Mobili di ieri, di oggi e oggetti di design

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Nel 1986 Top Gun fu un successo straordinario, restando per molti anni un film di riferimento: azione, sentimento e... motori. Non soltanto quelli degli aerei, gli F-14 Tomcat ,della scuola d'aviazione di Miramar dove è ambientata la sceneggiatura ma anche quelle delle moto che Tom Cruise, che nel film interpreta il Tenente Pete Mitchell, usa durante le riprese.
Top Gun significa (anche) Kawasaki.

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La leggendaria Kawasaki GPZ 900 R è una delle motociclette più importanti della sua epoca o, ancora meglio, della nuova Kawasaki Ninja H2, che Maverick guida nel trailer del nuovo Top Gun.
La vecchia GPZ è stata la prima Kawasaki della storia a fregiarsi dell'appellativo Ninja.
La moto era davvero un oggetto speciale, tanto che in Giappone l'hanno venduta fino al 2003. Motore 900 cc, 4 cilindri e 16 valvole capace di erogare 115 CV a 8.500 giri e di spingere la GPZ 900 R fino a 260 km/h, dopo aver bruciato il quarto di miglio con partenza da fermo in 10,55 secondi. E poi, considerati gli standard di metà anni Ottanta, teneva la strada benissimo e aveva freni affidabili. Non a caso ne sono state vendute oltre 70.000.



E pensare che all'epoca delle riprese di Top Gun, Tom Cruise non sapeva andare in moto. Ma l'attore non si diede per vinto e prese diverse lezioni nel parcheggio di un concessionario Kawasaki di San Diego.
Celebre la frase di Maverick: «Sento il bisogno, il bisogno di velocità»
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Salto di oltre 35 anni e ci ritroviamo nel 2022: il trailer di Top Gun Maverick è inequivocabile e mostra un Tenente Mitchell in una rimessa dove accanto ad altre glorie Kawasaki giace coperta da un velo la GPz 900R, per ritrovarsi però nella sequenza successiva in sella alla Kawasaki Ninja H2, un gioiello di tecnologia da ben 231 cavalli, sovralimentata da un compressore centrifugo e rigorosamente monoposto (anche se nel trailer c'è una sequenza dove Cruise guida la H2 portando come passeggera la protagonista femminile).

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Una motocicletta che non vuole essere una hypersport e garantire il massimo dell'efficacia in pista, quanto rappresentare un veicolo esclusivo, vetta tecnologica ed esponente di quelle moto alla ricerca di primati nelle drag race o sfide di velocità; non per niente la sua versione R da 310 cavalli - non omologabile e destinata solo all'uso in pista - ha superato i 400 km/h in Turchia, sul ponte di Izmit, dopo soli 26 secondi dal via con Kenan Sofuoglu alla guida.
Sarebbe stato sufficiente per battere un caccia al decollo in una gara di accelerazione?


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Robocop (2014) – Più agile e snello del suo precursore anni 80, il nuovo Robocop abbandona la sua celebre Ford in favore di una bella moto sportiva. Tra le skill del mezzo, una posizione di guida sdraiata e la carrozzeria antiproiettile.

La trama si svolge nel 2028, luogo e tempo in cui l’uomo è totalmente alle prese con la tecnologia e l’innovazione. L’attore Joel Kinnaman, è il protagonista che interpreterà le gesta eroiche di Robocop. Il cyborg poliziotto dalle sembianze eroiche, sarà alle prese con combattimenti e gesta folli che contrasteranno il male, in sella ad una moto d’eccezione, una Kawasaki Z1000.

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All’apparenza non ci si scommetterebbe sulla moto, lontana esteticamente dalla Kawasaki di serie, ma dietro lamiere futuristiche si nasconde proprio il gioiellino della casa giapponese. Sembrerebbe un giocattolo, ma la carena è interamente sigillata da protezioni, in modo da acquisire notevolmente un aspetto tecnologico. Cerchi lenticolari e rivestimenti blindati, fanno si che l’unica parte originale visibile sia la pinza freno anteriore.

Dal designer spettacolare, la Kawasaki Z1000, si presenta sinuosa e curvilinea in un accattivante nero, che le conferisce un aspetto lugubre e duro, classico di un eroe cinematografico.


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La Robocycle non ha niente a che vedere con la Harley-Davidson Softail di serie che il cyborg-poliziotto usava in Robocop 2 (1990): stavolta è una moto su misura per un personaggio che indossa una corazza e sfrutta l'elettronica in parallelo con le funzioni vitali.


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L’importanza del design per David Bowie, e di David Bowie per il design. Dalla collezione di arredamenti Memphis ai costumi dei suoi alter-ego, la vita e la carriera del musicista britannico si sono intrecciate in maniera indissolubile al mondo del design

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Nel Novembre 2016, a meno di un anno dalla dipartita di David Bowie, Sotheby's metteva all’asta una collezione molto particolare. Cento pezzi di Memphis – dalla libreria Carlton al cabinet Casablanca di Ettore Sottsass, passando per il Plaza Vanity Table di Michael Graves alla Super Lamp di Martin Bedin – che mettono in luce la passione che Bowie nutriva per il collettivo di artisti fondato nel 1981 a Milano.
Un gruppo di designer il cui nome strizzava l’occhio a Bob Dylan e alla sua Stuck Inside a Mobile With The Memphis Blues Again – sibillino segno della gioventù Beatnik di Sottssass, condivisa da Bowie – d’altronde non poteva che incontrare i gusti di Bowie, che dedicò proprio a Dylan il titolo di una canzone sul suo primo LP di successo, Hunky Dory.
Bowie ne apprezzava la capacità di creare pezzi straordinariamente innovativi pur recuperando materiali retro e demodé come la formica, i laminati plastici e la radica. In un’intervista del 2009 per GQ, accanto al suo adorato tavolo Palm Springs di Sottsass, diceva


“Da ragazzino ho trascorso un’incredibile quantità di tempo a leggere e disegnare seduto al tavolo del salotto, proprio come questo. […] Il tavolo è dell’originalissimo gruppo di designer milanesi Memphis, probabilmente è fatto di faesite e vecchie calze.”

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Memphis, noto anche come Gruppo Memphis, Memphis Design o Memphis Milano, è stato un collettivo italiano di design e architettura fondato da Ettore Sottsass, attivo tra il 1981 e il 1987.

Il gruppo emerse come uno dei massimi esponenti della scena postmodernista grazie a progetti audaci che traevano spunto dal design passato e presente; suoi tratti distintivi furono il ricorso a colori vivaci e forme geometriche, con un sapiente recupero del kitsch.
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Memphis incarnava quella spiazzante libertà artistica che già da oltre un decennio caratterizzava la carriera di David Bowie. Nelle scelte cromatiche di Memphis, sino ad allora mai osate, come nei pattern e nelle forme astratte, quasi infantili, dei suoi pezzi, si ritrova l’enigmatica e teatrale rottura con gli schemi degli alter ego di Bowie e delle loro liriche.
Come i designer di Memphis hanno saputo rendere gli arredi di lusso dei giocosi e accessibili divertissement di forme e cromie, così Bowie è stato un intellettuale profondo e raffinato, ma mai elitario. Un design postmoderno per un visionario che partendo dal modernismo ha saputo farsi demiurgo di una modernità nuova, anzi futura.
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"Sono un Pierrot. Uso me stesso come una tela,
provando a dipingerci sopra la verità dei nostri tempi".
David Bowie


David Bowie si avvale della visione di sarti come Freddie Burretti, che veste Bowie di abiti ora azzurro ghiaccio per il video di Life On Mars? ora giallo mostarda, consegnato alla storia dalla camera di Terry O’Neil. È un altro maestro della fotografia britannica, Brian Duffy, ha esaltare l’importanza del make-up per Bowie nello scatto che poi diventerà l’intramontabile copertina di Aladdin Sane.
C’è poi la collaborazione con lo stilista Alexander McQueen, il cui cappotto con pattern Union Jack – una “anti-icona” secondo Bowie – diventa il protagonista di Earthling, album del 1997 tra i più visionari dell’artista, che nonostante i suoi cinquant’anni coglie l’urgenza di documentare il nuovo fenomeno della drum and bass.
Immancabile, poi, il costume da pierrot di Natasha Korniloff per il video di Ashes to Ashes del 1980, tributo ai mimi che tanto lo avevano affascinato negli anni ‘60, quando si faceva fotografare, ancora artista folk, con cerone bianco e lacrima nera sul volto.

Sotto: Modellino del palco per il Diamond Dogs Tour del 1973 ispirato dagli ambienti urbani e distopici di 1984 di George Orwell.
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Su tutti svetta la collaborazione con lo stilista giapponese Kansai Yamamoto, con i cui costumi Bowie affronta l’Aladdin Sane Tour del 1973, diventando così tra i primissimi artisti a esplicare il necessario legame tra musica e fashion design.

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Le creazioni di Yamamoto con le loro silhouette iperboliche e esagerate diventano le più adatte a rappresentare l’estravaganza glam e teatrale del Bowie-Aladdin Sane.
I costumi ispirati da quelli per il teatro Bauhaus fanno emergere l’importanza che il passato – dalla Scuola di Weimar alla commedia dell’arte, passando per le icone pop della gioventù – rappresenta per Bowie come prerogativa per inventare il presente.

Il mondo futuro nelle scenografie e nei dischi

Con Bowie la continua creazione e dissoluzione di nuove stagioni culturali passa inevitabilmente per le scenografie. Ci sono quelle urbane, asfissianti e distopiche pensate come riattualizzazione degli scenari Orwelliani di 1984 per il tour nord americano di Diamond Dogs (1974).
Oppure la scacchiera umana per lo speciale televisivo 1980 Floor Show, in cui nell’autunno 1973 Bowie proietta la sua visione del futuro proponendo una cover di un brano di quasi dieci anni prima (Sorrow dei The McCoys), recitando, in un’atmosfera rarefatta e carica di tensione sessuale, frasi tratte da Alice nel Paese delle Meraviglie con la musa-regina della scacchiera Amanda Lear.




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Sono soprattutto, le copertine dei dischi a restituire la visione dell’arte e della società contemporanea secondo Bowie. Ci sono i cyborg glam di Pin Ups (1973), truccati da Barbara Daly, con cui, almeno concettualmente, Bowie anticipa di anni la nascita del punk, e il Bowie zoomorfo mezzo uomo-mezzo cane di Diamond Dogs (1974) creato da celebre illustratore belga Guy Peellaert – già autore del fumetto Pravda e set designer dello storico night parigino Crazy Horse.

Ma anche la pop art influenzata dall’esperienza degli Art Labs per la primissima copertina per il mercato statunitense di The Man Who Sold The World, illustrata da Michael J. Waller, così come la sua nuova veste in cui Bowie si fa ritrarre come un soggetto pre raffaelita in un abito dello stilista Mr Fish. Fino ad arrivare alle più recenti collaborazioni con lo studio di Jonathan Barnbrook che realizza l’artwork di The Next Day (2013), riprendendo e alterando, con grande ironia, la copertina dello storico Heroes.

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È sempre Barnbrook a concepire la cover di Blackstar, l’unica priva del volto di Bowie nell’intera discografia dell’artista, canto del cigno e ultimo coup de theatre dell’ex Duca Bianco, uscito a sorpresa nel Gennaio 2016 in corrispondenza del suo sessantanovesimo compleanno e della sua imminente dipartita. Il packaging del disco è un gioiello di simbolismo, contente velati riferimenti alla condizione terminale di Bowie e, in base alla luce a cui viene esposto, capace di riflettere e svelare stelle e costellazioni.

Dalle collezioni di moda alle opere d’arte e di graphic design, l’impronta di Ziggy Stardust o del Duca Bianco è sempre dietro l’angolo, in un continuo pastiche di richiami postmoderni.
Forse è proprio la sua pioneristica estetica androgina il lascito più grande, ennesima dimostrazione della capacità dell’“Uomo che cadde sulla Terra” di anticipare svolte culturali e trend generazionali.


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Lazzarini Design presenta il nuovo superyacht Plectrum da 15mila cavalli

Lo studio di design italiano Lazzarini Design ha presentato Plectrum, un nuovo super yacht da 74 metri che funziona a idrogeno e “vola” sull’acqua.
Attualmente il super yacht a idrogeno è in fase concettuale, ma lo studio Lazzarini Design è pronto a dare vita al progetto. Il prezzo si aggira intorno ai 80 milioni di euro.
Il modello si ispira al design degli ultimi yacht a vela visti all’America’s Cup, più specificamente i modelli Prada, che utilizzano sistemi di alluminio per sollevare e abbassare le braccia in acqua.

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Il sistema ad aliscafo è regolabile in base alle esigenze di navigazione e la larghezza varia tra i 15 metri (quando lo yacht è ormeggiato/ancorato e le “ali” sono chiuse) e i 20 metri (2,5 metri per lato, mentre naviga a velocità elevata).

La barca si affida a tre motori alimentati a idrogeno da 5000 CV ciascuno e può raggiungere la velocità massima di 75 nodi: dopo i 15 nodi l’imbarcazione può sollevarsi e volare sulla superficie dell’acqua. L’interno è suddiviso in quattro ponti diversi. Il principale è dotato di sei cabine per gli ospiti, oltre a una suite per i proprietari. Il modello offre anche un garage, in cui stivare un mezzo anfibio, e un eliporto.

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Vacheron Constantin è un produttore svizzero di orologi e orologi fondato nel 1755.
Il nuovo Vacheron Constantin 222 è diventato il modello più amato dalle celebrità.

Il debutto di questo gioiello assoluto risale al 1977, come parte dell'ondata di orologi sportivi di lusso che comprendeva il Patek Philippe Nautilus e l'Audemars Piguet Royal Oak. Al momento della sua uscita, il mondo non era ancora pronto per il 222: ne sono stati prodotti solo 1.700 esemplari da uomo prima di uscire di produzione nel 1985.


Ora, a 45 anni dal suo lancio (nel 1977), il Vacheron Constantin 222, opera del designer Jorg Hysek, torna sul mercato in un momento in cui gli orologi con bracciale integrato stanno vivendo un grande successo. E il 222 ha avuto un ruolo fondamentale per la definizione di questo filone, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. La referenza che lo ha reso celebre è senz’altro quella soprannominata “Jumbo”, in oro giallo, da 37 mm.

È proprio il Jumbo a essere riproposto oggi nella collezione Historiques in una veste praticamente identica dal punto di vista estetico, ma con un calibro tutto nuovo e la giusta dose di aggiornamenti tecnici.

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Da quando è stato riproposto, in occasione della fiera Watches & Wonders dello scorso anno dove quasi tutti i principali produttori di orologi presentano le loro nuove creazioni, il 222 è stato uno dei preferiti da celebrità del calibro di Michael B. Jordan e Jeremy Allen White. Ora anche Brad Pitt si è unito alla festa.
La scelta dell’oro per la prima riedizione del 222 era quasi doverosa, ma le numerose referenze realizzate in passato, in misure e materiali diversi, potrebbero essere lo spunto per nuove versioni che un mercato sempre più orientato verso lo stile anni ’70 non potrà che apprezzare. Il nuovo calibro 2455/2 pulsa a 28.800 alternanze/ora (invece delle 19.800 della prima versione) e garantisce 40 ore di riserva di carica.

Prezzo: 79.500 euro.

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Matteo Gentile, 37 anni, romano, apprezzato car designer con trascorsi in Bugatti, Lamborghini e Touring Superleggera, a inizio 2022 ha fondato con alcuni ex colleghi Raven Cars, una startup di vetture dal design accattivante vendute come NFT che in pochi mesi ha acquisito la consistenza di un brand automotive a tutti gli effetti (tolta l’industrializzazione, s’intende).

Merito della viralità sui social dell’account @ravencarsworld e di due fondamentali intuizioni: la prima è quella di avere incluso le matematiche 3D, ovvero il progetto fatto e finito, nella vendita dell’NFT, in modo da permettere a creator, produttori di videogame, software di simulazioni, film o content virtuali, di dare vita ai modelli acquistati senza bisogno di pagare un fee di utilizzo del marchio, essendone i legittimi proprietari. La seconda è quella di avere puntato sulla qualità assoluta: le Raven vengono infatti progettate con gli stessi crismi del car design tradizionale. Per intenderci: se finissero in mano a un prototipatore, sarebbero pronte per scendere in strada.

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Il primo modello lanciato da Raven Cars è una elegantissima GT, una Gran Turismo che per volontà del suo creatore raccoglie molti stilemi sinuosi del design italiano degli anni ’60 ma con un suo distintivo design DNA, a cominciare dalla calandra, che è un rimando al logo sul petto di Superman
. Chi ne acquista una, ha in dotazione anche un pacchetto di informazioni tecniche come la cilindrata, il motore, l’accelerazione, proprio come se le mancasse solo una chiave e l’immatricolazione. «La nostra qualità è il nostro miglior asset», spiega Matteo Gentile. «Abbiamo disegnato la GT come se dovesse entrare in produzione domani, e sai mai che un giorno non succeda. Il suo design è unico, vogliamo essere riconosciuti per il nostro linguaggio estetico. La tecnologia degli NFT serve a premiare l’unicità e la rarità, per questo le prossime saranno tirature limitate. In futuro offriremo ai nostri clienti anche la possibilità di configurare la propria Raven: colori, livree etc.».

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2001 Odissea nello spazio

Il film, capolavoro di fantascienza di Stanley Kubrick, potrebbe non sembrare un luogo dove cercare ispirazione per l’interior design, in realtà presenta interni dallo stile accattivante che sicuramente entusiasmano allo stesso modo sia i fan modernisti che classici.
Le Djinn chair progettate da Oliver Morgue nel 1965, i candidi interni della lobby dell’Hilton Space Station, fino ai tavolini Tulip disegnati da Eero Saarinen, hanno contribuito a enfatizzare l’atmosfera futuristica dell’era spaziale.
Tutta la pellicola è un omaggio alla passione del regista Stanley Kubrick per l’arredamento e il design che il film stesso ha contribuito ad innalzare.
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Ma se il design in Kubrick resta scenografia, pur con oggetti simbolo come la poltrona Djinn di Olivier Mourgue, in “Spazio 1999” lo stile catalizza tutto il resto. La serie televisiva britannica di fantascienza era stata ideata nel 1973 da Gerry e Sylvia Anderson e originariamente trasmessa dal 1975 al 1977.
«Volevamo creare un futuro che immaginavamo come possibile. Nessuno poteva indovinare cosa sarebbe stato, ma molti dettagli divennero poi patrimonio iconografico. Non era mai accaduto prima. In qualche modo abbiamo tracciato lo stile di quegli anni. Quando oggi la gente pensa a quel periodo, lo identifica con la serie». Un periodo che non invecchia. Neppure per Catherine Bujold, che con quei mobili condivide il quotidiano e per la quale «questo design resterà sempre fuori dal tempo ed evocherà sempre un futuro che ancora aspetto».

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  • Colori pastello, inquadrature frontali, simmetria rigorosa e iper-stilizzata: il regista Wes Anderson ha un'estetica ben definita.

  • Il famoso regista e scrittore di film quali Grand Budapest Hotel, The Royal Tenenbaums o ancora The Darjeeling Limited, ha la capacità di combinare i colori in modo soprendente, dando vita a composizioni cromatiche uniche. Ogni set è caratterizzato da un’esplosione di colori, textures e patterns che giocano un ruolo fondamentale e influiscono in modo significativo sull’atmosfera dei suoi film. Gli interni sono sempre perfetti e ogni dettaglio viene curato meticolosamente.

La casa dei Tenenbaum potrebbe anche essere un personaggio aggiuntivo nella storia che rafforza la natura eccentrica di ogni membro della famiglia. Tutti i film di Wes Anderson sono una vera gioia per gli occhi ma è quasi impossibile superare la perfezione di questo film. Ogni stanza della villa di Harlem della famiglia Tenenbaum è decorata con le tipiche tonalità sature di Anderson e accentate con dettagli inaspettati come la carta da parati zebrata. Spazi che trasportano gli spettatori in altri mondi e danno una visione profonda del carattere dei suoi personaggi. Caldi interni color rosa fiancheggiati da libri, opere d’arte e cenni di lusso anacronistico di epoche sconosciute.

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Dolor y gloria è un film spagnolo del 2019 scritto e diretto da Pedro Almodóvar.

Presentato in concorso al Festival di Cannes 2019, ottenne il premio per la migliore interpretazione maschile assegnato al protagonista Antonio Banderas.
Dolor y gloria, è un dipinto struggente della madre – interpretata dalla sua musa Penelope Cruz – in una sorta di autobiografia in cui l’amico Antonio Banderas gli presta il volto.
Non stupisce, allora, che l’appartamento del suo alter ego Salvador Mallo riproduca la sua casa di Madrid nei minimi dettagli, soprattutto Anni Settanta.
Lo ha confermato i
l designer del film Antxon Gomez, con cui collabora ormai da anni.
Dagli scaffali di Charlotte Perriand ad una scultura di Miquel Navarro fino a pezzi d’arredo di Fornasetti e Piet Hein Eek. Sono stati persino replicati alcuni oggetti specifici, dal tavolo La Basilica di Mario Bellini usato come scrivania dal regista.

L’architetta ispanica Patricia Urquiola ha decorato porte, sedie e ogni altro pezzo d’arredo e persino i quadri sono stati duplicati.
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Lo stile di Wes Anderson è diventato molto popolare anche nell’interior design e viene spesso definito come “vintage chic”. Molti interior designer cercano di imitare o ispirarsi a questo stile per creare

Un altro elemento distintivo dello stile di Wes Anderson è l’uso di tappeti, tappezzerie e tessuti dai motivi geometrici e dalle stampe floreali. Anche gli accessori, come lampade, specchi e quadri, sono scelti con cura e aggiungono un tocco di originalità agli ambienti.

Cosa succederebbe se l’estetica, le ambientazioni dei Simpson fossero curate dal celebre regista Wes Anderson?

L’azienda americana HomeAdvisor ha rimodellato e arredato il famoso appartamento di 742 Evergreen Terrace a Springfield, e non solo, in pieno stile Wes Anderson.
Il progetto fa parte di una campagna commissionata da HomeAdvisor, con l’obiettivo di ispirare i proprietari degli immobili introducendo nuovi modi di pensare gli spazi della loro casa.

La camera di Lisa è rosa come non lo è mai stata, rivestita con una carta da parati damascata che ricorda gli interni di un’altra famiglia quella del film i Tenenbaum.


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La cucina è stata dipinta di “Fondant Fancy Pink”, la palette che ha conquistato tutti in “Grand Budapest Hotel”.

Il salone è rimasto pressoché invariato, sul muro, il quadro con la barca è stato sostituito con una riproduzione del pittore britannico Montague Dawson. Inoltre sono stati aggiunti quadri e quadretti, oltre a una lampada e un porta riviste che sembrano appena usciti da un negozietto vintage in pieno stile Anderson.


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Gli interni dei Simpson in stile Wes Anderson | Collater.al
 

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P40 - Tecno

Progettata da Osvaldo Borsani per Tecno nel 1955, la P40 è una vera e propria icona del design italiano.

Dopo il successo del divano D70 alla X Triennale del 1954, Borsani lavora sull’idea del giunto meccanico per realizzare una poltrona con diversi movimenti in grado di corrispondere a diverse posizioni, sia dello schienale che della seduta, soprattutto a vantaggio del relax.
Un criterio simile era stato adottato per il divano D70, capace di inclinare a piacere seduta e schienale, fino a invertire la direzione di seduta o a creare un letto.

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Quanto alla P40, essa rappresenta l’evoluzione in chiave tecnologica della chaise longue, la poltrona da relax simbolo del Movimento Moderno.
Borsani reinventa, 27 anni dopo l’apparizione, la “macchina per riposare” di Le Corbusier, togliendole ogni rigidità, regalandole dimensioni più ridotte e un comodo sistema d’inclinazione a ventaglio teso a sfruttare l’intera gamma delle potenzialità ergonomiche, fino ad assumere infinite posizioni diverse.

Oggi la P40, nella sua prima edizione prodotta fino agli anni ’60, è esposta al MOMA di New York e San Francisco, al Centre Pompidou di Parigi, al Victoria and Albert Museum di Londra e, naturalmente, alla Triennale di Milano.

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Il designer di occhiali londinese Tom Davies racconta Crudelia,

sono suoi gli occhiali su misura indossati da Emma Stone.
Il personaggio protagonista, interpretato da Emma Stone , cerca di farsi un nome nel mondo spietato dell'alta moda, lavorando presso l'atelier della intimidatoria Baronness von Hellman, interpretata da Emma Thompson. Accompagnando i costumi di livello couture di Jenny Beavan, Estella (che diventa la famigerata Crudelia de Mon) e la baronessa si affrontano indossando occhiali su misura creati da Tom Davies .

"Gli occhiali ti definiscono. Lo dico ai miei clienti tanto quanto ai registi dei costumi.
Ci sono così tante sottigliezze di cui il tuo cliente medio non è a conoscenza,
ma aiutano a comunicare emozioni e personalità in un modo in cui nessun capo
di abbigliamento può o fa mai".

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Il designer di occhiali con sede a Londra, ha realizzato a mano le montature personalizzate, assicurandosi che gli occhiali indossati dalle protagoniste fossero perfettamente adatti alle loro caratteristiche, sia fisicamente che in termini di personaggi inclini al dramma.
Gli occhiali completano perfettamente i costumi, che incanalano la rivoluzione punk degli anni '70 che ha definito il periodo del film.

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LA VASCA DA BAGNO

Anticamente, gli elementi con i quali venivano realizzate le vasche da bagno erano chiaramente di origine facilmente reperibile: pietra, ghisa, zinco. Solo nel tardo medioevo cominciano a fare la loro comparsa le vasche da bagno in legno.

A quanto sembra dai rilevamenti ufficialmente riconosciuti, la primissima vasca da bagno risale al 1700 a.C., rinvenuta tra i resti di quello che fu il famoso Palazzo di Cnosso, una delle strutture architettoniche più importanti del tempo, ed era dotata di un impianto idrico incredibilmente avanzato in relazione all’epoca di collocazione.

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Per quanto appaia così esigua la distanza, in realtà la diffusione delle vasche da bagno in Grecia avvenne solo molto più tardi. Se ne possono trovare cenni anche in alcuni poemi antichi circa il loro doppio utilizzo (doccia e immersione).
Quando nel terzo secolo a.C. si intensificarono i contatti fra Greci e Romani, la vasca da bagno venne rapidamente introdotta nella capitale dell’allora impero più grande d’Europa ed è a Roma che assunse maggiormente i tratti distintivi che riconosciamo anche oggi: diffusione vasta nella popolazione (abbiente, per lo più) e utilizzo di balsami e profumi.


I comportamenti sociali ebbero brusche variazioni, i barbari distrussero gli antichi bagni romani e a sopravvivere furono solo quelli collocati nelle aree orientali del mondo, sulle quali Roma ebbe un forte controllo, che si tramutarono nei ben noti Hammam.

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Da un punto di vista individuale, ossia ad uso domestico, l’abitudine di utilizzare una vasca da bagno per la propria igiene era appannaggio esclusivo di monasteri e castelli, in virtù della natura allora “esclusiva” del supporto. E da questo punto di vista i costumi rimasero invariati per diversi secoli.
La sua diffusione dunque andò di pari passo allo sviluppo economico, diverso da paese in paese.

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Nel 1828, peraltro, si può identificare una tappa molto importante per la diffusione delle vasche nella cultura di massa: a Viareggio venne costruito il primo stabilimento balneare.
Al contempo, i medici dell’epoca erano soliti suggerire spesso l’idroterapia, in virtù degli studi di quell’epoca sui benefici di questa particolare pratica.

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La vera svolta avvenne con l’introduzione dell’acqua corrente all’interno delle case, di qualunque ceto sociale fossero. Questo fattore diede via libera alla diffusione delle vasche da bagno in concomitanza con la progressiva sparizione dei bagni pubblici (eccezion fatta per alcuni paesi orientali come il Giappone, nei quali l’elemento ritualistico e conviviale era ancora molto forte nel contesto quotidiano, al pari delle antiche abitudini romane).

Storia della vasca da bagno: inizi, usi, costumi e varianti sino ai giorni nostri - Acquablu Arredamento Bagno

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Dalla fine dell'ottocento, da quando, cioè, è uscito da uno stato di isolamento feudale, il Giappone sembra diviso tra conservazione delle tradizioni, emulazione dell'occidente e desiderio di superare in tecnologia l'occidente stesso.

Già nel 1933 il saggista Tanizaki Jun'ichiro (1886-1965) esalta la superiorità dei gabinetti giapponesi, concepiti per il riposo dello spirito. Essi, infatti, sono posti in un ambiente appartato, spesso immersi nel giardino, sui cui danno le finestre. In questo modo il bagno diventa quasi un luogo di meditazione, dove l'uomo, intanto che si dedica alla sua igiene personale, può contemplare la natura. Certo, persino Tanizaki ammette che questi bagni tradizionali, lontani dall'edificio principale e non riscaldati, non sono proprio il massimo della praticità.


All'inizio degli anni '80 alcuni studi dimostrarono che i giapponesi in bagno sprecavano moltissima acqua. Forse perchè tradizionalmente abituati ad avere i gabinetti in luoghi appartati, temevano che i rumori dell'interno si potessero sentire anche all'esterno e così tiravano l'acqua per tutta la loro permanenza nella toilette. Venne così l'idea di produrre water con un pulsante per la musica o in grado di simulare il rumore dello sciacquone costantemente tirato.
Nascevano così i washlet, i water giapponesi super tecnologici.


A questi primi optional se ne aggiunsero subito altri come la tazza riscaldata, i getti d'acqua per la pulizia o il diffusore di profumo.

Oggi i washlet più avanzati hanno il coperchio che si apre e chiude automaticamente ed è possibile personalizzare la colonna sonora dei propri soggiorni in bagno.


Pare che ultimamente queste meraviglie della tecnologia applicata all'igiene stiano tentando di imporsi anche fuori dal Giappone.


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Ancora oggi, visitando il palazzo di Versailles, possiamo notare la rarità di salle de bains, letteralmente le sale da bagno attrezzate con l’occorrente per lavarsi interamente.
Eppure, Luigi XIV era considerato molto attento alla pulizia personale dai suoi contemporanei. In una stanza veniva sistemata una vasca in cui il re si immergeva con il corpo avvolto in una sottoveste.

A Versailles esisteva invece un appartamento da bagno, voluto da Luigi XIV per stupire la sua favorita, Madame de Montespan, e si trovava nell’Orangerie di Versailles.

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La vasca presente nell’appartamento era molto spaziosa, ma, in questo luogo immerso nel lusso più sfrenato, è facile immaginare che il re e la sua amante si dedicassero ad altre attività che erano più frenetiche del lavarsi.

Il resto della corte si asteneva dal fare bagni se non in sporadici episodi, in cui il sovrano ordinava di recarsi ai corsi d’acqua per rinfrescarsi. Era credenza era che l’acqua fosse la causa principale della peste e delle altre epidemie, per il suo scorrere incessante e la sua diffusione. Si pensava inoltre che l’acqua provocasse la perdita di linfa vitale e causasse l’aborto a causa della dilatazione dei pori, conseguenza naturale dell’acqua calda.
In pratica ci si puliva senza dover ricorrere all’acqua. Ciò consisteva nell’uso di un panno,A causa di questa convinzione, l’acqua per l’igiene personale venne bandita e lo stesso atto di lavarsi veniva considerato osceno e inappropriato. I nobili adottarono dunque la tecnica denominata “toilette sèche”, ovvero lavarsi a secco, con un panno rigorosamente bianco, impregnato di una qualche sostanza che facilitava la traspirazione della pelle.
Ma così era difficile nascondere gli odori del corpo. A corte, proprio per questa esigenza il Parfumeur, cioè il profumiere, girava a corte con tante boccette di profumo a disposizione dei nobili. Il profumo divenne il rimedio preferito per ogni problema, comprese le malattie.

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A Versailles sono pressoché inesistenti le salles de bains, a cui comunque in casi eccezionali si provava a rimediare, e le toilettes, presenti in forma privata solo negli appartamenti reali, dove si chiamavano “cabinet de la chaise – gabinetto della sedia“.
Mentre, la corte era solita usare i vasi da notte.
L’espressione “aller à le guardrobe”, andare al guardaroba, era sinonimo dell’odierno andare in bagno.


Quando il castello fu costruito il re fece costruire dei vespasiani per gli uomini, chiamati mures à pisser.
Quando i vespasiani erano troppo lontani o troppo affollati, ci si arrangiava come si poteva: dietro le porte, sotto le scale, sulle tappezzerie, in mezzo al giardino e qualcuno addirittura dalla balaustra della cappella. Tutto ciò riguardava gli uomini. Per le donne era molto più complicato. A differenza degli uomini, le donne non portavano camicia e culotte, ma pesanti sottane che davano volume a un abito già abbastanza ingombrante. Ricorrevano dunque ai pottes de chambre, più comunemente chiamati bourdaloue, ovvero dei piccoli vasi, reperibili ovunque nel castello, che sistemavano al di sotto del vestito e vi ci si sedevano sopra.


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