A prescindere dal fatto che sia giusto o meno (doveroso o meno) aumentare la spesa militare.
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Nonostante sia finita la stagione delle larghe intese, in Parlamento non sembra terminata la politica bipartisan sulla Difesa, che secondo il democratico Borghi «è l’attuazione di una linea di politica estera. E con una guerra in corso, con lo scontro globale tra democrazie e autocrazie, una capacità di sintesi e di scelte comuni si impone». Insomma, l’intesa s’ha da fare.
Il governo ne è consapevole, ha chiesto a Bruxelles di poter scorporare gli investimenti per la Difesa dal patto di Stabilità, sapendo di contare sul sostegno di tutte le forze parlamentari. Tutte tranne i Cinquestelle.
Eppure era stato Conte ad innalzare il bilancio della Difesa quando sedeva a palazzo Chigi, invertendo la regola dei tagli che andava avanti da ormai venti anni: 4 miliardi in più per tener fede alla promessa fatta a Trump di «arrivare al 2% del Pil». Sarà stato anche quello «un errore di gioventù». Come la decisione di cedere armamenti all’Egitto per 4 miliardi durante il governo con la Lega. E di firmare un accordo per la vendita di navi e aerei militari, sempre all’Egitto ma durante il governo con il Pd. Chissà quale sarà la reazione del leader grillino appena saprà che il ministro degli Esteri Tajani — nella sua recente visita al Cairo — ha discusso dell’imminente passaggio di 24 Eurofighter all’aviazione di Al Sisi per 3 miliardi: è parte della commessa che aveva firmato da presidente del Consiglio. La Difesa ha bisogno di investimenti, almeno su questo non ci può essere guerra in Parlamento.