la biblioteca ideale

Bertrand Russell credeva nella ragione ed esigeva che ogni regola di condotta prima di essere stabilita passasse al suo vaglio; fu uno strenuo difensore della libertà di pensiero, e di quest'ultimo ebbe a dire:

"Gli uomini temono il pensiero più di ogni altra cosa al mondo-più della rovina e persino più della morte. Il pensiero è sovversivo e rivoluzionario, distruttivo e terribile; il pensiero è spietato nei confronti del privilegio, delle istituzioni e delle comode abitudini; il pensiero è anarchico e senza legge, indifferente verso le autorità, incurante dell'ormai collaudata saggezza dei secoli passati. Il pensiero guarda nella voragine dell'inferno, ma non ha paura... Il pensiero è grande, acuto e libero, la luce del mondo, e la più grande gloria dell'uomo. Se il pensiero non è bene di molti, ma soltanto privilegio di pochi, lo dobbiamo alla paura. E' la paura che limita gli uomini-paura che le loro amate credenze si rivelino delle illusioni, paura che le istituzioni con cui vivono si dimostrino dannose, paura di dimostrarsi essi stessi meno degni di rispetto di quanto avessero supposto di essere".
 
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La sua vita può essere approssimativamente divisa in tre fasi:

PRIMA FASE, dal 1872 agli anni della Prima Guerra Mondiale

E' la fase in cui scrisse importanti opere matematiche, come il SAGGIO SUI FONDAMENTI DELLA GEOMETRIA (1897) o i PRINCIPIA MATHEMATICA (1910-13). Fu questa la fase della carriera accademica, in cui l'amore per il sapere scientifico, per la matematica, per la geometria dominava gli altri interessi. Gli orrori della Grande Guerra determinarono un cambiamento di rotta nella vita di Russell, e un nuovo genere di opere si sarebbe aggiunto al vecchio (non si scordi tra l'altro che nel 1918 fu condannato a sei mesi di carcere per aver scritto sul Tribunal, in difesa di un giovane obiettore di coscienza).

SECONDA FASE, dal 1918 agli anni '60.

E' la fase dell'impegno sociale (Campagna per il disarmo nucleare, nell'ambito della quale venne stilata, il 9/7/1955, la famosa Dichiarazione Einstein-Russell, istituzione della Bertrand Russell Peace Foundation nel 1963, a cui aderirono A. Scweitzer, L.Paulin, M.Born, Nehru e molti altri illustri personaggi.

Tra le opere più importanti di questa lunga fase vanno ricordate: SULL'EDUCAZIONE,

LA TERZA FASE è quella dell'impegno contro i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani (sostenne la causa dei prigionieri del Brasile, della Birmania, del Congo, della Grecia) che porterà alla nascita del Tribunale Internazionale B.Russell per i Crimini di Guerra, che condannò (seppur simbolicamente) (1966) il governo statunitense per i crimini commessi nella Guerra del Vietnam.

Tra le opere di quest'ultima fase va menzionato

CRIMINI DI GUERRA IN VIETNAM(1967)
e L'AUTOBIOGRAFIA(1967-69) in tre volumi.
 
B. RUSSELL E L'ATEISMO


Gli agnostici sono atei?

No, un ateo, così come un cristiano, afferma che possiamo sapere se Dio esiste o no. Un cristiano sostiene che Dio c'è; un ateo che non c'è . Un agnostico, invece, si astiene dal giudicare, dicendo che non ci sono basi sufficienti sia per affermarlo che per negarlo. Un agnostico può affermare contemporaneamente che l'esistenza di Dio, per quanto non del tutto impossibile, sia comunque alquanto improbabile. Può arrivare persino a dire che sia talmente improbabile, che, in pratica, non vale la pena di prenderla in considerazione; in tal caso, non si distacca molto dall'ateismo. Il suo atteggiamento può essere quello che avrebbe un cauto filosofo nei confronti degli dèi dell'antica Grecia. Se mi venisse chiesto di dimostrare che Zeus, Poseidone, Era, e il resto degli dèi dell'Olimpo non esistono, potrei non riuscire a trovare argomenti del tutto convincenti. Un agnostico può pensare che l'esistenza del Dio cristiano sia tanto improbabile quanto quella degli dèi dell'Olimpo; in tal caso egli sarà, dal punto di vista pratico, tutt'uno con gli atei.





Visto che negate la «Legge di Dio», quale altra autorità accettate come regola di vita?



Un agnostico non accetta alcuna «autorità» nel senso in cui la accettano le persone religiose. Un agnostico sostiene che dovrebbe creare da solo le proprie regole di vita. Chiaramente cercherà di trarre profitto dalla saggezza altrui, ma dovrà selezionare da solo le persone che riterrà sagge, e non darà peso a ciò che esse dichiareranno indiscutibile. Si renderà conto che quella che passa sotto il nome di «Legge di Dio» varia di volta in volta. La Bibbia afferma che una donna non deve sposare il fratello del marito morto; salvo in determinate circostanze, in cui invece deve farlo. Se avete la sfortuna di essere una vedova senza figli con cognato scapolo, vi sarà logicamente impossibile evitare di disobbedire alla «Legge di Dio».





Come giudica la Bibbia un agnostico?



Un agnostico giudica la Bibbia esattamente nello stesso modo in cui Io fa il clero illuminato. No ritiene che sia stata creata per ispirazione divina, non crede che le sue leggende riguardo la creazione siano più vere di quanto non lo siano quelle di Omero. Pensa che i suoi insegnamenti morali siano talvolta buoni, ma talvolta pessimi. Per esempio: durante una guerra, Samuele ordinò a Saul di uccidere non solo ogni uomo, donna e bambino del nemico, ma anche ogni pecora o bue. Saul, comunque, disobbedì, non uccidendo le pecore e i buoi, e per questa ragione ci viene detto di condannano. Non sono mai stato capace di ammirare Elisha per aver maledetto i bambini che avevano riso di lui, o di credere (ed è ciò che asserisce la Bibbia) che un Dio veramente buono avrebbe mai inviato due orse per uccidere quei bambini.
 
Come giudica un agnostico Gesù, l'Immacolata Concezione e la Trinità?

Dato che un agnostico non crede in Dio, non può nemmeno credere che Gesù fosse Dio. La maggior parte degli agnostici ammira la vita e gli insegnamenti di Gesù riportati nel Vangelo, ma non più di quanto ammiri quelli di certi altri uomini. Alcuni lo pongono allo stesso livello di Buddha, altri a quello di Socrate, altri ancora a quello di Abraham Lincoln. Non pensano neppure che sia indiscutibile ciò che Egli ha detto, dato che non accettano alcuna autorità come assoluta.

Gli agnostici considerano l'Immacolata Concezione come una dottrina ripresa dalla mitologia pagana, dove fenomeni del genere non erano affatto inusuali. (Si racconta che Zoroastro fosse nato da una vergine; e Ishtar, la dea babilonese, è chiamata la Santa Vergine.) Gli agnostici non possono dare credito né a questa dottrina né a quella della Trinità, poiché ambedue appaiono del tutto infondate se non si crede in Dio.



Può un agnostico essere anche cristiano?

La parola «cristiano» ha assunto significati diversi a seconda dei tempi. Dall'avvento di Cristo in poi il termine è stato quasi sempre usato per indicare colui che crede in Dio e nell'immortalità e che sostiene che Cristo fosse anche Dio. Ciononostante anche gli unitariani si dichiarano cristiani, sebbene non credano alla divinità di Cristo, e inoltre, oggigiorno, moltissime persone usano la parola "Dio" con un significato molto più vago che in passato.



Un agnostico crede nella vita futura, nel paradiso o nell'inferno?

La questione della sopravvivenza degli esseri umani oltre la morte è una di quelle di cui è possibile dare una dimostrazione. Alcuni ritengono che l'indagine psicologica e lo spiritismo costituiscano una conferma di tale dimostrazione. Un agnostico non prende posizione a riguardo, a meno che non creda che vi sia una dimostrazione valida per l'una o l'altra ipotesi. In quanto a me, non credo che vi sia alcuna buona ragione per credere alla vita oltre la morte, ma sarei pronto a cambiare idea se mi venisse presentata una valida dimostrazione del contrario.

Il paradiso e l'inferno sono un'altra cosa. Credere all'inferno è strettamente legato al credere che la punizione vendicativa sia giusta, in maniera del tutto indipendente da ogni effetto detenente o correzionale che la cosa possa avere. Quasi nessun agnostico ci crede. Per quanto riguarda il paradiso, invece, si può anche arrivare a concepire che un giorno sarà possibile dimostrarne l'esistenza mediante lo spiritismo, ma la maggior parte degli agnostici non ritiene la cosa possibile, pertanto non crede neanche al paradiso.





Negando l'esistenza di Dio, vi succede mai di temerne il giudizio?

Assolutamente no. Io nego anche l'esistenza di Zeus, di Giove, di Odino e di Brahma, ma la cosa non provoca in me alcuna inquietudine. Vedo che c'è una grandissima parte dell'umanità che ne nega l'esistenza senza subire alcuna punizione visibile. E se Dio esistesse veramente, penso sarebbe assai improbabile che Egli fosse così vanitoso da offendersi a causa di quanti dubitano della Sua esistenza.





Come spiegano gli agnostici la bellezza e l'armonia della natura?



Proprio non capisco dove siano tutta questa bellezza e quest'armonia. Dappertutto nel regno animale le bestie si uccidono spietatamente l'un l'altra. La maggior parte di esse viene crudelmente uccisa da un altro animale, oppure muore lentamente di fame. Per quel che mi riguarda non riesco proprio a vedere tutta questa grande bellezza e armonia nel verme solitario. E non venitemi a dire che questa creatura è stata inviata per punire i nostri peccati, perché il verme solitario si riscontra più frequentemente fra gli animali che fra gli uomini. Credo che chi mi pone questa domanda si riferisca a cose quali la bellezza del cosmo. Ma non si deve dimenticare che anche le stelle ogni tanto esplodono, riducendo in polvere tutto ciò che le circonda. La bellezza è comunque qualcosa di soggettivo, ed esiste solo negli occhi di colui che la vede.
 
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Che spiegazione danno gli agnostici dei miracoli e delle altre rivelazioni dell'onnipotenza divina?



Gli agnostici non credono che vi sia alcuna prova dei «miracoli» intesi come eventi contrari alle leggi della natura. Si sa per certo che la fede nella guarigione aiuta, e in questo non vi è nulla di miracoloso. A Lourdes alcune malattie possono essere curate, altre no. Quelle che possono essere curate a Lourdes, probabilmente potrebbero essere curate da qualsiasi altro medico di cui il paziente si fidi. Per quanto riguarda, invece, i racconti relativi ad altri miracoli, come quello di Giosuè che ordina al sole di fermarsi, gli agnostici li rifiutano, in quanto leggende, nonché attestazioni del fatto che la religione sia fornitissima di episodi simili. La dimostrazione dell'onnipotenza degli dèi greci in Omero non è meno valida di quella del Dio cristiano della Bibbia.





In passato vi sono state vili e crudeli passioni contrarie alla religione. Abbandonando i principi religiosi, credete che l'umanità possa sopravvivere?



L'esistenza di vili e crudeli passioni è innegabile, ma nella storia non riscontro alcun elemento che dimostri che la religione si sia opposta a tali passioni. Al contrario, le ha santificate, e a dato agli uomini la possibilità di indulgervi senza provare rimorso. Vi sono state più persecuzioni crudeli nel cristianesimo che altrove. Ciò che sembra poterle giustificare è il credo dogmatico. Benevolenza e tolleranza sono sempre inversamente proporzionali alla forza del credo dogmatico. Oggi è nata una nuova religione dogmatica: il comunismo. Gli agnostici vi si oppongono, cosi come si oppongono a qualsiasi altro dogma. Le caratteristiche persecutorie del comunismo di oggi sono tali e quali quelle del cristianesimo dei secoli passati. Il fatto che il cristianesimo sia divenuto sempre meno oppressivo, si deve soprattutto all'opera dei liberi pensatori che hanno reso gli ortodossi molto meno ligi al dogma. Se ancora adesso lo fossero tanto quanto lo erano una volta, si riterrebbe ancora giusto mandare al rogo gli eretici. Quello spirito di tolleranza che i cristiani di oggi considerano esclusivamente cristiano, in realtà è frutto di un atteggiamento che lascia spazio ai dubbi e sospetta delle certezze assolute. Credo che chiunque studi la storia in maniera obiettiva venga spinto ad ammettere che la religione ha causato molte più sofferenze di quante non ne abbia ostacolate.





Quale è il significato della vita per un agnostico?



Preferisco rispondere con un'altra domanda: cos'è il significato del «significato della vita»? Presumo che con questa espressione ci si riferisca a un generico scopo della vita. Non credo che la vita abbia un vero e proprio fine. C'è e basta. Semmai sono gli esseri umani come individui ad avere degli scopi, e non vi è nulla nell'agnosticismo che li spinga a rinunciarvi. Ovviamente non possono essere certi di raggiungere i risultati sperati, ma, d'altronde, un soldato che si rifiutasse di combattere a meno che la vittoria non fosse cena verrebbe giudicato folle. Chi ha bisogno della fede come sostegno per i propri fini è un debole, e non posso considerarlo tanto degno di stima quanto chi accetta i suoi rischi, ammettendo la possibilità della sconfitta.





La negazione della religione costituisce anche una negazione del matrimonio e della castità?



Ancora una volta bisogna rispondere con un'altra domanda: chi pone questa domanda crede forse che il matrimonio e la castità contribuiscano alla felicità terrena, o forse pensa che nonostante causino miseria e sofferenza quaggiù, costituiscano degli strumenti per accedere al paradiso? Chi è convinto di quest'ultima ipotesi, si aspetterà senz'altro che l'agnosticismo porti all'abbandono di quella che chiama virtù, ma dovrà anche ammettere che tale virtù non costituisce una fonte di felicità per gli uomini finché vivono sulla terra. Se invece sostiene la prima ipotesi, e cioè che vi sono argomenti terreni a favore del matrimonio e della castità, deve anche riconoscere che tali argomenti sono proprio quelli che stimolano gli agnostici. Gli agnostici non assumono posizioni nette riguardo alla morale sessuale; però la maggior parte di essi ammetterebbe che ci sono validi motivi contro uno sfrenato abbandono al desiderio sessuale. Tuttavia farebbero risalire tali motivi a cause terrene, e non a ipotetici comandi divini.





La fede nella sola ragione non è un credo pericoloso? La ragione resta ineccepibile anche senza la legge spirituale e morale?



Nessun uomo assennato, seppur agnostico, ha «fede nella sola ragione». La ragione si occupa di dati di fatto, alcuni empirici, alcuni soltanto dedotti. La questione della vita eterna e dell'esistenza di Dio ha a che fare con dati di fatto, e l'agnostico sosterrà che dovranno essere prese in esame nello stesso modo in cui si prenderebbe in esame la domanda «Ci sarà un eclissi di sole domani?». Ma i dati di fatto da soli non ci dicono quali sono i fini che dovremmo perseguire. E, nell’ambito dei fini, abbiamo bisogno di qualcosa di più della ragione. L’agnostico cercherà i suoi fini nel proprio cuore, e non in un'autorità esterna. Facciamo questo esempio: supponete di voler andare in treno da New York a Chicago: userete la ragione per sapere a che ora partono i treni per Chicago, ed è ovvio che chiunque pensasse di poterlo fare mediante l'intuito o di possedere qualche facoltà interiore capace di dispensano dal consultare l'orario, sarebbe assai sciocco. Tuttavia nessun orario al mondo gli dirà mai se è saggio andare a Chicago. Senza dubbio per decidere se lo sia, una persona dovrà tener conto di altri dati di fatto, ma al di là di questi esisteranno sempre quei fini che giustificano il viaggio, e tali fini, tanto per un agnostico, quanto per il resto degli uomini, appartengono a un regno che non è quello della ragione, anche se non sono in contraddizione con esso. Il regno a cui mi riferisco è quello delle emozioni, dei sentimenti e del desiderio.
 
Secondo voi qualsiasi religione è una forma di superstizione o dogma? Qual è il fine delle religioni odierne? Verso quale religione nutrite più rispetto, e perché?



Tutte le grandi organizzazioni religiose che hanno dominato grandi masse di popolazioni hanno implicato quantità maggiori o minori di dogma, tuttavia la parola "religione" non ha un significato ben definito. Il confucianesimo, per esempio, potrebbe essere definito una religione, nonostante non implichi alcun dogma. E anche in alcune forme del cristianesimo liberale gli elementi del dogma sono ridotti al minimo.

Fra tutte le grandi religioni della storia preferisco il buddismo, specialmente quello delle primissime forme, perché ha in sé il minor numero di elementi persecutori.





Il comunismo rifiuta la religione come gli agnostici. Gli agnostici sono comunisti?



Il comunismo non rifiuta la religione in quanto tale, rifiuta semplicemente la religione cristiana, proprio come fa la religione musulmana. Il comunismo, almeno quello nella forma portata avanti dal governo sovietico e dal Partito Comunista, è un nuovo sistema di precetti dogmatici particolarmente violenti e oppressivi, pertanto ogni vero agnostico dovrebbe opporvisi.





Gli agnostici ritengono che sia impossibile conciliare la religione e la scienza?



La risposta ruota attorno al significato della parola "religione". Se per religione si intende solo un insieme di regole etiche, allora sì, le due cose si possono conciliare. Se invece per religione si intende un sistema di dogmi, allora la religione risulta incompatibile con lo spirito scientifico, che rifiuta di accettare come dati di fatto cose che non siano dimostrabili, e ritiene che la certezza assoluta sia difficilmente raggiungibile.





Che tipo di prova potrebbe convincerla che Dio esiste?



Credo che se udissi una voce dal cielo predire tutto quello che mi accadrà nelle prossime ventiquattro ore, compresi gli eventi ritenuti altamente improbabili, e se poi vedessi avverarsi tutti questi eventi, allora potrei per lo meno convincermi che esiste qualche mente sovrumana. Posso immaginare molte altre prove di questo tipo in grado di convincermi, ma per quanto io ne sappia nessuna di esse esiste davvero.
 
Apologia della tolleranza contro nuovi dogmi

Parlo come uno che è stato allevato da un padre con l'intento di farne un razionalista. Mio padre era tanto razionalista quanto lo sono io, ma morì quando avevo tre anni e la Corte di Chancery decise che avrei dovuto godere dei benefici di un'educazione cristiana.

Penso che da allora la Corte abbia avuto modo di pentirsene. Non ha ottenuto i buoni risultati sperati. Sarebbe un peccato se non esistesse più l'educazione cristiana perché allora non esisterebbero più nemmeno i razionalisti.

I razionalisti sono mossi soprattutto dalla reazione contro un sistema educativo che considera del tutto giusto che un padre educhi il proprio figlio, per esempio, come un abitante della Muggletonia, o qualcosa del genere, ma mai e poi mai questi potrà essere educato in modo che pensi in maniera razionale. Ai miei tempi era giudicato illegale.

Il peccato e i vescovi

Nel momento in cui sono divenuto razionalista, mi sono reso conto che nel mondo ci sono ancora notevoli opportunità di mettere in pratica le idee razionali, non solo nell'ambito delle questioni geologiche, ma in ogni tipo di problemi pratici, come il divorzio, il controllo delle nascite, e questioni controverse come quella di recente emersa sull'inseminazione artificiale, che i vescovi giudicano gravemente peccaminosa, ma che lo è solo perché se ne parla in un passo della Bibbia. Non è un grave peccato perché fa del male a qualcuno, no, non è questa la loro tesi. Fino a quando si potrà ancora esprimere le proprie opinioni, finché si riuscirà a convincere il Parlamento a non proibire qualcosa solo perché così dice la Bibbia, fino ad allora ci sarà ancora ovviamente bisogno del razionalismo.

Come probabilmente sapete, negli Stati Uniti ho incontrato problemi considerevoli solo perché ho affermato che i suggerimenti etici della Bibbia non sono validi in merito ad alcune questioni pratiche, e che, in certi casi, bisognerebbe agire in modo diverso da quello che dice la Bibbia. A seguito di tali affermazioni, il tribunale ha stabilito che non sono un elemento adatto a insegnare in nessuna delle università degli Stati Uniti, così adesso ho ancora più ragioni di preferire il razionalismo a qualsiasi altro tipo di pensiero.

Non siate troppo certi!

Dare una definizione del razionalismo non è affatto una questione semplice. Non credo che se ne possa dare una basata sul rifiuto di questo o quel dogma cristiano. Infatti è possibilissimo che un perfetto e assoluto razionalista possa contemporaneamente accettare alcuni dogmi. Il problema è come si giunge alle proprie opinioni e non quali esse siano. La cosa in cui noi razionalisti crediamo è la supremazia della ragione. Se questa dovesse portarvi a delle conclusioni in linea con l'ortodossia, bene, rimarreste comunque dei razionalisti. Secondo me la cosa essenziale è che si basino le proprie teorie su fondamenti accettati dalla scienza, e che non si consideri ciò che si accetta del tutto certo, ma solo più o meno probabile. Credo che non essere del tutto certi sia uno degli elementi indispensabili del razionalismo.

La prova dell'esistenza di Dio

Vengo ora a un problema pratico che mi ha spesso causato delle difficoltà. Ogni volta che mi reco in un paese straniero, in una prigione o in luoghi simili, mi viene sempre chiesto quale sia la mia religione.

Non sono mai del tutto sicuro se devo rispondere "agnostico" o "ateo". E una domanda a cui è molto difficile rispondere, e oserei dire che ha creato delle difficoltà anche a molti di voi. Come filosofo, rivolgendomi a un pubblico composto unicamente di filosofi, dovrei definirmi "agnostico", perché non credo che esista alcun argomento in grado di affermare o negare l'esistenza di Dio.

Invece, dovendo immedesimarmi nell'impressione che ne ricaverebbe una persona normale, penso che dovrei definirmi "ateo", perché, ogni volta che affermo che non è possibile provare l'esistenza di Dio, dovrei subito aggiungere che non è possibile provare neanche quella degli dèi omerici.

Nessuno di noi prenderebbe seriamente in considerazione la possibilità che esistessero gli dèi omerici; ciononostante, se dovete impegnarvi seriamente a dare una dimostrazione logica del fatto che Zeus, Era, Poseidone e tutti gli altri dèi non sono mai esistiti, anche voi conveneste che è un lavoro ingrato. Infatti non riuscireste a provarlo.

Pertanto, riguardo gli dèi dell'Olimpo, rivolgendomi a un pubblico di soli filosofi direi che sono agnostico, ma rivolgendomi alla gente comune, credo che, riferendosi a tali divinità, chiunque, come me, si definirebbe ateo. Per quanto riguarda il Dio cristiano, penso che dovrei tenere la stessa linea.

Lo scetticismo

Vi sono esattamente tante possibilità che il Dio cristiano sia esistito, quante ve ne sono per gli dèi omerici. Non sono in grado di provare l’esistenza né dell'uno, né degli altri, ma non credo affatto che la probabilità sia tale che valga la pena di prendere seriamente in considerazione l'ipotesi. Quindi presumo che, dovendo compilare i documenti che mi vengono sottoposti in occasioni a questo genere, dovrei scrivere che sono ateo anche se da sempre ciò ha costituito un grosso problema, e talvolta ho risposto in un modo o nell'altro senza che ci fosse un principio preciso a guidare le mie affermazioni. Nel momento in cui una persona ammette che non esiste alcunché di certo, ritengo debba anche aggiungere che alcune cose sono più vicine alla certezza di altre. È molto più certo che siamo riuniti qui stasera, che questo o quel partito politico sia nel giusto. È chiaro che vi sono gradi diversi di certezza, e bisognerebbe preoccuparsi sempre di sottolinearlo, perché altrimenti si approderebbe nello scetticismo più totale, e il completo scetticismo, chiaramente, sarebbe del tutto sterile e inutile.

La persecuzione

Non bisogna dimenticare che alcune cose sono molto più probabili di altre e che lo possono essere al punto tale che non vale più la pena di ricordarle; ciò è sempre valido, eccetto quando si tocca l'argomento della persecuzione.

Se si arriva al punto di condannare qualcuno al rogo perché non ha fede, allora forse vale la pena di ricordarsi che questi dopo tutto potrebbe anche avere ragione, e che, pertanto non bisogna condannarlo.

In genere, se una persona affermasse, per esempio; ché la terra è piatta, io gli augurerei di tutto cuore di poter divulgare il più possibile le sue idee. Infatti potrebbe aver ragione, nonostante io creda di no. Ritengo che sia più, opportuno credere che la terra sia tonda, anche se, chiaramente, ci si può sempre sbagliare. Pertanto non credo che dovremmo optare per lo scetticismo più totale, ma semmai per la teoria dei gradi di possibilità.

Penso, insomma, che sia proprio questa la teoria di cui il mondo ha bisogno. Il mondo è pieno di nuovi dogmi. Forse quelli vecchi sono in declino, ma ne sono sorti di nuovi, e ritengo che ogni dogma sia tanto più nocivo quanto più è nuovo. Infatti quelli nuovi sono molto peggiori di quelli vecchi.
 
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Prefazione a: Perché non sono cristiano



Si È DETTO che la mia avversione all'ortodossia religiosa si sia attenuata. Questa voce è completamente infondata. Penso che tutte le grandi religioni del mondo: buddismo, induismo, cristianesimo, islamismo e comunismo, siano, a un tempo, false e dannose. A rigor di logica, poiché contrastano fra loro, non più di una dovrebbe essere quella vera. Con pochissime eccezioni, la religione che l'uomo accetta è la stessa professata dalla comunità dove vive, sicché è l’influenza dell'ambiente che lo spinge ad accettarla. E’ vero che gli scolastici inventarono argomenti logici per provare l'esistenza di Dio, e che questi vennero accettati da molti eminenti filosofi; ma si appoggiavano alla logica aristotelica, ora rigettata da quasi tutti i pensatori, tranne certuni, come i cattolici. Uno di questi argomenti non assolutamente logico: l’argomento del fine delle cose, che, peraltro, fu demolito da Darwin; e, in ogni caso, potrebbe divenire logicamente accettabile a condizione che si neghi l'onnipotenza di Dio.

Lasciando da parte la logica, trovo strano si possa pensare che una divinità onnipotente, onnisciente e benevola abbia preparato il mondo da nebulose senza vita, in tanti milioni di anni, per poi ritenersi soddisfatta dall'apparizione finale di Hitler, Stalin e della bomba H. Una cosa è chiedersi se una religione è vera, altra se è utile. Io sono fermamente convinto ce le religioni, come sono dannose, così sono false. Il danno arrecato da una religione è di due specie: uno dipende dalla natura generica della fede, l’altro dalla natura particolare dei dogmi accettati. Per quanto riguarda la natura della fede, si ritiene virtuoso credere, avere cioè una convinzione che non tentenna di fronte a evidenze contrarie, e se 1'evidenza contraria fa sorgere dubbi, ritenere di doverli sopprimere. Per tali motivi, non si permette ai giovani di ascoltare discussioni, in Russia, a favore del capitalismo, o, in America, a favore del comunismo. Questo conserva la fede di entrambi intatta e pronta per una guerra micidiale. La convinzione che è importante credere questo o quello senza ammettere libere indagini, è comune a quasi tutte le religioni, e ispira tutti i sistemi di educazione statale. Ne consegue che il pensiero dei giovani viene soffocato e indirizzato a una fanatica ostilità contro coloro che hanno altri fanatismi e, anche più violentemente, contro coloro che a qualsiasi fanatismo si oppongono.

L'inveterata consuetudine di basare le convinzioni sull'evidenza e di dare ad esse soltanto quel grado di certezza, che l'evidenza garantisce, sarebbe un rimedio, se divenisse generale, per tutti i mali che affliggono il mondo.

Attualmente, però, nella maggior parte dei paesi, l'educazione mira a impedire lo sviluppo di tale consuetudine gli uomini che si rifiutano di credere in sistemi basati su dogmi infondati, non sono ritenuti idonei all'educazione della gioventù. I Mali che ci sovrastano non sono prerogativa di un particolare credo, ma sono caratteristici, indistintamente di qualsiasi credo dogmatico.

Nella maggior parte delle religioni ci sono, inoltre, specifiche dottrine etiche che arrecano un danno ben determinato. Se la condanna del cattolicesimo al controllo delle nascite potesse prevalere, essa renderebbe impossibile la diminuzione della povertà e l'abolizione delle guerre. La credenza indù che la vacca sia un animale sacro e che per la vedova sia immorale risposarsi è fonte di inutili sofferenze. Il dogma comunista nella dittatura di una minoranza ha causato orrori senza fine. Si sente dire che soltanto il fanatismo può rendere efficiente un gruppo sociale. Ma questo dogma è in contrasto con le lezioni della storia. In ogni caso, soltanto coloro che servilmente adorano il successo possono, credere che l'efficienza sia di per se stessa cosa ammirevole senza tener conto di quanto sangue essa grondi. Da parte mia, penso che è meglio fare un poco di bene piuttosto che molto male. Il mondo che io auspico dovrebbe essere libero da faziose incomprensioni, e consapevole che la felicità per tutti nasce dalla collaborazione e non dalla discordia.

L'educazione dovrebbe mirare alla libertà della mente dei giovani, e non al suo imprigionamento in una rigida armatura di dogmi destinati a protteggerla, nella vita, contro i pericoli dell'evidenza imparziale. Il mondo necessita di menti e di cuori aperti, non di rigidi sistemi, vecchi o nuovi che siano.

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Russel al Trinity College dove è lettore di filosofia, ha fra i suoi allievi un ragazzino precoce che ha già completato gli studi. A nove anni già iscritto alle scuole superiori, e suo professore è proprio Bertrand Russel, che oltre che filosofo è un grande matematico. Il ragazzino Wiener si laurea in matematica, poi in filosofia e non ancora soddisfatto anche in biologia. WIENER diventerà già nel 1930 il padre della CIBERNETICA. Sarà lui a progettare i primi sistemi in grado di autoprogrammarsi da soli. E' l'inizio dello sviluppo delle prime apparecchiature a feed-back. E' lui a porre i fondamenti della teoria dell'informazione e dei servomeccanismi. Ma è anche lui a estendere poi negli anni '50 le sue dotte considerazioni agli organismi viventi. E psicologicamente lo fa meglio di qualsiasi filosofo umanista e dei saccenti economisti e tecnocrati della rivoluzione industriale (taylorismo - sfruttamento degli uomini alla catena di montaggio e al cottimo).
 
Russel si era appena staccato dal geniale giovanissimo allievo prodigio Wiener, che subito ne incontra un altro ancora più straordinario ma anche piuttosto imbarazzante. Perchè questo giovanissimo studente con spontanea prepotenza invade il suo campo: cioè la filosofia. Questo ragazzo sarà un afflizione per tutta la sua vita.
BERTRAND RUSSEL sta prendendo i primi appunti per "Principia Matematica" e Teoria della conoscenza, ma quest'ultima opera non la finirà mai. Nell'abbozzare le prime note, visto il grande interesse, ne parla al suo giovanissimo allievo eccezionalmente dotato; e l'allievo si chiama LUDWIG WITTGENSTEIN (pochi anni prima compagno di banco di HITLER alle elementari). Dopo un animato dialogo con il suo professore (che Russel chiama lite) il giovane alla fine mette in seria discussione la validità della sua opera. Russel capisce che l'allievo è andato persino oltre la sua comprensione, o che c'è qualcosa nella sua Teoria che gli deve essere sfuggito, anzi ne è certo, perchè a certe imbarazzanti (perfino candide o provocatorie) domande del giovane, lui non è in grado di rispondere, e quel che è peggio si rende conto che quello che manca alla sua opera, il giovane lo sa benissimo, ma non lo dice. Scriverà a un amico Russel lamentandosi e giustificandosi perchè si è arenato "...Pensera' che sono un furfante se continuo a scrivere, Witt per me è ora un incubo. Ed io sono nel più nero sconforto, mi ha distrutto il piacere di scrivere. Mi dice che è tutto sbagliato questo giovane di 20 anni, che non si spiega bene, ma sento dentro di me che ha proprio ragione." (Biografia di R., Longanesi Ed.). Witt nel 1921, scriverà poi il Logischphilosophische Abhandlung (Trattato logico-filosofico) mentre il manoscritto del grande matematico e filosofo Russel rimarrà per sempre inedito e sepolto nei cassetti, mentre l'altro, quello di Witt, con lui quasi centenario, seguiterà a perseguitarlo per oltre 60 anni. L'unica soddisfazione che ebbe è che Witt era stato suo allievo. Un ottimo allievo! Un terribile allievo!
 
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Tre passioni, semplici ma straordinariamente forti, hanno governato la mia vita: il desiderio di amore, la sete di sapere, e un'immensa pietà per le sofferenze umane. Queste passioni, come venti possenti, mi hanno spinto ora qua ora là, in un volo capriccioso, facendomi vagare sopra un profondo oceano di angoscia, fino a che ho raggiunto il limite estremo della disperazione.
Ho cercato l'amore, soprattutto perchè l'amore è estasi - un'estasi talmente grande che spesso sarei stato pronto a sacrificare il resto della vita in cambio di poche ore di tale gioia. E poi l'ho cercato perchè mitiga la solitudine - quella terribile solitudine nella quale una coscienza tremante vede, al di là dei confini del mondo, il freddo e tenebroso abisso senza vita. E infine l'ho cercato perchè nel congiungimento d'amore ho visto, come in una mistica miniatura, la visione che prefigura quello stesso paradiso che hanno immaginato di vedere i santi e i poeti. Questo è quello che ho cercato, e, sebbene possa sembrare troppo per la vita umana, questo è ciò - che alla fine - ho trovato.

Con eguale passione ho cercato la conoscenza. Ho desiderato comprendere i sentimenti degli uomini. Ho desiderato sapere perchè le stelle brillano, e ho tentato di afferrare la regola pitagorica che esprime numericamente ogni cambiamento nell'eterno fluire delle cose. I miei desideri in questo senso sono stati esauditi, ma solo per una piccola parte.

L'amore e la conoscenza, per quanto mi è stato dato di goderne, mi hanno sollevato fino a toccare il paradiso. Ma, ogni volta, la pietà mi ha ricondotto sulla terra. L'eco delle grida di dolore risuonavano nel mio cuore. Bambini affamati, vittime torturate dai loro oppressori, anziani indifesi considerati un odioso fardello dai loro figli; e tutta la solitudine, la povertà, e il dolore, si facevano beffa di ciò che la vita umana avrebbe dovuto essere. Desidero fortemente alleviare i mali del mondo, ma non posso farlo, e ne soffro.

Questa è stata la mia vita. L'ho trovata degna di essere vissuta, e, se ne avessi la possibilità, sarei felice di viverla di nuovo.


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Ottima oltrechè interessante trattazione, per quanto, almeno fino ad ora, risultano ignorati scrittori come Verga e Pirandello.
Ma immagino che è era nell'intenzione di Wtson parlare anche di loro
 
Scritto da avicenna
Ottima oltrechè interessante trattazione, per quanto, almeno fino ad ora, risultano ignorati scrittori come Verga e Pirandello.
Ma immagino che è era nell'intenzione di Wtson parlare anche di loro

La tua immaginazione corre troppo.Verga proprio no,forse Pirandello.Ma la Biblioteca è aperta,se vuoi farlo tu.
Potresti mettere anche qualcosa su di te (Avicenna).
 
Quando Wittgenstein sfidò Popper a colpi di attizzatoio




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2008.2


Cronaca di una contesa non solo teorica, nelle aule di Cambridge, tra i due pensatori rivali, entrambi convinti di essere il punto terminale della storia della filosofia

Provate ad immaginarvi questa scena: il 25 ottobre 1946, nell´aula 3 della scala H del King´s College di Cambridge, davanti ad un nutrito uditorio di specialisti e curiosi, su invito del Moral Sciences Club, il filosofo austriaco Karl Raimund Popper tiene una conferenza sulla reale entità dei problemi filosofici; ad un certo punto, il presidente del club che lo ospitava, Ludwig Wittgenstein, convinto che non esistessero effettivi problemi filosofici ma soltanto banali rompicapo linguistici, brandisce l´attizzatoio del camino con fare minaccioso nei confronti di Popper ed esce sbattendo fragorosamente la porta.

Questa scena deve aver dapprima attratto, poi ossessionato, due giornalisti della Bbc, David Edmonds e John Eidinow, che hanno scrupolosamente ricostruita La lite di Cambridge, seguendo differenti piste e testimonianze, conducendo una specie di indagine poliziesca che avrebbe dovuto approdare a qualche risultato certo. La premessa è che i nostri intraprendenti autori diffidano dell´unica versione ufficiale di quell´episodio, quella fornita dallo stesso Popper nell´autobiografia dal titolo La ricerca non ha fine; il filosofo austriaco, docente alla London School of Economics, che aveva da poco pubblicato la celebre opera La società aperta e i suoi nemici, racconta che all´invito per la conferenza era sottesa una provocazione dello stesso Wittgenstein, il quale peraltro, forse mentendo, affermava di non conoscere minimamente il signor Popper. L´ospite decide di accettare la sfida, convinto che l´identità del filosofo è tale soltanto qualora creda davvero all´esistenza di problemi filosofici e che, di conseguenza, chi nega tale presupposto - come faceva Wittgenstein - costituisce una minaccia per la filosofia; così pone le seguenti domande: conosciamo il mondo esterno attraverso i sensi? conseguiamo certezze mediante l´induzione? esistono norme morali universalmente valide?, esempi cioè di questioni ricorrenti nella tradizione filosofica da Aristotele a Kant. A quel punto, Wittgenstein perde le staffe, armeggia con l´attizzatoio rovente, inveisce contro l´ospite, lo sfida ripetutamente e, piuttosto che argomentare razionalmente a favore delle proprie tesi, lascia la stanza sbattendo la porta. Popper trae la conclusione esplicita che Wittgenstein non fosse capace di accettare uno scherzo o una polemica, nonché quella implicita che, sottraendosi ad un civile confronto, venisse meno ai più elementari principi di deontologia professionale; poi, colto da un attacco di narcisismo sfrenato (la patologia più diffusa tra i filosofi), ribadisce la convinzione che esistano davvero problemi filosofici e "perfino che alcuni io li abbia risolti", alludendo con ogni probabilità al problema dell´induzione risolto mediante il criterio di falsificazione (quello che mise in crisi il verificazionismo del Circolo di Vienna, che allora parteggiava per il Wittgenstein del Tractatus); inoltre sostiene che lo spirito della filosofia del linguaggio ordinario (quella propiziata dal secondo Wittgenstein) è inevitabilmente conservatore, perché fa perno su quel senso comune rivalutato qualche decennio prima da G. E. Moore (il quale oggi, tra l´altro, appare il filosofo più influente), il cui uso quotidiano non ne decreta la validità, anzi limita lo sviluppo del senso critico.

Infine, il fautore del razionalismo critico sale sul treno che lo riporterà a Londra e scopre, nello stesso scompartimento, che due ragazzi stanno parlando proprio di lui, del suo ultimo libro che condannava ogni totalitarismo; bottino pieno dunque: la fama era arrivata, dopo aver nel 1934 demolito il primo Wittgenstein (quello dell´atomismo logico) e nel 1946 il secondo Wittgenstein (quello dei giochi linguistici). Ciò che Popper combatteva - sostengono i giornalisti inglesi - era l´enfasi sul linguaggio posta da Wittgenstein e dai suoi zelanti seguaci; nel 1970 confessava di aver trovato le Ricerche filosofiche "mortalmente noiose" perché precludono la possibilità di dissentire, mentre dal canto suo Bertrand Russell - forse il regista occulto e malizioso di quella serata - considerava le dottrine wittgensteiniane, alcune banali, altre infondate. L´indagine svolta in questo libro non contiene ipotesi interpretative degne di nota, si limita a riportare idee filosofiche di seconda mano e si dilunga inutilmente in una serie di aneddoti e ricostruzioni del background storico-culturale che difficilmente si traducono in congetture sulla portata teorica del rovente episodio cantabrigiano. Più godibili risultano le pagine da cui emerge il profilo psicologico-caratteriale dei due eminenti filosofi: Wittgenstein tormentato e ansioso, irascibile e arrogante, egoista e insensibile, dogmatico e intollerante; Popper aggressivo e veemente, rude e prepotente, sprezzante e vendicativo. Entrambi, come Hegel, pensavano di costituire il punto terminale della storia della filosofia, l´un credendo di aver risolto i problemi cruciali posti dai predecessori, l´altro forte della convinzione di aver dissolto la ragion d´essere di quegli stessi problemi. Il lettore che riuscirà ad appassionarsi a questa storia dell´attizzatoio potrà legittimamente persuadersi dell´opportunità di occuparsi delle teorie filosofiche ma si guarderà bene dal frequentare i loro ideatori.
 
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La fucina di Wittgenstein

Dettato nel 1932 il «Big Typescript» è il grande laboratorio del pensatore austriaco

Un testo di transizione che permette di seguire da vicino il passaggio dalla prima alla seconda fase della sua riflessione, dal « Tractatus» alle «Ricerche filosofiche»

Come molti sanno, c'è un primo" e un "secondo" Wittgenstein: il primo è il giovanissimo autore del Tractatus logico-philosophicus, uno dei libri di filosofia più influenti del ventesimo secolo; il secondo è l'uomo che dedicò gli ultimi vent'anni della sua non lunga vita a cercare di scrivere un altro libro, che rimediasse ai "gravi errori" contenuti nel Tractatus. Non ci riuscì, o almeno non ritenne di esserci riuscito in tutto e per tutto, ma alcuni dei risultati che egli stesso giudicò più soddisfacenti furono pubblicati sotto il titolo di Ricerche filosofiche. Il primo Wittgenstein formulò una teoria del linguaggio che fu assunta come base dai neopositivisti di Vienna, e attraverso di loro determinò molte caratteristiche dello studio del significato (la cosiddetta "semantica filosofica") fino a oggi; il secondo Wittgenstein sostenne invece che fare una teoria dei linguaggio non è né possibile né necessario, e che, più in generale, la filosofia

non deve produrre teorie, le teorie filosofiche sono sempre sbagliate. Il primo Wittgenstein pensava che il linguaggio raffiguri la realtà, il secondo pensava invece che questa tesi sia l'estensione indebita e dogmatica di una metafora fin dall'inizio confusa e fuorviante, una cattiva "immagine" da cui ci si dovrebbe liberare. Il primo Wittgenstein pensava che ci fosse, in un certo senso, un solo linguaggio, il secondo che ci fossero innumerevoli giochi linguistici differenti. Il primo Wittgenstein pensava che, a livello profondo, tutte le parole funzionassero allo stesso modo, e cioè come nomi di oggetti; il secondo pensava invece che le parole siano come gli attrezzi di un artigiano, che funzionano in modi molto diversi (martello, cacciavite, tenaglie, colla ... ) anche se sono tutti contenuti nella stessa cassetta. E così via. Certo, ci sono importanti elementi di continuità tra la riflessione del "primo" Wittgenstein e quella del "secondo", e le differenze sono state spesso esagerate da una Vulgata semplicistica (anch'io l'ho appena fatto); ma non c'è dubbio che Wittgenstein abbia a un certo punto raggiunto la convinzione che il suo libro giovanile, il Tractatus, fosse sostanzialmente sbagliato. Sbagliato in un modo interessante e forse importante, ma profondamente sbagliato.

Quand'è che Wittgenstein raggiunse questa convinzione? All'incirca, tra il 1930 e il 1936. Ma se si volesse indicare un momento preciso in cui compaiono le idee che caratterizzeranno il pensiero del "secondo" Wittgenstein, si dovrebbe indicare l'estate del 1932, quando il filosofo dettò il dattiloscritto di 768 pagine noto come Big Typescript (Ludwig Wittgenstein, «The Big Typescript», a cura di A. De Palma, Einaudi, Torino 2002, pagg. 772, euro 35,00). Mentre stava ancora dettando questo testo si mise subito a rielaborarlo, e continuò a lavorarci per alcuni anni. Un particolare stadio della rielaborazione fu pubblicato dagli esecutori testamentari del filosofo col titolò di Grammatica filosofica (1969); questa pseudo-opera di Wittgenstein, tradotta anche in italiano nel 1990, fu molto letta e commentata, mentre la sua fonte principale - il Big Typescript - rimase disponibile soltanto agli studiosi in forma di microfilm. Recentemente (2000) ne è stata pubblicata l'edizione critica, e ora ne esce la traduzione italiana, a cura di Armando De Palma (una piccola parte, il capitolo intitolato Filosofia, era già stata tradotta nel 1996 da Donzelli). La traduzione di De Palma ha il merito di riprodurre l'assoluta quotidianità del linguaggio di Wittgenstein, il meno tecnico dei filosofi.

Il Big Typescript è un testo di transizione non tanto perché rappresenti una fase distinta del pensiero di Wittgenstein intermedia tra il Tractatus e le Ricerche, quanto perché riflette il tortuoso percorso attraverso cui il filosofo si liberò di molti aspetti della sua prima filosofia per assumere un punto di vista nuovo; e lo riflette cosi da vicino da contenere, in molti casi, sia i tentativi di venire a capo delle difficoltà del Tractatus restando all'interno della sua prospettiva, -sia l'abbandono di quella prospettiva e la denuncia di quei tentativi come inutili e inetti. Così, il libro contiene sia la teorizzazione del verificazionismo (la posizione secondo cui comprendere una proposizione è essere in grado di verificarla qui e ora, nell'esperienza presente) sia il suo abbandono; sia il tentativo di riscattare la teoria delle proposizioni elementari del Tractatus, attraverso analisi sottili quanto vane di enunciati come «a è rosso e a è verde», sia la critica della nozione di oggetto assolutamente semplice del Tractatus, che era alla base della teoria delle proposizioni elementari (§96), e la relativizzazione della nozione stessa di proposizione elementare (§28).

Da questo magma, a volte esasperante per il continuo ritorno di problemi e soluzioni che sembravano alle nostre spalle, emergono tuttavia i tratti del nuovo pensiero di Wittgenstein. Anzitutto la critica dell'essenzialismo, cioè dell'idea che la filosofia debba cercare di determinare l'essenza del linguaggio, della proposizione, della regola e in generale di tutti gli strumenti concettuali di cui essa ha bisogno (come se potesse esserci una filosofia prima della filosofia) (§15). Questi concetti sono pienamente utilizzabili anche se non ne sappiamo dare una definizione precisa (anche se non hanno una definizione precisa): «L'uso delle parole "gioco", proposizione, "linguaggio" eccetera. ha il carattere sfumato proprio dell'uso normale di tutti i nomi comuni del nostro linguaggio. Credere che per questo motivo siano inservibili... sarebbe come se si volesse dire: "La luce della mia lampada è inservibile, perché non si sa dove cominci e dove finisca"». Si affaccia così l'idea delle somiglianze di famiglia, resa notissima dalle Ricerche: i giochi, ad esempio, non hanno necessariamente tutti qualcosa in comune, in virtù della quale li chiamiamo tutti "giochi", ma sono imparentati tra loro da una rete di analogie: «Chiamo "gioco" ciò che sta nell'elenco (dei giochi che ci sono familiari), come anche ciò che fino a un certo punto (che non specifico ulteriormente) è simile a questi giochi» (§15, 49).

Se non si tratta più di determinare l'essenza del linguaggio, il lavoro del filosofo diventa l'esplorazione del linguaggio cosi com'è; non più il tentativo di cogliere strutture profonde che il linguaggio così com'è maschera, ma la descrizione di un modo di funzionare che è sotto i nostri occhi. La «rappresentazione perspicua» delle regole d'uso del nostro linguaggio, della sua
grammatica, ci dà ciò che avevamo cercato "dietro" o "sotto" la superficie del linguaggio (§94). Per cogliere le regole del nostro linguaggio è utile immaginare semplici situazioni di introduzione e uso di espressioni linguistiche (che Wittgenstein comincia proprio qui a chiamare "giochi linguistici", §46): un bambino che impara a usare le parole "luce" e "buio", due persone che costruiscono una casa passandosi lastre e mattoni (§7). Qui si vedono come in vitro alcune caratteristiche del nostro linguaggio (e quindi dei nostri concetti, dei nostri modi di organizzare l'esperienza).

Chi conosce un po' Wittgenstein sa quale forma queste idee abbiano assunto nelle Ricerche filosofiche, e quale uso il filosofo ne abbia fatto. Vale la pena di seguirne la formazione nel Big Typescript, straordinario laboratorio di una delle grandi filosofie del secolo passato.
 
Karl Popper, il più grande filosofo della scienza mai esistito

Dario Antiseri presenta uno straordinario volume su un protagonista assoluto del secolo XX

"La credenza nella certezza scientifica e nell'autorità della scienza si riduce a un pio desiderio: la scienza è fallibile, perché la scienza è umana". Sono parole di Karl Raimund Popper, il più grande filosofo della scienza mai esistito, di cui quest'anno ricorre il centenario della nascita. A lui la casa editrice Rubbettino dedica uno straordinario repertorio fotografico, accompagnato da una serie di saggi di Dario Antiseri, docente di Metodologie delle scienze sociali presso la Luiss, intitolato: "Karl Popper. Protagonista del secolo XX".

Secondo Imre Lakatos le idee di Popper rappresentano "lo sviluppo più importante nella filosofia del secolo ventesimo; si tratta di un'impresa nella tradizione e al livello di Hume, Kant o Whewell". E’ proprio lo sviluppo delle idee di Popper viene delineato da Dario Antiseri: la prima guerra mondiale è la "finis Austriae"; gli anni di guerra e di miseria, e di sommovimenti politici nella Vienna del dopoguerra; gli anni di formazione e la successiva partecipazione di Popper alla riforma della scuola in Austria; i suoi rapporti con il lascito intellettuale della "Grande Vienna". E ancora, il suo atteggiamento critico nei confronti dei neopositivisti del "Wiener Kreis"; la sua opposizione a Freud; le sue discussioni con Einstein negli Stati Uniti; le sue critiche al marxismo; le affinità del razionalismo critico con l'epistemologia evoluzionistica di Konrad Lorenz. Infine lo scontro, a Cambridge, con Wittgenstein sulla natura dei problemi e delle teorie filosofiche; il dibattito che, a Tubinga, vide contrapposti, sulla logica delle scienze sociali, Popper e Adorno; le ragioni della società aperta e la devastazione dei presupposti teorici della società chiusa.
 
la cugina di Karl Popper
 

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Antiseri: «La mia battaglia per Popper»

Il professore ricorda le difficoltà, per diffondere in Italia le teorie politiche del filosofo austriaco: «Bussai a tutti gli editori, ma i marxisti erano ostili e i liberali crociani indifferenti. Finché ..»

L'inverno di Sir Karl Rajmund Popper è tramonta_to ormai da molto tempo. Il suo nome è diventa_to orecchiabile. Non stona più nelle pagine dei giornali. Non è più il nume tutelare di pochi circoli liberali. Non è una novità, né una riscoperta.

Non gode di censure eccellenti e forse, a differen_za di Hayek e di Mises, è perfino entrato nel Pantheon della sinistra, quella laburista o socialdemocratica, di Blair e an_che di Fassino, magari puntando più sul Popper della Catti_va maestra televisione che su quello della società aperta e soprattutto dei suoi nemici. Tempi che cambiano. Popper, per caso o per scelta, è anche il nome di un gruppo rock di Torino che si ispira ai Subsonica e ai Bluverigo, di una droga sintetica e di un'esca per i pesci. Non è stato sempre così. Ed è una storia che vale la pena raccontare.

La notizia della sua morte arrivò un sabato di settembre di otto anni fa. Sir Karl Raimund Popper aveva compiuto, due mesi prima, 92 anni. Era uno degli ultimi grandi filosofi del Novecento. Popper non ha costruito cattedrali, è stato piuttosto un agrimensore, attento a disegnare confini, a fissare paletti, quelli della conoscenza e quelli del potere. Poi, invecchiando, anche quelli della tolleranza. Era nato in una Vienna ancora asburgica e imperiale il 28 luglio 1902, cento anni fa, figlio di un'altra epoca, di cui ancora non si conoscevano le sorti. Ha visto l'assolutismo e il nichilismo rincorrersi lungo tutto il Novecento, poi scontrarsi, sovrapporsi, altre volte specchiarsi o convergere. E lui ha cercato di rintracciarne le radici, con quel pessimismo da esule austriaco, bagnato e compensato dal buon senso inglese, con la solidità che ti può dare una stella polare kantiana.

IL RIFIUTO DI CHI CONTAVA

La sua storia e quella del suo saggio più politico, La società aperta e i suoi nemici incrocia, nell'estate del 1963, quella di un giovane ricercatore italiano, Dario Antiseri, che studiava all'Università di Vienna e si trovò a seguire alcuni seminari del professore austriaco, non ancora baronetto, e ordinario alla London School Economics. L'opera di Popper, allora, era in netto contrasto con i tempi. Per molti la sua fama era quella di un «neo-positivista» per di più «reazionario». Il marxismo, in Europa, coincideva ancora con il «sole dell'avvenire». E più che un dogma era una verità scientifica. In Italia, poi, il Popper «politico» era semplicemente ignorato. Lasciamo che sia lo stesso Antiseri a raccontare.

«Torna in Italia nel 1964. Avevo raccolto libri e note su Popper. Di lui qui c'era poco. Nel 1954 Ferdinando di Fenizio (editrice L'industria) aveva pubblicato Miseria dello sto_ricismo. L'Einaudi avrebbe pubblicato solo nel 1969 Scien_za e filosofia e poi Logica della scoperta scientifica. Il Mulino nel '72 fece uscire Congetture e confutazioni. Il mio obiettivo prioritario era un altro. Avevo in testa la società aperta. Peregrinai di porta in porta, bussai a tutti gli editori. Oltre alle difficoltà ideologiche, c'era anche il peso del libro, due volumi di 700 pagine. Fino a quando nella primavera del '70 arrivai a Roma, in viale della Gensola, dall'editore Armando. Mi ascoltò con pazienza, poi con interesse. In se_guito fu lui a cercarmi per saperne di più. Qualcuno - che allora contava, e molto - l'aveva sconsigliato, con queste parole: "Popper è un pover'uomo e Antiseri un ragazzo entusiasta". Armando fu coraggioso e capi subito che si trattava di un'opera troppo importante; la pubblicò».

Era il 1973. La società aperta fu accolta con mol_te critiche e poco clamore. Arrivò una recensione di Norberto Bobbio, non negativa, ma piuttosto fredda. Rinascita - nel 1974 - bollò Popper come un «dilettante che diffonde uno sfiduciato irrazio_nalismo». Su Critica marxista venne definito un «maccartista». «Non c'erano solo i marxisti ostili, ricorda Antiseri - ma anche l'indifferenza dei libe_rali crociani. Alfredo Parente commentò un'inter_vista di Popper a L'Express scrivendo: "Popper non ha capito niente! Quel che è certo è che da un simile discorso non si riesce a cavare cosa sia la verità". Pochi, infatti, avevano compreso il legame che cor_re tra il Popper filosofo della scienza e il Popper teorico della politica». Ecco allora, Popper l'epistemologo, che non ha mai avuto «fede» nella scienza, ma ne conosceva il valo_re e la forza. «La scienza - diceva - va avanti per teorie ed errori». La verità è solo un ideale verso cui si tende, un limi_te, e anche se si raggiunge non possiamo esserne certi per sempre. La scienza è fallibile, perché la scienza è umana. E i fatti, l'osservazione scientifica, non bastano i dirci se una teoria è vera, ma ci dicono sempre quando una teoria è falsa. E - come ricordava sempre Sir Karl -fuggire gli errori è un ideale meschino. Nessuno può evitare di farli, la cosa grande è imparare da essi».

TUTTI MALATI DI «POPPERITE»

Popper parlava di queste cose con Einstein e Konrad Lorenz, con Wittgenstein e con Hayek, ma è chiaro che le conseguenze del suo discorso lo portavano al di là dei pro_blemi epistemologici, oltre la scienza, su un terreno più critico: la filosofia politica. Se la verità è sempre in bilico, se le conseguenze delle proprie azioni sono sempre illimitate, se la storia non ha un destino, allora è difficile, anzi impossibile, costruire una società perfetta. E chi ci prova o un truffatore, o un pericoloso illuso. Chi ti offre il paradiso in verità ti sta vendendo l'inferno. Popper indica i nomi: Platone, Hegel e Marx . «Non fu facile - racconta Antiseri - far passare in Italia queste idee. Il liberale Parente parlava di "popperite". Per _fortuna non tutti i crociani la pensavano come lui. Penso a Girolamo Cotroneo o a Giuseppe Bresci. C'è stato il grande impegno scientifico e di divulgazione della "scuola pisa_na", Francesco Barone e con lui Marcello Pera, che ha por_tato la polemica sui giornali, il lavoro di Angelo Maria Petroni e di Raimondo Cubeddu. Il filone cattolico di Adriano Bausola e Massimo Baldini, il lungo dibattito aperto all'ini_zio degli anni '80 da Luciano Pellicani su Mondo Operaio. Noi della Luiss, il mio lavoro e quello di Lorenzo Infantino».

Nell'ultimo decennio del Novecento Popper non è più un alieno neppure a Botte_ghe Oscure. Sono gli anni di Cattiva maestra televisione e dell'intervista di Giancarlo Bosetti, direttore di Reset e vice all'Unità. E il Popper più con_troverso, forse un po' meno, molto meno liberale, anche se Antiseri non è d'accordo. «No - dice - sbagli. Quando Popper chiedeva una patente per i professionisti della tele_visione era preoccupato per la violenza di certi immagini. E dell'effetto che poteva avere sui bambini. La Televisione fa diventare normale ciò che è disumano. Abbassa il limite di guardia nei confronti dell'orrore. E una società aperta ha il dovere di essere intollerante verso i violenti e gli intolleranti. Va difesa».

Forse questa piccola storia merita un epilogo. Qualche settimana fa ricevo una telefonata mattutina da molto lon_tano. E' Antiseri. Ha la voce di un ragazzino entusiasta. «So_no all'Università Statale di Mosca». Incredibile. «Sono con Giovanni Reale. Ci danno la laurea Honoris Causa per il nostro manuale, Storia della filosofia occidentale». Molti dei critici della filosofia borghese sono in aula. Ancora dieci anni fa erano professori di materialismo storico, di etica marxista, di comunismo scientifico, di storia del Pcus. Ap_plaudono Giovanni Reale e l'allievo di Popper. Li applaudo_no dall'Università Statale di Mosca e quello statale fa un po' sorridere di tenerezza. Forse Antiseri ha vinto la sua batta_glia.
 
Chiudeva in un cerchio quasi perfetto la linea della sua vita morendo 62enne il 29 aprile 1951, tre giorni dopo il suo compleanno. Malato ma ancora lucido, Ludwig Wittgenstein lavorò fino all'ultimo e, a Cambridge, due giorni prima di morire, era ancora impegnato nella redazione delle Osservazioni sui colori e degli appunti raccolti poi in Della certezza. La continuità del suo percorso biografico (e teorico) aveva però incontrato tra la nativa Vienna fin de siècle e la Cambridge degli anni Cinquanta, tra l'Austria di Brahms, Schönberg, Musil e Kokoschka e l'Inghilterra dei logici e dei matematici, di Moore e di Russell una serie di deviazioni e di interruzioni. Tanto che, di Wittgenstein, i filosofi ne conoscono almeno due.

Il primo, da volontario dell'esercito austriaco, aveva completato l'opera di esordio, il Tractatus logico-philosophicus, tra i combattimenti della Prima guerra mondiale e il campo di prigionia di Monte Cassino. E lo aveva concluso con la celeberrima, citatissima proposizione: "Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere". Poi, coerentemente, si era chiuso nel silenzio. Pubblicato nel '21, dopo la fine del conflitto, il Tractatus sarebbe diventato il testo filosofico più famoso (e frainteso: a partire dai logici del Circolo di Vienna) del Novecento. In nemmeno cento pagine vi era definito una volta per tutte il confine tra il dicibile e l'indidbile, tra le proposizioni logicamente sensate e le domande insensate della filosofia. Toccato questo limite, tracciato il contorno del territorio entro cui si fa della parola un uso lecito e, soprattutto, indicati i punti in cui le "zufolanti" pseudo-proposizioni della filosofia sfondano quel recinto, Wittgenstein abbandonò il lavoro teorico e tacque.

Si incide qui la cesura più profonda della sua linea di destino che, dall'inizio degli anni Venti, appare spezzata in una sequenza di segmentini. Per circa un decennio Wittgenstein si dedica alle attività più diverse. Insegna nella scuola elementare di un paesino della Bassa Austria. Lavora come giardiniere nel convento di frati ospitalieri di Hütteldorf, vicino a Vienna. Nella capitale austriaca collabora, da architetto, alla progettazione di una casa per la sorella Gretl (dando peraltro una prova felice di senso dello stile).

Per lui che così aveva scelto di dare un'immagine pubblica alla paradossale estraneità del filosofo, alla sua esteriorità rispetto ai circuiti "normali" e sensati della comunicazione, e si era sottratto agli ambienti filosofici istituzionali, la lontananza dalla vita accademica non sarebbe durata a lungo. A Vienna frequenta i futuri membri del Circolo di Carnap (Moritz Schlick, Friedrich Waismann) che lo convincono a tornare alla filosofia. Data alla fine degli anni Venti l'inizio del suo cosiddetto "secondo periodo". Quello in cui, ripreso l'insegnamento a Cambridge (e divenuto dal 1938, dopo l'Anschluss dell'Austria al Reich tedesco, cittadino britannico) approfondisce le analisi del linguaggio di cui le postume Ricerche filosofiche sono il precipitato.

Oggi, a cinquant'anni dalla morte, Wittgenstein, che ha impresso alla filosofia novecentesca la torsione decisiva verso la critica del linguaggio, continua a rappresentare un punto di riferimento imprescindibile. Non solo nell'ambito della linguistica.
 
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