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distribuzione informatica

Opengate, una parabola durata quattro anni

ADRIANO BONAFEDE

Giovedì prossimo, 12 giugno 2003, potrebbe di fatto terminare il cammino di Opengate, ovvero di quella che fu la prima matricola al Nuovo mercato, leader nella distribuzione di prodotti informatici (hardware e software) all’ingrosso. Se infatti all’assemblea prevista per quel giorno in terza convocazione non si presenteranno azionisti per almeno il 20 per cento del capitale, e non saranno pronti a rimettere mano al portafoglio, si creereanno le condizioni per lo scioglimento della società e la sua messa in liquidazione.
Contro questo possibile esito stanno lottando con tutte le forze l’attuale amministratore delegato, Stefano Perboni, e il presidente, Pietro Pozzobon, che ha una quota del 10 per cento del capitale. Questa è la quota più rilevante, mentre il resto del capitale è fortemente frammentato. Opengate è di fatto una vera public company, frutto non di una libera scelta ma di una serie di eventi: la società era già nata con una struttura frammentata, poiché era il risultato di una fusione tra cinque diverse società, ognuna nata dall’iniziativa di un imprenditore diverso, rimasto poi con la sua quota nel nuovo raggruppamento. Poi, nel giugno del 1999, c’era stata un’ulteriore diluizione del capitale con la quotazione. Finito il patto di sindacato fra i maggiori azionisti nel dicembre 2001, dopo che la crisi della new economy aveva già cominciato a mordere, c’è stato un fuggi fuggi generale. Basta pensare che in tempi recenti sono scesi sotto alla quota del 2 per cento anche Umberto Ronzoni e Vittorio Lasagni (ex presidente) dal precedente 7, mentre Bruno Botini è sceso al 4,8.
Proprio sull’eccessiva frammentazione dell’azionariato e sulla conseguente difficoltà di governo del gruppo mette l’accento Perboni, che spera in extremis di salvare la società e che punta il dito anche sulle banche: «Con l’ultima trimestrale avevamo dimostrato di poter pilotare la società lontano dalle difficoltà con un piano di ristrutturazione che stava cominciando a dare i suoi frutti, ma gli istituti di credito a un certo punto, verso gennaiofebbraio, hanno cominciato a togliere il loro sostegno finanziario».
Ha pesato in questa scelta delle banche il fallimento dell’ultima trattativa per trovare un "cavaliere bianco" che risolvesse d’un colpo i problemi di governance e infondesse quella fiducia ritenuta necessaria per portare avanti il piano di risanamento. La trattativa era quella con Laserline, un gruppo presente nella distribuzione di prodotti informatici, redditizio ma molto più piccolo di Opengate (la quale nel bilancio chiuso al 31 agosto 2002 era arrivata a fatturare 1.050 milioni di euro, mentre nel semestre chiuso il 28 febbraio scorso il giro d’affari era sceso a 501 milioni di euro). I due principali soci di Laserline si sarebbero ritrovati dopo l’incorporazione della loro società in Opengate con il 65 per cento della nuova entità. Ma le trattative si legge nell’ultima semestrale di Opengate si sono arenate per l’impossibilità di raggiungere un accordo sull’eventuale risoluzione del contratto in seguito alla due diligence.
Potrebbe dunque calare il sipario su una società che rispetto ad altre matricole del Nuovo mercato con un business più fumoso e aleatorio aveva un campo d’azione delimitato, quello della distribuzione all’ingrosso di prodotti informatici. La crisi di mercato da sola non basta a spiegare il crollo di un gruppo che nei quattro anni trascorsi è stato aiutato dalle banche a crescere per linee esterne arrivando anche ad acquistare tre società in Spagna e a espandersi nei settori delle elettroforniture, della logistica e financo dei trasporti, con ben quindici società controllate.
Dopo essere state molto accondiscendenti, le banche hanno deciso deluse anche dal progressivo disimpegno di molti soci fondatori di mettere un punto fermo e di lasciare la società al suo destino.
Ma la delusione maggior tocca, come al solito, ai tanti piccoli azionisti che hanno creduto in una società che sembrava ben posizionata nel settore della grande distribuzione all’ingrosso di prodotti informatici, un business in fondo abbastanza tradizionale. Le azioni, spinte dall’euforia dei mercati fino a quasi 150 euro all’inizio del 2000, sono scese fino ai minimi di 2,81 di venerdì corso. Chi, come molti azionisti della prima ora, le hanno rivendute al momento giusto, hanno fatto lauti guadagni. Chi invece ha creduto nel business, si ritrova con un pugno di mosche in mano.
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Da Affari&finanza lunedì u.s.
 
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