ROMA - «Mi prendo Natale per riflettere». Mario Monti è tormentato dal dubbio. E avanza l’ipotesi che possa inserire la retromarcia.Le cause del possibile ripensamento sono il pressing del Pd, la contrarietà del Quirinale e le minacce di Silvio Berlusconi. «Il no è al 70 per cento», dice un suo stretto collaboratore. Sta di fatto che nel breve consiglio dei ministri celebrato per annunciare le dimissioni, il professore non ha fatto alcun accenno alla candidatura. «Ma dalle espressioni, dall’atteggiamento, dalle mezze parole che ha detto», riferisce un ministro, «è evidente che Mario è orientato a non impegnarsi direttamente».
Eppure, a palazzo Chigi, la linea ufficiale resta quella di sempre: «Il premier non ha ancora deciso. Come non era vero nei giorni scorsi che era lanciato verso la candidatura, ora non è vero che abbia deciso di rinunciare». E c’è chi scommette che queste voci sul passo indietro siano la reazione «al pressing asfissiante» subìto dal premier. Oppure che nasconda una strategia comunicativa: creare suspance, recuperare il potenziale esplosivo (bruciato dalla fuga di notizie) del suo annuncio a guidare il centro moderato.
IL SILENZIO
Si vedrà. Di sicuro c’è che Monti non ne ha parlato durante la riunione del governo. E che molti ministri, uscendo, abbiano scosso la testa borbottando sconsolati: «Non si candida, non si candida...». Il premier non ha parlato della candidatura neppure con il capo dello Stato, nei dieci minuti («cordiali e simpatici») trascorsi al Quirinale per rassegnare le dimissioni che aprono la crisi di governo e la road map verso le elezioni di febbraio. «Missione compiuta», si è limitato a dire Monti al presidente sorridendogli. «Ha fatto un ottimo lavoro», è stata la risposta di Giorgio Napolitano, che preme non poco per incassare il passo indietro.
Ma torniamo al time-out che si è dato Monti. A quel... «mi prendo Natale per riflettere». Significa che il premier non farà alcun annuncio alla conferenza stampa di fine anno fissata per domenica. E non dovrebbe farlo neppure il giorno della Vigilia. Chi, tra i suoi collaboratori (e non sono pochi), ancora coltiva la speranza che alla fine confermi la decisione di candidarsi, è convinto che il premier seguirà un percorso in tre tappe. La prima: il lancio del programma-manifesto.
La seconda: attendere le adesioni dei partiti che si riconoscono nella sua agenda, valutandone la consistenza e le forza elettorale.
La terza: annunciare il rifiuto o il sì all’incoronazione a candidato premier del Centro. In ogni caso, per salvare i centristi che si sono mobilitati, Monti potrebbe concedere a Casini, Fini e a Montezemolo almeno l’uso del suo nome permettendogli di inserire la dicitura «per Monti» nel simbolo.
L’AVENTINO
Chi invece scommette sul rifiuto, traccia uno scenario aventiniano. Con il professore che si limita a illustrare la sua agenda e che poi resterà in attesa del risultato elettorale. Sperando in un pareggio al Senato e dunque di tornare in gioco per palazzo Chigi, questa volta alla guida di un governo politico. Oppure ricevere «il premio» per la sua neutralità sollecitata in maniera ruvida dal Pd (ieri c’è stata una telefonata con Bersani) e dal Pdl: l’elezione a capo dello Stato. Un incarico che permetterebbe a Monti di avere quel ruolo di garanzia e di indirizzo utile a tranquillizzare le cancellerie europee e a scongiurare ogni violazione dei patti stretti con Bruxelles.
I DUBBI
Restano da spiegare le ragioni della gelata sulle ambizioni elettorali. La prima è legata, come dice uno dei suoi consiglieri, «alla sua natura, alla difficoltà di compiere il salto psicologico di passare da tecnico e neutrale, a uomo di parte». Contro i consigli di Napolitano e contro Bersani, cui è legato da una corrente di simpatia. Tant’è che anche nei giorni dell’euforia, il premier non ha mai escluso una collaborazione post-voto per creare un «grande fronte europeo e riformista in Parlamento». La seconda ragione è più squisitamente politica: in base ai sondaggi, il fronte moderato anche sotto la bandiera di Monti non avrebbe la possibilità di diventare il primo partito. Anzi, sembra probabile che il Pdl, rivitalizzato dalla campagna mediatica di Berlusconi, lo sorpassasse. «E il professore non è entusiasta di fare la fine del vaso di coccio tra Pd e Pdl», dice uno dei suoi. «Ma ci penserà, il suo no non va dato per scontato. Aspettate Natale...».