la biblioteca ideale

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In Francia all'epoca di Carlo V (1364\1380) la coscienza della qualità estetica del libro è ormai chiara. Si veda il Breviario di Filippo IV il Bello, che più tardi fece parte della biblioteca di Carlo V: grafismo gotico di straordinaria eleganza, illustrazioni raffinate. Nell'inventario dei libri di Carlo V, redatto nel 1380, viene descritto come: «un grant bréviaire entier, très noblement escript et très noblement enluminé et ystorié»: assai nobilmente decorato e istoriato. Di Carlo V viene creata una nuova immagine nella decorazione del libro: il sovrano seduto tra i suoi libri, atta a rappresentare il 're saggio' nella pienezza del suo potere e della sua vita intellettuale. Carlo V e suo fratello il duca di Berry, seguono, nel loro rapporto con il libro, una tradizione che era stata propria delle donne di famiglia reale: Giovanna d'Evreux, Giovanna di Navarra, Giovanna di Borgogna. Una tradizione femminile proseguita poi con un numero notevole di donne- bibliofile
 
Nel XV secolo importante evento fu la biblioteca degli Aragona a Napoli (poi razziata da Carlo VIII). Inizialmente essa era una raccolta di libri, di re bibliofili, priva di un preciso progetto culturale e finalizzata all'acquisizione di bei libri di devozione e intrattenimento. Nella Napoli aragonese questa biblioteca si trasforma in biblioteca di Stato, innestandosi in essa il modello umanistico della biblioteca pubblica, nel momento in cui Alfonso Aragona e la sua corte volevano conferire una certa 'immagine' alla monarchia instaurata a Napoli nel 1442. I libri furono materialmente sistemati in alcuni locali ai piani superiori di Castelnuovo, costituendo una vera e propria biblioteca aperta alla pubblica consultazione e nella quale si tenevano anche pubbliche letture. Sempre più entrarono autori classici, in quanto cardini della formazione umanistica. I nuovi esemplari furono improntati alle fogge librarie umanistiche più eleganti e ricercate. Sia sotto Alfonso che sotto il lungo regno di Ferrante, accanto alla biblioteca (come presso le altre biblioteche di Stato) funzionava un corpo di scribi, miniatori, rilegatori stipendiati per produrre manoscritti di lusso, sia per la biblioteca che per uso privato del sovrano e dei membri della famiglia reale.
 
Tra i tanti codici miniati presenti in questa biblioteca, da segnalare "Il Paradiso di Dante Alighieri", miniato nel c.1445 proprio per la biblioteca del re di Napoli dal senese Giovanni di Paolo (c.1399\1482). Sono 61 miniature che non ritraggono solo Dante e Beatrice, come fanno in genere i primi manoscritti miniati, ma anche i vari personaggi che si incontrano. E' un piccolo capolavoro artistico che mostra come il poema alighieriano venisse interpretato verso la metà del XV secolo. Il codice (chiamato "Yates- Thompson") finì poi al British Library of London.
 
I codici miniati
Un particolare aspetto riguarda la produzione dei codici miniati, cioè arricchiti di disegni e pitture. Siamo in un territorio di confine tra arte pittorica e scrittura. Il libro illustrato rimanda a una produzione colta, e a una committenza ricca. Si tratta di ricchi privati (uomini di chiesa, umanisti, signori), o istituzioni private (la chiesa cattolica: vescovati, pontefice ecc.) che promuovono la committenza di questi libri illustrati, tenuti come opere d'arte e come tali custoditi e conservati, oggetto di prestigio, singolo di status sociale. Non si tratta solo di libri illustrati. Già tra i secoli IV e VI, in europa occidentale, nel libro illustrato il repertorio iconografico tende a perdere la sua funzione puramente decorativa per porsi come complemento esplicativo del testo, con un suo ruolo autonomo sottolineato dalla tipologia dell'illustrazione disposta a piena pagina, in quadro singolo o a registri sovrapposti, isolata dal testo scritto. Una tipologia sconosciuta (a quanto ne sappiamo) al libro antico greco-latino. E' il segno delle profonde trasformazioni sociali e culturali. L'immagine viene caricata di una vera e propria funzione pedagogica, da parte di una chiesa che non poteva disporre di un proprio personale interamente alfabetizzato, e ansiosa di comunicare il suo messaggio agli analfabeti.
 
E' il periodo in cui la comunicazione, non solo scritta o orale ma anche sociale diventava sempre più difficile per l'irrompere sulla scena di "gentes" nuove, i "barbari" con il problema di acculturazione e di mutamento degli statuti culturali che essi ponevano. Il "manifesto" di Gregorius Magnus non lascia dubbi: quanti mancano di istruzione, gli «ignorantes», il «populus imperitus», possono vedere nelle immagini quel che non sono capaci di leggere nei libri. L'immagine è per essi testo, scrittura. L'immagine deve così disporre gli elementi secondo schemi iconografici tali che possa "leggerli" come una scrittura. Fondamentali diventano le regole grammaticali icnografiche, i dispositivi iconografici che standardizzano pose e elementi simbolici, i "dispositivi di riconoscibilità": le architetture, gli arredi, le vesti, gli oggetti, i gesti, i simboli, le formule, le opposizioni e le simmetrie, le concatenazioni.
 
Un esempio banale: l'aureola posta dietro il capo dei personaggi ritenuti santi. Questi dispositivi assumono la funzione di citazioni, "exempla", partizioni, come si incontrano nella costruzione e nella presentazione del testo e che guidano nella comprensione del discorso. In questa prospettiva, pedagogia e autonomia dell'immagine procedono di pari passo sollecitandosi e condizionandosi a vicenda. L'immagine produce un suo discorso figurale con funzione educativa: in maniera pedissequa o speculare rispetto a quello del testo, svolgendo un ruolo complementare o sostitutivo; oppure funzionando da commentario, esplicitando quello che nel testo rimane sottinteso, o sottolineando passi particolari enfatizzandoli, o riassumendo in un unico quadro una molteplicità di episodi, o orientando con scene mirate la lettura secondo determinati significati allegorici e/o ideologici, o ancora facendo trasmigrare da un testo a un altro diverso adattandosi a contenuto e esigenze di quest'ultimo.
 
A questi libri illustrati danno il loro contributo artisti e artigiani. Anonimi ma anche, in linea con il mutamento dei tempi intercorso tra il XIII e il XV secolo, artisti noti e famosi. Nella libreria Piccolomini che si trova oggi a Siena è possibile ammirare alcuni di questi libri illustrati. Sempre a Siena (duomo), sono alcuni antifonari, tra le cose più belle dal punto di vista pittorico; vi si possono ammirare la "Resurrezione" (c.1470, in:cod.23.8, f.2r.) di Girolamo da Cremona, "San Martino e il povero" (c.1470, in:cod.28.12, f.101v.) di Liberale da Verona, due artisti fatti venire apposta dal nord Italia per procedere alla decorazione e illustrazione di questi antifonari.
 
A Francesco di Giorgio Martini si deve la prima pagina del "De animalibus" di Albertus Magnus, conservato presso il convento dell'Osservanza di Siena: il poliedrico artista si dedicò alla miniatura nella fase giovanile. Suo è anche una "Natività di Cristo" (c.1460) che si può vedere nell'antifonario già appartenuto all'abbazia di Monteoliveto Maggiore vicino Siena, e ora conservato nel museo del Duomo di Chiusi. E' la cosiddetta "tavoletta di biccherna" (c.1467), raffigurante la città di Siena al tempo del terremoto del 1466, "al tempo de'tremuoti" come si può leggere nella stessa. Quest'ultima è interessante dal punto di vista storico- documentario: la "biccherna" era la magistratura finanziaria della Repubblica senese, e fin dalla metà del XIII secolo adottò l'uso di far dipingere le copertine di legno dei propri registri amministrativi. L'uso si estese poi alla gabella (altra magistratura finanziaria) e poi all'ospedale e all'opera del duomo. Oggi possiamo vedere queste copertine presso l'Archivio di Stato di Siena: ce ne sono attualmente 103 pezzi, ad opera dei maggiori artisti della città: Duccio, Ambrogio Lorenzetti, Sano di Pietro, Giovanni di Paolo, Neroccio, Benvenuto di Giovanni ecc.
 
Si procedeva dunque all'illustrazione del libro che si intendeva conservare, che doveva costituire documento familiare o dell'istituzione. In questo modo il libro usciva dal semplice uso di archivio di un testo, memoria di un contenuto (amministrativo, religioso, privato ecc.), per diventare oggetto d'arte. Si può dire che proprio nel momento in cui il libro manoscritto e miniato stava per essere soppiantato dall'introduzione della stampa, raggiungeva il massimo della sua bellezza e diffusione.
 
L'uomo che tradizionalmente è considerato l'inventore della stampa a caratteri mobili è Johann Gensfleish, passato alla storia col nome di Gutenberg, dal paese di provenienza. La sua intuizione fu quella di fabbricare le matrici di ogni singola lettera dell'alfabeto per poter stampare un qualsiasi testo combinandole in tutti i modi. Intorno al 1450, Gutenberg stampò la Bibbia in 200 copie; l'opera è considerata il primo libro stampato uscito da un torchio a caratteri mobili.

Pesto questa tecnica si diffuse a macchia d'olio e, per far fronte alle sempre più ampie richieste, i torchi per il vino vennero convertiti per la stampa. Questa innovazione tecnologica, tuttavia, suscitò anche le lamentele di quanti preferivano i libri manoscritti. In effetti questi ultimi erano molto più belli e pregiati, ma, nella controversia, era in gioco la rivoluzione non della forma, ma del significato e del concetto di libro: da una concezione estetica si passava ad una concezione pratica.

Attraverso questo cambiamento, il germe del libro moderno era innescato. Nel giro di poco tempo, si affermò il carattere latino su quello gotico, meno leggibile.

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Il problema di riprodurre in più esemplari scritti e immagini, interessò fin dai tempi remoti tutti i popoli, ma una soluzione diversa dalla copiatura a mano si ebbe soli in tempi relativamente recenti: in Cina, nel sec. IV, si diffuse la cosiddetta "stampa tabellare". Una lastra, prima di legno poi di rame o bronzo, veniva incisa con il testo (scritti e illustrazioni) da riprodurre impresso al rovescio: i fogli venivano poi stesi uno alla volta sulla lastra inchiostrata e leggermente compressi in modo che su di essi rimanesse l’impronta dei grafismi. Questo metodo (xilotipia), adottato più tardi anche in India e nei Paesi islamici, si diffuse durante il Medioevo in Europa, ma essenzialmente per la produzione di carte da gioco, immagini sacre e, talvolta, orazioni e bandi.

Nel sec. X, sempre in Cina, ebbe inizio la stampa con caratteri mobili, prima in legno poi in terracotta; il primo "libro" stampato con caratteri mobili di piombo, mediante un torchio tipografico, venne realizzato in Corea nel 1409. Contemporaneamente, in Europa, si era perfezionata la stampa tabellare su lastre metalliche soprattutto a opera di stampatori olandesi e tedeschi, ai quali si devono anche i primi tentativi per realizzare caratteri tipografici mobili in metallo e l’uso di nuovi inchiostri a rapida essiccazione. Chi risolse i problemi della produzione di un elevato numero di caratteri tutti uguali, del perfetto allineamento delle righe di stampa composte e di un metodo rapido d’impressione su fogli di carta fu Johann Gutenberg, che, in collaborazione con Johann Fust e Peter Schoeffer, inventò il compositoio e la forma di stampa per caratteri mobili in piombo e introdusse il torchio da stampa, derivandolo da quello per vino allora in uso.

Gutenberg e i soci stamparono, fra 1445 6 1460, in più copie assai nitide, una grammatica, un calendario, alcune "lettere d’indulgenza", un salterio e le famose Bibbie. Con Gutenberg, il nuovo metodo di stampa, noto in seguito come tipografia, si affermò rapidamente: da Magonza passò via via in tutta l’Europa e alla fine del Quattrocento non esisteva città importante che non avesse una sua tipografia. Pur se la tecnica era primitiva, i torchi a braccio di questi prototipografi diedero opere meravigliose: nel sec. XVI fu tutto un fiorire di classici, di opere in volgare, di volumetti spesso impreziositi dalle illustrazioni realizzate a parte col metodo della xilografia e poi inserite nella composizione prima della stampa.
 
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