel nostro sistema di impresa, la scarsa propensione all’investimento sui prodotti e in innovazione tecnologica e, in maniera sempre crescente, con una politica nei confronti dei servizi sempre più delicata e a rischio.
Il nostro paese è aggredito contemporaneamente dal basso, dalla competizione dei nuovi paesi emergenti, e dall’alto, dalla qualità dei paesi più attrezzati. Questa duplice spinta tende a diventare più forte e a comprimere quello che c’è in mezzo. E cioè l’Italia, la nostra impresa, il nostro lavoro. Questa pressione, o noi siamo in condizione di allentarla, oppure tenderà inevitabilmente a restringere le nostre basi produttive di beni e servizi; ed è esattamente la questione di fondo che dobbiamo affrontare.
Per questo non ha senso cercare di competere basandosi ancora una volta su una riduzione dei diritti e una compressione dei costi, perché su questo terreno non c’è niente da fare: non ci sono dazi o riregolazioni del mercato globale che tengano, non c’è modo di difenderci. Quella che dobbiamo tentare è un’altra operazione: lavorare sulla qualità dei settori più esposti alla concorrenza internazionale, sulla tracciabilità e riconoscibilità di tutti i percorsi e le filiere di componenti dei nostri prodotti, a condizione però che il governo e l’Unione Europea accettino le nostre richieste e non quelle generiche clausole «made in Ue», che non ci servono per definire e difendere i nostri marchi e le nostre produzioni.
Ma la vera battaglia la facciamo se riusciamo a competere nei settori «alti». I dati impressionanti del disavanzo del nostro commercio con l’estero negli ultimi mesi ci dicono che stiamo perdendo non solo nei confronti del mercato americano (conseguenza evidente degli attuali rapporti di forza tra dollaro ed euro), ma anche verso Francia e Germania, nei cui confronti il nostro export si va riducendo. Qui non c’è una questione di moneta diseguale, visto che abbiamo la stessa moneta. È la qualità che fa la differenza: una moneta così forte, o incorpora una qualità altrettanto forte o costringe il paese che non ha questa risorsa ad andare indietro. È esattamente la fotografia di quello che sta capitando all’Italia.
Perché insisto sui servizi? Perché la componente di reddito prodotta dai servizi tende a crescere sempre più della componente manifatturiera o industriale. È qui che si gioca il futuro del posizionamento produttivo e della creazione di valore del paese. Ed è qui che io avverto gli scricchiolii più delicati per il futuro.
Il problema, per noi, non è quello di una liberalizzazione o del mantenimento di una presenza pubblica (è evidente che ci sono mercati che vanno liberalizzati), ma c’è una verità che non possiamo non riconoscere: i processi di liberalizzazione esigono un accompagnamento di politiche di sistema più complesse, più difficili. Prendiamo le vicende del settore dei trasporti in tutti i suoi aspetti: trasporto pubblico locale, trasporto aereo e trasporto ferroviario. Liberalizzare, senza dare governo di sistema ai processi di liberalizzazione, crea problemi a non finire. E liberalizzare i mercati, senza reciprocità con gli altri paesi, è una sciocchezza. Voglio più mercato regolato per noi e per gli altri; ma una liberalizzazione solo nostra, cui non si accompagna la liberalizzazione degli altri, e cioè un principio di reciprocità, o una liberalizzazione lasciata a se stessa, creano guasti a non finire. La stessa cosa succede a proposito delle aziende municipalizzate.
Questo vuol dire essere contro le liberalizzazioni? No, vuol dire che una liberalizzazione è molto più difficile da governare di un monopolio pubblico. Quest’ultimo, se va, lo lasci andare; una liberalizzazione implica controlli di politica finanziaria, fiscale, di standard di qualità, di soggetti istituzionali (per evitare, appunto, conflitti interistituzionali). E siccome questo governo non ha alcun interesse a governare i processi di liberalizzazione, i guasti finiscono tutti su di noi.
E questo vale anche dove si è privatizzato non liberalizzando, come dimostra la vicenda delle autostrade. Per il bene pubblico, là dove il monopolio deve esserci, conviene più che il monopolio sia privato o pubblico? Perché le autostrade, che sono monopolio naturale, vanno privatizzate in questo modo? Dov’è il vantaggio per la collettività? Sulle tariffe? No. Sugli investimenti? No. E allora? Quello che occorre è ragionare non in modo ideologico, ma cercando di capire quali sono le convenienze per il sistema paese. Non si può non essere d’accordo con la strategia di Lisbona, sul fatto che si debba puntare a un grande piano di investimenti su ricerca e formazione, ma con una piccola avvertenza: che se oggi, per caso, tornasse a essere profittevole produrre acciaio per noi che siamo il terzo paese nella produzione d’acciaio in Europa, non si dovrebbe rinunciare a farlo solo perché l’acciaio è considerato «vecchio». Ci sono produzioni considerate vecchie che in realtà, viste le dinamiche che si stanno determinando, torna a essere conveniente produrre in Italia. Non dobbiamo ridurre quello che produciamo: dobbiamo tenere, anzi allargare.
Da questo punto di vista ci può aiutare una politica di governo intelligente delle crisi aziendali, come fu fatta nel passato, perché non è detto che chi oggi ha problemi di mercato o di costo li debba avere sempre.
Se la Cina punta nel suo sviluppo su due fattori – grandi opere di comunicazione e grandi costruzioni – e ha bisogno di tanto acciaio al punto da consumarne più della metà del fabbisogno mondiale, per un paese come il nostro può essere conveniente anche produrre acciaio di bassa qualità – il contrario di quello che abbiamo sempre sostenuto –, visto che è assolutamente redditivo. E potrei continuare.
Insomma: occorre certo investire massicciamente in conoscenza, però occorre fare anche attenzione alla difesa di quei presìdi che, alla lunga, fanno l’articolazione della ricchezza di un paese.
Un altro tema particolarmente interessante è quello relativo alle nostre dinamiche di produttività. Negli ultimi anni c’è stato un calo nella crescita della nostra produttività rispetto agli anni precedenti e, naturalmente, il fatto che la produttività non cresca molto è funzione di scelte e di cause che vanno spiegate e analizzate. Credo che qui occorra valutare, per gli argomenti che esponevo prima, i differenziali di produttività. Ci sono, in tutte le aree esposte alla concorrenza internazionale, processi di produttività che non possono scendere oltre un certo livello, e ci sono invece aree e servizi protetti, ma anche imprese protette, nelle quali la produttività non cresce e genera costi differenziati all’interno dello stesso mondo dei beni e dei servizi.
In fondo, la vicenda più assurda del conflitto redistributivo tra impresa e lavoro è proprio questa: il lavoro viene penalizzato anche in virtù di politiche pubbliche che hanno il segno regressivo e della non coesione. L’industria italiana, quella esposta alla concorrenza internazionale, non genera inflazione. E l’industria e il lavoro, invece di provare a determinare almeno un punto di vista comune, consistente nel chiedere politiche pubbliche (politica dei redditi, politica fiscale e intervento su prezzi e tariffe), non solo non lo fanno ma implodono e considerano il conflitto redistributivo solo come se questo rappresentasse l’intero processo di redistribuzione. La responsabilità più grande di questa gestione di Confindustria è proprio il non aver capito che su questo terreno non faceva gli interessi dell’impresa, oltre, naturalmente, a non aver saputo puntare e scommettere anche sul valore del lavoro e sul riconoscimento dei diritti dei lavoratori.
Per questo c’è bisogno di una nuova politica dei redditi, che parta naturalmente da un nuovo patto fiscale. Temo però che questo governo non sia in condizione di farla. Non solo: quando dovessimo avere un nuovo quadro di maggioranza politica e di governo, bisognerà ricominciare. Voglio dire, cioè, che i guasti prodotti in questi anni non si governano «congelando»: non è che se congelassimo la seconda tranche della delega fiscale risolveremmo i problemi, poiché quelle che occorrono sono politiche di altro segno, da subito; se ci limitassimo solo a congelare quella riduzione, non solo non avremmo gli strumenti finanziari per fare politiche positive d’intervento nei campi prioritari, ma non riusciremmo neanche a ridurre il differenziale nelle diseguaglianze fiscali e di cittadinanza. Qui c’è davvero qualcosa che va smontato per poter ricostruire. Ha ragione chi dice che ricostruire vuol dire anche ritrovare la possibilità di determinare un livello d’imponibile, per una fascia del lavoro autonomo, del quale oggi si sono smontate le possibilità di definizione e di determinazione. Se si vuole accettare il principio – secondo me sacrosanto – che si paga in ragione non del reddito presunto ma di quello effettivamente realizzato, è chiaro che si deve smontare quello che è stato determinato e ricreare le condizioni per poter fare questa politica. Ma questo vuol dire una politica fiscale di altro segno, non solo un processo di congelamento delle politiche che sono state fatte.
Infine, il rapporto tra il patto fiscale e il nostro sistema di welfare. Qui abbiamo per fortuna un’elaborazione molto importante. In termini di prospettiva conviene di più puntare a una politica dell’offerta pubblica piuttosto che a quella di una disponibilità di reddito da parte della domanda. Scelte che in determinati casi si possono anche integrare, ma sapendo che non c’è equivalenza tra di esse, perché mantenere un’offerta pubblica vuol dire misurarsi con la complessità di questo processo o con i nodi della qualità. Rovesciare il ragionamento solo sulla possibilità e la libertà di scelta del consumatore di beni e titoli pubblici, non è sufficiente. Non garantisce, in ultima istanza, quel principio fondamentale di uguaglianza e di equità che deve avere uno Stato sociale, cioè quello di essere in condizione di rispondere allo stesso modo, almeno a determinati livelli di prestazione, a chi è un po’ più ricco e a chi è meno ricco. Se si fa cadere questo principio di eguaglianza fondamentale, poi non si giustifica nemmeno un patto fiscale che abbia quel senso e quel significato.
Questo principio dovrebbe accompagnare anche le politiche sociali di inserimento. La Regione Campania, ad esempio, ci offre due modelli, entrambi interessanti, di lavoro: uno è quello del reddito di inserimento, l’altro è una legge regionale di particolare importanza che stanzia risorse per le imprese e per consorzi d’impresa, affinché possano formare dei giovani e, dopo due anni di formazione, trasformarla in rapporti di lavoro a tempo indeterminato; per l’anno prossimo, in particolare, si parla di 10 mila giovani. È il segno di un processo che lega un bisogno formativo a un rapporto di lavoro di qualità e a tempo indeterminato. Anche sul terreno del sostegno alle condizioni di reddito, di formazione e di occupazione, si possono avere quindi strumenti che non entrano in contraddizione con altre esigenze di equità e d’impostazione solidaristica.
Un’ultima considerazione. Tutto quello che abbiamo detto fino a oggi, e che stiamo continuando a fare, insieme alle altre organizzazioni sindacali e ai lavoratori, riguarda la costruzione di un percorso per cambiare agenda, per rovesciarla, ripartendo dai problemi della competitività, dello sviluppo, del Mezzogiorno, per arrivare ai grandi problemi del nuovo patto fiscale, della nuova politica dei redditi, di una diversa politica di welfare. Questo è il modo per dare il segno delle vere priorità che il paese oggi ha davanti. Non dobbiamo inseguire le priorità, un po’ scombinate per la verità, che il governo ci propone in questa stagione, quanto tenere invece fermo un punto di merito, che oggi forse è l’unico in condizione di dare al paese un po’ di fiducia, perché c’è un grande problema di fiducia e d’insicurezza. Che riguarda le famiglie, gli anziani, i giovani, e riguarda in maniera crescente – è quasi paradossale dirlo – le imprese e gli imprenditori.
Il Veneto, ad esempio, ha dimenticato di discendere da nonni che emigravano e chiedevano per sé quello che oggi è giusto che chiedano i lavoratori immigrati; c’è una generazione di imprenditori veneti che non sa cos’è la parola «recessione», che non sa cos’è la parola «crisi», perché da 1520 anni non ha fatto altro che costruire capannoni, produrre, avere servizi, esportare, crescere, investire. Lo smarrimento di fronte a queste novità è anche lo smarrimento di una classe dirigente che, di fronte alle novità, si ferma a riflettere; siccome però il Veneto rappresenta oggi la parte più ricca del paese, noi dobbiamo sapere che la relazione tra come la parte più ricca del paese risolve questo problema di trasformazione e quello che avviene nel resto del paese sarà la questione fondamentale. Questo perché a un Veneto che si ferma corrispondono regioni del Mezzogiorno in cui i livelli di investimento, di produzione industriale, di servizi, sono molto diminuiti in questi anni.
La diseguaglianza è più sostenibile quando si genera valore e c’è crescita, perché si tratta di una diseguaglianza relativa in una fase in cui, però, può essere redistribuito reddito; quando non c’è crescita e c’è invece diseguaglianza, lì si genera il germe di quella che ho chiamato «insorgenza sociale», il fatto cioè che esiste una parte che è sempre più povera e non ha elementi cui attaccarsi per dare un segno di speranza e di prospettiva a se stessa. Ed è questo esattamente il crinale in cui ci troviamo.
Dobbiamo tenere presente che, dei tanti dati di cui disponiamo, il più delicato è quello relativo agli investimenti. Senza dubbio lo 0,3 è un dato negativo, senza dubbio l’inflazione più alta è un dato assolutamente negativo, ma il fatto che nel 2003 gli investimenti fissi lordi siano diminuiti del 2 per cento dà esattamente la misura di come non si scommette sul futuro del paese, dell’impresa e dell’occupazione italiana. E quando non si fanno investimenti, è evidente che non si riesce a crescere.
Quindi, o rimettiamo in moto una spirale virtuosa oppure corriamo il rischio, per qualche mese ancora, di avere una stagnazione da cui non si esce. E dopo due anni di crescita uguale a zero, un terzo anno in cui si cresce solo in virtù del giorno lavorativo in più (il 29 febbraio), che ti dà lo 0,4 per cento di crescita del Pil senza aggiungere a quello nulla di più di ciò che è stata la crescita del 2003 – e ci andiamo vicini –, vuol dire che per il terzo anno consecutivo questo paese non riesce né a generare ricchezza né, quindi, a redistribuirla correttamente.