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Scardanelli

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Da un guscio conchigliaceo a una pietra c'è poca distanza. Il nostro amore e la nostra curiosità sono grandi, ma vengono spesi e consumati prima di arrivare alle sorelle pietre, se queste pietre non sono umanizzate in un monumento o da una leggenda; se non sono posate su una sierra in cui mossero guerra i nostri padri. Nulla che non sia vivente e organico può interessarci. Siano riservate ai sapienti, che d'altra parte veneriamo, la mineralogia, la matematica, la teologia, gli acrostici e le conchiglie iridate delle vongole. Noi, meno sottili, siamo vivivori, ci alimentiamo di animaletti terreni e di piante e a un luogo teologico preferiamo qualunque cosa organica, sia pure un cecidio oscuro e brutto, formato su un albero dalla mistica fecondità di un cinipe, uno di quei cecidi che cercavo io, da ragazzo, affannosamente nei roveti dell'Escorial, per preparare una tinta meravigliosa che non sono mai riuscito a fare.
 
Grandi e piccini, vecchi e giovani, sapienti e ingenui, tutti abbiamo dentro una visione dell'universo più o meno frammentaria. La cultura non è altro che il mutuo scambio di questi modi di vedere le cose di ieri, di oggi, del futuro. Una peccaminosa sicumera, fiore della vanità, ci racchiude ciascuno in se stesso e converte ogni uomo in un'isola. È un vecchio peccato spagnolo: non so se vedervi una scuola dell'educazione moresca, perché come i musulmani, diffidenti, tengono ingabbiate le loro donne, così noi nascondiamo gli uni agli altri le nostre stesse idee. Forse la superbia c'impone di essere Cesare o nulla, forse vorremmo che le nostre opinioni fossero quelle definitive, esemplari, uniche, e un po' di sfiducia ci fa preferire di occultarle anziché esporle al fiasco o all'indifferenza. Occorre imparare a fuggire un simile vizio. In un romanzo contemporaneo compare un ragazzo dai grandi, dolci occhi tranquilli, zelante nel lavoro, ma di scarsa prontezza, che tra i suoi compagni di classe di latino occupa sempre l'ultimo posto. E questo povero bambino, che non è intelligentissimo, ma ha nel suo animo profondissime e ricche vene d'oro, riesce a consolarsi con un'osservazione divina, che Platone non avrebbe rifiutato nella sua Repubblica: «Alla fin fine, diceva, qualcuno deve pur essere l'ultimo». Benché sembri una dolorosa ironia, abbiamo un gran bisogno d'imparare a essere gli ultimi tra i nostri concittadini, a considerare senza rancore né risentimento il posto che ci è assegnato nella repubblica, dove sono necessari e utili tanto i primi quanto gli ultimi. Così in letteratura e in tutta la nostra vita odierna si avverte un prurito di genialità e di millanteria concepibile solo dove le fantesche e le vecchie teste si preoccupano soltanto di essere prime in classifica, ritenendo disprezzabili tutti gli altri posti. Impariamo a essere i secondi, i terzi, gli ultimi. Forse l'insegnamento più profondo dato dal rapporto con le cose reali -lasciato in noi da quella stagione di abbraccio alla vita, al passaggio dai venti ai trent'anni- è che la vita merita la pena di essere vissuta anche se non siamo grandi uomini.
 
L'arte è un surrogato della vita. Se ci fosse possibile godere tutti di una vita così intensa, così piena di vigorose passioni leonine, di saporite e feconde malinconie, di tutti i sentimenti e tutte le sensazioni come palpitano nei drammi di Shakespeare, forse potremmo prescindere dall'arte, e questo accade agli avventurieri. Ma di solito la nostra vita cammina pacatamente sul filo dei giorni e al ritmo delle ore che cadono vane intorno a noi, come noci vuote cadute dall'albero nel silenzio di un pisolino. Nel tempo in cui «da ogni angolo ci spia la massa», ci va cadendo goccia dopo goccia, dentro le viscere, il dolore universale: allora avvertiamo la vacuità dell'esistenza, allora abbiamo necessità di bere i vini generosi delle botteghe altrui, allora c'imboschiamo nelle scene tragiche dell'arte o cerchiamo i saliceti umidi piantati sulla sponda di un fiume da qualche uomo grande e buono, dal cui cuore emanava un altro fiume di tenerezza, idealismo e dolcezza. Sembrandoci sordida e indegna di essere sopportata la vita, la riempiamo di arte e stiviamo d'immaginazione le barche lente delle nostre ore.
 
Il paesaggio si andava raccogliendo in se stesso: qualche stella chiara fioriva nella tenerezza del crepuscolo. Un lontano abbaiare. Scivola nella valle il rumore di una squilla come sulla guancia scivola una lacrima. La notte giungeva, camminando nel cielo con un lento passo di mucca. Imprigionammo in un'ultimo sguardo la magnifica quiete del gregge di monti: scendemmo sulla statale. Un passante ci chiese l'ora: rispondemmo che non avevamo orologi, perché eravamo mistici e celtiberi. Dato che non ci comprendeva del tutto, lui continuò il suo cammino verso Segovia e noi entrammo in paese.
 
A Nietzsche dobbiamo la scoperta del meccanismo che funziona nella coscienza pubblica degenerata: l'ha chiamata "ressentiment". Quando un uomo si sente inferiore a se stesso per mancanza di certe qualità - intelligenza, valore o eleganza - cerca indirettamente di affermarsi ai propri occhi negando l'eccezionalità di queste qualità. Come ha finemente indicato uno studioso di Nietzsche, non si tratta della storia della volpe e dell'uva. La volpe continua a stimare come migliore la maturità nella frutta e si accontenta di negare questa estimabile condizione agli acini posti troppo in alto. Il "risentito" va ben oltre: odia del tutto tale maturità e preferisce l'asprigno. È la totale inversione dei valori: ciò che è superiore, proprio in quanto tale, soffre di una "capitis diminutio" e al suo posto trionfa l'inferiore.
 
L'epoca in cui la democrazia era un sentimento sano e di impulso erompente è finita. Ciò che oggi si chiama democrazia è una degenerazione degli impulsi del cuore.
 
La verità scientifica si caratterizza per la sua esattezza e il rigore delle sue previsioni. Ma queste ammirabili qualità sono conquistate dalla scienza sperimentale a patto di mantenersi su un piano di problemi secondari, lasciando intatte le questioni ultime e decisive. Di questa rinuncia fa la sua virtù essenziale e non sarà necessario sottolineare che già solo per questo merita applausi. Però la scienza sperimentale è solo un'esigua parte della mente e dell'organismo umani. Dove essa si arresta non si ferma l'uomo. Se il fisico blocca la mano con la quale disegna i fatti lì dove il suo metodo termina, l'uomo che c'è dietro ogni fisico prolunga, che lo voglia o no, la linea iniziata e la porta a termine, così come automaticamente il nostro sguardo nel vedere il pezzo rotto dell'arco completa l'aerea curva monca.

La missione della fisica è verificare di ogni fatto che si produce il suo principio, cioè il fatto antecedente che lo ha originato. Però questo principio possiede a sua volta un principio anteriore e così sucessivamente fino ad un primo principio originario. Il fisico rinuncia a cercare questo principio primo dell'universo, e fa molto bene. Però ripeto che l'uomo nel quale ogni fisico vive non rinuncia e, volontariamente o contro il suo arbitrio, la sua anima si leva verso questa prima e enigmatica causa. È naturale che sia così. Vivere è di certo, trattare con il mondo, dirigersi versi di esso, agirvi, occuparsene. Perciò all'uomo è materialmente impossibile, per una ragione psicologica, rinunciare a possedere una nozione completa del mondo, un'idea integrale dell'universo. Delicata o rozza, con il nostro consenso o senza, si incorpora nello spirito di ognuno questa fisionomia transcientifica del mondo e viene a governare la nostra esistenza con maggior efficacia della verità scientifica. Il secolo passato ha voluto violentemente frenare la mente umana lì dove l'esattezza finisce. Questa violenza, questo volgere le spalle ai problemi ultimi, è stato chiamato "agnosticismo". Ecco ciò che non è giustificato nè plausibile. Il fatto che la scienza sperimentale sia incapace di risolvere a suo modo queste questioni fondamentali, non giustifica che, facendo di fronte ad esso un grazioso gesto, come di volpe davanti ad uve molto alte, le chiami "miti" e ci inviti ad abbandonarle. Come si può vivere sordi alle ultime, drammatiche domande? Da dove viene il mondo, e dove va? Qual è la potenza che definisce il cosmo? Qual è il senso essenziale della vita? Non possiamo rimanere confinati in una zona di temi intermedi, secondari. Abbiamo bisogno di una prospettiva integra, con un primo e un ultimo piano, non di un paesaggio mutilato, non di un orizzonte privato della palpitazione incitatrice delle ultime lontananze. Senza punti cardinali, i nostri passi mancherebbero di orientamento. Non è un pretesto sufficiente per questa insensibilità verso le questioni ultime dichiarare che non si è trovata la maniera di risolverle. Ragione in più per sentire nel profondo del nostro essere la loro pressione e la loro ferita! A chi mai ha soddisfatto la fame sapere che non potrà mangiare? Anche se irrisolvibili questi interrogativi continueranno ad alzarsi patetici nella curca faccia notturna e a presentarci i loro ghigni di stelle -le stelle, secondo Heine, sono inquieti pensieri d'oro della notte. Il Nord e il Sud ci orientano, senza bisogno di essere città accessibili, per le quali si possa prendere un biglietto della ferrovia.

Con questo voglio dire che non ci è concesso di rinunciare a una presa di posizione di fronte ai temi ultimi: che lo vogliamo o no, in un modo o nell'altro, si incorporano in noi. La "verità scientifica" è una verità esatta, ma incompleta e penultima, che si integra forzatamente in un altro tipo di verità ultima e completa, sebbene inesatta, che non sarebbe sconveniente chiamare "mito". La verità scientifica galleggia, dunque, nella mitologia e la scienza stessa, come totalità, è un mito, l'ammirabile mito europeo.
 
thread ingiustamente abbandonato! :o


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