Montiani contro antimontiani, ma il programma qual è?

ceck78

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Ad oltre un anno dall’insediamento di Monti a Palazzo Chigi, lo spettro politico sembra polarizzarsi tra un montismo che prescinde dai contenuti e un antimontismo di convenienza (elettoralistica).

Si riconosce al premier un prestigio internazionale a cui non eravamo più abituati, ma se si guarda all’operato del suo governo emergono luci ed ombre.
Il debito pubblico ha continuato a crescere ad un ritmo di 276 milioni di euro al giorno: da 1.916 a 2.015 miliardi di euro. La pressione fiscale nel 2012 è cresciuta di 2,3 punti percentuali, dal 46,6% al 48,9%. La spesa pubblica ha seguito grossomodo il trend negativo del prodotto interno lordo, ma in questo modo risulta costante il rapporto tra i due aggregati.

Sul fronte privatizzazioni si è fatto poco. L’ennesimo lavoro di manutenzione ad una disciplina per la cessione del patrimonio immobiliare e qualche cessione di partecipazioni dal Ministero dell’economia e delle finanze alla Cassa Depositi e Prestiti. Un’operazione che garantisce un effetto statistico e poco più, dato che la Cassa Depositi e Prestiti è di fatto una società pubblica e garantisce il controllo, seppure indiretto, delle società da parte del Ministero dell’economia e delle finanze. La vendita di Sace, Fintecna e Simest ha fruttato 10 miliardi, sui circa 2.000 miliardi di euro di debito pubblico accumulato ad oggi.

Queste però, al limite, possono essere ragioni per non essere montiani; non certo per dirsi antimontiani.
L’argomento secondo cui l’urgenza ha costretto Monti ad usare la leva fiscale, più facile da manovrare (anche se più dolorose per i contribuenti) nel breve periodo, può rappresentare un’attenuante, ma, specie con l’andar dei mesi, il capo di accusa svela tutta la sua gravità.
Piuttosto, una ragione per astenersi da un giudizio su Monti va ricercata nel fatto che la sua azione doveva essere concertata con gli altri membri del governo e, soprattutto, con le forze politiche che formano la maggioranza parlamentare.

Poniamo a confronto il testo del decreto legge liberalizzazioni, dove si prevedeva espressamente l’unbundling nel settore ferroviario, e il testo approvato dal Parlamento, dove è sopravvissuto un mero impegno ad esaminare l’opportunità di provvedere ad una separazione societaria tra Trenitalia e RFI. Lo stesso dicasi per la liberazzazione dei taxi, per la riforma del lavoro e via dicendo, fino all’ultimo tocco di classe: il taglio delle province, annunciato con la spending review, ha proseguito il suo cammino a tappe forzate fino all’approvazione del decreto legge che ne riduceva il numero da 107 a 43. Il Parlamento ha ben pensato di dover prendere atto dell’impossibilità di trovare un accordo e ha abbandonato l’iter di conversione del decreto su un binario morto. Ecco quindi il Governo ricorrere all’ennesima proroga, inserita nella legge di stabilità con un emendamento approvato in questi giorni, che rinvia di un anno la razionalizzazione delle province.

In altre parole, alcune “timide ma buone” intenzioni del Governo hanno incontrato i veti incrociati delle forze politiche rappresentate in Parlamento.

Monti, quindi, per il momento resta S.V.: senza valutazione. Chi si presenterà, nel caso, agli elettori? Il Monti europeo o il Monti premier di questi mesi? La risposta potrà essere data solo accettando un confronto sui contenuti e sull’agenda politica per il paese.

Altro punto in sospeso è quello relativo alle alleanze. Per risanare i conti pubblici e tornare a crescere servono politiche di privatizzazione, di riduzione della spesa pubblica e della pressione fiscale. Un programma di governo di questo tipo deve poggiare le proprie basi sulla credibilità delle forze politiche che lo portano avanti. Con chi si presenterà agli elettori? Con le “cattive compagnie” che hanno ostacolato le riforme strutturali in questi mesi? Con le forze politiche espressione della seconda repubblica, cui è riconducibile oltre la metà del debito pubblico maturato sino ad oggi?

Da questo punto di vista, i partiti responsabili della crescita del debito pubblico, della mancata attuazione delle liberalizzazioni proposte, dell’aumento della spesa pubblica e della pressione fiscale non sembrano poter esibire una patente di affidabilità.
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