operai

watson

Nuovo Utente
Registrato
2/4/00
Messaggi
4.369
Punti reazioni
16
L’Ottocento si caratterizza per la cosiddetta “rivoluzione industriale”, che afferma il modo di produzione capitalistico. Questa si fonda su tre elementi: l’introduzione su vasta scala delle macchine, da cui deriva la necessità di concentrare la lavorazione in grandi unità produttive, le fabbriche; l’impiego nelle fabbriche di vaste masse di lavoratori salariati, cioè di operai dipendenti dal proprietario dei mezzi di produzione, che mettono a disposizione la loro capacità produttiva in cambio di un salario; la razionalizzazione della produzione ottenuta tramite la divisione del lavoro, vale a dire la suddivisione della produzione in singole fasi, in funzione delle macchine. In questo modo divenivano inutili le competenze professionali e l’abilità creativa dell’artigiano, poiché l’operaio salariato era chiamato a svolgere un compito di assistenza alla macchina. La divisione del lavoro comportò una notevole intensificazione della fatica operaia, ma consentì anche uno straordinario incremento della produttività.
 
Scritto da watson
L’Ottocento si caratterizza per la cosiddetta “rivoluzione industriale”, che afferma il modo di produzione capitalistico. Questa si fonda su tre elementi: l’introduzione su vasta scala delle macchine, da cui deriva la necessità di concentrare la lavorazione in grandi unità produttive, le fabbriche; l’impiego nelle fabbriche di vaste masse di lavoratori salariati, cioè di operai dipendenti dal proprietario dei mezzi di produzione, che mettono a disposizione la loro capacità produttiva in cambio di un salario; la razionalizzazione della produzione ottenuta tramite la divisione del lavoro, vale a dire la suddivisione della produzione in singole fasi, in funzione delle macchine. In questo modo divenivano inutili le competenze professionali e l’abilità creativa dell’artigiano, poiché l’operaio salariato era chiamato a svolgere un compito di assistenza alla macchina. La divisione del lavoro comportò una notevole intensificazione della fatica operaia, ma consentì anche uno straordinario incremento della produttività.
Vogliamo anche il 900 e il 700!:o
 
Proprio intorno alla questione della produttività, cioè al rapporto tra la quantità di prodotto ottenuta e i mezzi impiegati per realizzarla (ore di lavoro, energia consumata, ecc.), si manifestarono i primi contrasti tra la classe dei proprietari dei mezzi di produzione, i capitalisti, e gli operai salariati, o proletariato. I primi infatti erano interessati ad ottenere dall’operaio un lavoro sempre più intenso per un salario minimo, mentre interesse dell’operaio sarebbe stato invece l’opposto. Si manifestava così la questione sociale, che costituì la conseguenza più dolorosa della rivoluzione industriale e della diffusione del capitalismo. A questo proposito bisogna però rilevare che per tutto il XIX secolo la stragrande maggioranza della popolazione europea era ancora composta di contadini poveri; alla metà del secolo infatti solo in Inghilterra gli operai di fabbrica raggiungevano la considerevole cifra di circa tre milioni e raggiungevano il milione in Francia e in Germania, mentre erano solo poche migliaia negli altri paesi toccati dalla rivoluzione industriale. Gli operai industriali erano però concentrati nelle città, di cui abitavano i quartieri più miseri, in condizione di povertà e di degrado.
 
Re: Re: Re: operai

Scritto da watson
in che senso?
Solo l'Ottocento non basta.........

....... o fai l'Enciclopedia intera o niente!

:D
 
La condizione operaia era in effetti tristissima. Non solo i salari erano bassi, ma la giornata lavorativa era assai dura (12-14 ore) e sottoposta ad una rigorosa disciplina di fabbrica (multe per errori di lavorazione, perquisizione personale all’uscita dalla fabbrica, spesso l’obbligo del silenzio). Ancor più drammatica era la condizione del lavoro femminile e minorile, ampiamente utilizzato nel settore tessile e pagato con salari ancora inferiori rispetto ai maschi adulti.
 
Image76.jpg


La condizione operaia è infatti caratterizzata dall’estrema precarietà del posto di lavoro: in Inghilterra periodiche crisi di sovrapproduzione1 gettano sul lastrico migliaia di operai, dallo sfruttamento di manodopera (salari irrisori, orari di lavoro fino a dodici, sedici ore, assenza di ogni forma di protezione sociale), ai problemi connessi all’inurbamento e al sovraffollamento di malsani quartieri. Si sarebbe passati nel tempo dalle iniziali proteste di operai (luddismo) alla lotta di classe.

nota:

crisi di sovrapproduzione: l’eccesso degli investimenti provoca una sovrapproduzione di merci che il mercato non è in grado di assorbire. Di qui il fallimento di fabbriche, disoccupazione e miseria.
 
il primo diffondersi del sistema di fabbrica diede luogo innanzitutto ad una violenta forma di reazione operaia che si caratterizzò nel luddismo (dal nome dell'operaio Ned Ludd, consideratone l'iniziatore), un movimento che fra il 1810 ed il 1816 teorizzò e praticò la distruzione delle macchine, reputate responsabili della condizione operaia.
 
L'operaio non possedeva nulla, né capitali, né macchine, né capannoni, né materie prime. Possedeva solo la sua forza-lavoro, che cedeva all'imprenditore in cambio di un salario. Ma la macchina incominciava a sottrargli il lavoro, a defraudarlo del suo mestiere. La cardatrice meccanica ad esempio, introdotta in Inghilterra tra il 1780 ed il 1800, permetteva ad un uomo assistito da un ragazzo di fare un lavoro che prima richiedeva 7 operai specializzati; e la nuova pettinatrice rendeva superflui 5 operai su 6. Le macchine perciò furono subito viste come concorrenti pericolose: di qui l'impulso a distruggerle, come era accaduto nel 1758, quando alcuni operai avevano rovinato i macchinari di uno stabilimento tessile. Per impedire che si ripetessero fatti del genere, il Parlamento inglese varò un'apposita legge nel 1769, che prevedeva la pena di morte per questo genere di reato.

Dopo un periodo di relativa calma sociale, le lunghe guerre contro Napoleone ed i cattivi raccolti del 1811/1812 acuirono la collera degli operai, che si sfogarono soprattutto contro il macchinario dell'industria tessile. Bande di giovani tessitori, infatti, percorrevano di notte le campagne dei Midlands, entrando nei capannoni e nelle case per distruggere i grandi telai. Essi dichiaravano di agire a nome del «generale» Ned Lud, un apprendista calzettaio di Leicester, che trent'anni prima aveva fatto a pezzi un telaio per pizzi, dopo che il suo maestro lo aveva rimproverato di aver eseguito male il lavoro. Durante la sommossa furono distrutti circa 1000 telai ed il Governo dovette ricorrere all'esercito per sedare i tumulti.
 
Anche al mercato di Manchester si registrarono gravi disordini: folle di donne, esasperate dal continuo rialzo del prezzo delle patate, si impadronirono dei carretti ed attuarono «vendite proletarie» a basso prezzo, mentre alcune altre, approfittando della confusione, operavano anche «espropri personali» di altre merci.

Un'altra serie di disordini «luddisti» si ebbero nel 1826, nell'East Lancashire, con ripetuti assalti alle fabbriche. Una delle ultime ondate distruttive avvenne nelle campagne nel 1830, dopo un inverno particolarmente difficile. Questa volta furono prese di mira le trebbiatrici meccaniche, che privavano i lavoratori agricoli dei proventi derivanti dalla trebbiatura a mano.

Nel Northumberland, infine, i minatori in sciopero distrussero gli impianti di ventilazione (1831), ma a partire dai grandi scioperi del 1842 il movimento operaio inglese iniziò una nuova tattica di lotta contro il padronato, incominciando a rendersi conto che occorreva distinguere fra le macchine e l'uso che se ne faceva, indirizzando gli attacchi non più contro i mezzi di produzione ma contro il sistema di sfruttamento dei lavoratori.
 
nel 1816 ci fu l’ultimo "distruttore di macchine" al quale venne spezzata la nuca. Egli cadde nel pozzo della forca cantando un inno luddista fino a quando le sue corde vocali vennero strette in un solo nodo. Un corteo funebre di tremila persone intonò al suo posto la fine dell’inno a cappella. Tre anni prima, su quattordici patiboli allineati barcollavano altrettanti accusati di praticare il "luddismo", denominazione del nuovo crimine appena codificato.

Il luddismo costituì un insolito delitto capitale: dal 1812, maltrattare una macchina in Inghilterra poteva costare la pelle. In realtà pochi ricordano i luddisti, i "ludds", titolo con il quale si riconoscevano fra di loro.

Ned Ludd, fantasma

Tutto cominciò il 12 aprile 1811. Durante la notte, trecentocinquanta uomini, donne e bambini assaltarono una fabbrica di filati del Nottinghamshire distruggendo i grandi telai a colpi di mazza e appiccando il fuoco alle installazioni. Quel che successe, presto sarebbe diventato folklore popolare. La fabbrica apparteneva a William Cartwright, fabbricante di filati di cattiva qualità ma equipaggiato di nuove macchine. La fabbrica era in se stessa un nuovo fungo spuntato in quegli anni nel paesaggio: abitualmente il lavoro veniva eseguito in piccole officine. Altri settanta telai furono distrutti quella stessa notte in altri villaggi dei dintorni. L’incendio e i colpi delle mazze si spostarono quindi verso le contee vicine di Derby, Lancashire e York, cuore dell’Inghilterra del principio del XIX secolo e centro di gravità della rivoluzione industriale. Il rigagnolo sgorgato dal villaggio di Arnold corse incontrollato per il centro dell’Inghilterra per due anni, inseguito da un esercito di diecimila soldati al comando del generale Thomas Maitland. Diecimila soldati? Wellington ne comandava assai meno quando iniziò le sue manovre contro Napoleone dal Portogallo. Più che contro la Francia? Ha senso: la Francia intimidiva con la sua vicinanza; però non era la Francia napoleonica il fantasma che percorreva la corte inglese, bensì quella assemblearia. Solo un quarto di secolo era trascorso dall’anno primo della rivoluzione. Diecimila. Il numero è indicativo di quanto fosse difficile farla finita con i luddisti. Forse perché i membri del movimento si confondevano con la comunità. In due sensi: contavano sull’appoggio della popolazione ed erano la popolazione. Maitland e i suoi soldati cercarono disperatamente Ned Ludd, il loro leader. Ma non lo trovarono. Non avrebbero mai potuto trovarlo, perché Ned Ludd non è mai esistito: era un nome inventato dagli abitanti dei villaggi per depistare Maitland. Altri leader che scrissero lettere di burla, di minaccia o di richiesta si firmavano "Mr. Pistol", "Lady Ludd", "Peter Plush" (Peter felpa), "General Justice", "No King", "King Ludd" e "Joe Firebrand" (Joe l’incendiario). Da qualche missiva si capiva che il timbro postale era stato impresso nella vicina Foresta di Sherwood. Una mitologia in formazione si sovrapponeva ad un’altra più antica. Gli uomini di Maitland si videro obbligati a ricorrere all’uso di spie, agenti provocatori ed infiltrati, che fino a quel momento costituivano una risorsa inessenziale della logistica utilizzata nei casi di guerra esterna. In questo caso si trattava di una riorganizzazione anticipata di quella forza poliziesca che oggigiorno chiamiamo servizi segreti.
 
I luddisti inventarono una logistica d’emergenza. Questa comprendeva un sistema di posta umana e di delegati che percorrevano le quattro contee: giuramenti segreti di lealtà, tecniche di camuffamento, sentinelle, organizzatori di furti d’armi negli accampamenti nemici, segnali sulle pareti. E in più emerse l’antica arte di comporre canzoni di guerra, chiamate inni. In una delle poche che sono state trascritte si può ancora ascoltare: «Lei ha un braccio/ e benché ne abbia uno solo/ c’è magia in questo unico braccio/ che ne crocifigge milioni/Distruggiamo il Re Vapore, il Selvaggio Moloc», e in un’altra: «Notte dopo notte, quando tutto è quieto/ e la luna ha già attraversato la collina/ marciamo a compiere la nostra volontà/ con ascia, picca e fucile!». Le mazze che utilizzavano i luddisti provenivano dalla fabbrica Enoch. Per questo cantavano «La Grande Enoch andrà al fronte/ la trattenga chi osa, la trattenga chi può/ Avanti uomini gagliardi/ Con ascia, picca e fucile!».
 
Le invenzioni degli ultimi decenni del Settecento provocarono in Inghilterra quell’enorme sviluppo della produzione di manufatti che va sotto il nome di rivoluzione industriale. Tra queste invenzioni una nuova macchina per filare, la jenni , che consentiva a un solo operaio di azionare contemporaneamente 18 fusi anziché uno. La maggiore produzione ottenuta grazie ad essa fece diminuire il prezzo del filo, e conseguentemente dei tessuti. Al tempo stesso si diffuse la moda del cotone, che l’Inghilterra poteva facilmente procurarsi in India.

Le nuove macchine filatrici provocarono una profonda modificazione nell’organizzazione del lavoro. Prima la filatura e la tessitura si svolgevano specialmente nelle campagne: erano attività a domicilio svolte quasi sempre dalle donne e dai bambini, e organizzate dal mercante – capitalista che distribuiva la materia prima e ritirava il prodotto finito.

La jenni richiedeva la forza di un uomo per essere mossa e costava cara, ma rendeva bene. Molti contadini credettero di fare un affare vendendo la terra e comprando una jenni, alla quale lavorava tutta la famiglia.



Ma privandosi della proprietà della terra, divennero ben presto proletari, perché le macchine acquistate furono superate da nuovi modelli che essi non erano più in grado di procurarsi. Con i loro famigliari allora andare a lavorare come salariati alle macchine di qualche capitalista (a volte un collega più fortunato divenuto ricco).
 
La produzione tessile si spostò quindi dalla casa alla fabbrica, l’edificio dove il capitalista radunava le sue macchine, e dove ora confluivano lavoratori di più famiglie.



Questa concentrazione del lavoro fu favorita da nuovi sviluppi tecnici: all’inizio dell’Ottocento, alla filatrice meccanica si affiancò la tessitrice meccanica. Nelle fabbriche queste macchine non erano più mosse a mano, ma da motori idraulici, sorta di mulini a vento che ne azionavano contemporaneamente parecchie.


Un enorme passo avanti fu realizzato quando il motore idraulico fu sostituito dal motore a vapore, la macchina ideata da . All’inizio dell’Ottocento buona parte delle industrie tessili erano alimentate da un motore a vapore.
Il lavoro nelle fabbriche era ben diverso da quello nelle botteghe artigiane. Le macchine svolgevano ora molte operazioni che prima erano compito dell’artigiano. All’operaio erano riservati movimenti semplici e ripetitivi, ma non per questo meno faticosi.

Inoltre, i padroni delle fabbriche cercavano di attuare al massimo la divisione del lavoro, perché ne avevano scoperto la grande convenienza economica. Se per esempio per costruire uno spillo un artigiano impiegava una giornata, dovendo compiere una lunga serie di operazioni differenti, dieci operai che eseguissero ciascuno un’operazione soltanto producevano in una giornata 40.000 spilli! La divisione del lavoro e la meccanizzazione produssero una profonda trasformazione della qualità del lavoro.


goz71.gif
 
Col sorgere delle industrie iniziò infatti il lento ma inesorabile tramonto dell’artigianato. L’abilità manuale, che per secoli era stata il più prezioso patrimonio degli artigiani, andava perdendo la sua importanza ed era destinata a scomparire. Alla maggior parte degli operai di fabbrica non era richiesta alcuna particolare abilità, per questo molti lavori potevano essere svolti indifferentemente da uomini, donne o bambini.

In un’epoca in cui la popolazione andava rapidamente aumentando, trovare manodopera non era un problema per gli imprenditori, mentre era un problema per gli operai trovare lavoro. Per questo i primi decenni della rivoluzione industriale furono caratterizzati da un generale abbassamento dei salari, e da una gravissima condizione di miseria della classe lavoratrici.
 
Le condizioni di lavoro degli operai erano molto difficili, a volte drammatiche per diverse ragioni. Innanzitutto l’orario di lavoro poteva prolungarsi per 16-18 ore. Inoltre era sottoposto a rigidi regolamenti che rendevano la vita di fabbrica


Simile a quella del carcere. Nel regolamento di una fabbrica tessile del 1844 leggiamo:<< Ogni operaio che venga colto a parlare con un altro, a cantare o a fischiare, incorre nella multa di 6 pence>>.

Il lavoro degli operai era reso ancora più duro dalle condizioni in cui si svolgeva. Capannoni dai soffitti bassi, dalle finestre strette e quasi sempre chiuse. Nelle filande di cotone la borra aleggiava come una nube e penetrava nei polmoni causando col tempo gravi scompensi. Nelle filande di lino, dove si praticava la filatura ad umido, il vapore acqueo saturava l’atmosfera e inzuppava gli abiti. L’ammassarsi di numerose persone in ambienti chiusi provocava una febbre contagiosa.

Frequenti erano anche gli infortuni come l’asportazione di una falange del dito, a volte del dito intero, della metà della mano o della mano intera, stritolati dagli ingranaggi delle macchine.

Nelle fabbriche inglesi, erano assunti di preferenza donne e bambini che potevano essere pagati con salari inferiori e che possedevano quella manualità necessaria al lavoro nei telai meccanici.

Entravano dai cancelli delle filande alle cinque del mattino e ne uscivano verso le otto di sera, compreso il sabato. Tutto questo tempo stavano rinchiusi con una temperatura variante dai 26 ai 30 gradi.


I pasti venivano consumati nell’unica sosta di mezz’ora per la prima colazione e di un’ora per il pranzo. Ogni mancanza o ritardo veniva punita con feroci battiture.

Le denunce di questo brutale trattamento e le indagini condotte da alcune commissioni statali portarono all’approvazione di leggi che limitavano il lavoro infantile a solo 8 ore per i ragazzi di età inferiore a 13 anni e a dodici ore per i ragazzi al di sotto dei 18 anni. In particolare il Factory Act del 1833 vietò il lavoro notturno e ridusse le ore lavorative per consentire ai ragazzi dagli 8 ai 13 anni di frequentare la scuola.

goz62.gif
 
chl_title.gif


Il moderno lavoratore si trovava solo con se stesso, accanto a compagni con i quali, seppur condivideva la sorte, non esisteva ancora nessun legame organizzativo. Nasceva la classe operaia, ovvero il proletariato, che era del tutto e per tutti una nuova classe sociale.

Priva di protezione ed esposta al rischio permanente della disoccupazione, perché l’abbondante offerta di manodopera consentiva agli imprenditori di licenziare quando volessero, durante la prima fase della rivoluzione industriale questa classe operaia dovette sopportare condizioni durissime. Infatti, il salario di un operaio maschio adulto oscillava intorno ai 3 scellini al giorno e quello delle donne e dei bambini era molto inferiore. La durata abituale del lavoro quotidiano era di 15 o 16 ore e non c’erano altri8 giorni di vacanza oltre la domenica e il 25 dicembre, anche se, quando le richieste erano urgenti, spesso lavoravano anche tutta la domenica o 20 ore consecutive. Non c’era nessuna assistenza in caso di malattia, gravidanza, né alcuna pensione. Eppure operai e operaie, che avevano un lavoro, accettavano tutto piuttosto di rischiare di perderlo, perché lo spettro della disoccupazione li perseguitava.

Una situazione particolarmente penosa era quella nelle miniere, dove non erano rari i pozzi dove bambini di sei anni erano costretti a spingere pesanti carrelli o a manovrare le valvole di aerazione fino a 13 ore consecutive nella completa oscurità, coi piedi nell’acqua per 3 scellini alla settimana.

Lo sfruttamento dei minori era molto diffuso anche negli altri settori e spesso erano gli operai capi squadra, con la complicità dei genitori, ad assumere questi piccoli schiavi.
 
Naturalmente, è nel mondo anglosassone, dove verso il 1830 l'indu_strializzazione ha raggiunto livelli significativi, che sorgono le prime associazioni di lavoratori che si pongono espressamente il problema della riduzione dell'orario di lavoro. Nel 1827, negli Stati Uniti, viene fondata la «Mechanics Union of Trade Association», sorta proprio per agitare il problema dell'orario di lavoro. E negli anni successivi le orga_nizzazioni unionistiche riescono a conquistare l'orario di lavoro di die_ci ore per gli artigiani a New York. Un tentativo di tornare ad allunga_re questa giornata lavorativa, provoca, nel 1829, la formazione di un comitato per opporsi a queste iniziative governative. In Inghilterra il progressivo formarsi ed estendersi di unioni operaie induce le autorità a successivi interventi, per limitare l'orario di lavoro: nel 1831 viene in_trodotto nelle industrie cotoniere un orario massimo di lavoro di dodi_ci ore per i ragazzi sotto i dodici anni. Infine, nel 1833 la Factory Act sancisce definitivamente la proibizione del lavoro dei fanciulli sotto i nove anni, limita quello tra nove e tredici ad una giornata lavorativa massima di nove ore, e quello degli operai tra i 14 e i 18 anni a 69 ore settimanali (o al massimo a dodici ore lavorative al giorno).
 
Indietro