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Il geniale, l’aristotelico (sì, proprio aristotelico nell’ispirazione ideale) Roberto Benigni, che celebra non solo la bellezza ma canta addirittura la superiore dignità etica della politica, ha creato scompiglio. Dopo anni di distruzione pianificata della bellezza della politica (anche Tornatore ne aveva parlato in un suo film che incorniciava la dolce memoria della militanza lontana), è imperdonabile che proprio un comico rivendichi una così elevata concezione della nobiltà dell’agire politico.
E se Galli della Loggia sul Corriere reprime il suo disappunto (si limita a un punto esclamativo) innanzi a un simile inaudito spettacolo (che fa della Carta «oggetto delle divagazioni di un comico»), Maurizio Belpietro non si trattiene. E, in un editoriale di Libero, colpisce duro il «Robertaccio che prendeva in braccio Berlinguer» e ora pretende di parlare di politica e Costituzione. Suscita uno scandalo immenso un artista che non attraversa a nuoto lo stretto di Messina o che non ci sta a far da comprimario nello stupido coro del conformismo antipolitico. E allora l’insofferente Belpietro, cioè lo stesso sedicente apostolo del mercato che denuncia il puzzo sovietizzante impresso nella nozione di lavoro scolpito nella Carta, scatta subito per rimproverare a Benigni di essere «il milionario».
E il libero mercato, e l’incontro tra domanda e offerta, che tanto stanno a cuore del liberale Belpietro? Al solito, questi articoli di fede vanno subito mandati alla malora quando premiano un artista che nelle sue idee osa rimanere ancora legato al lavoro. Il fatto è che Benigni non si accoda a quell’astioso ronzio che a reti unificate predica senza tregua contro la politica. In un tempo di ricchi sfondati che comprano giornali per dire basta ai politici o di frenetici capitalisti che creano partiti e liste personali per tentare la scalata al governo, di davvero dissacrante (per smascherare il potere vero, non quello di comodo), non c’è altro che recuperare la celebrazione aristotelica del primato della politica.
Il prodotto più grande della politica italiana novecentesca, di quell’incontro storico eccezionale che spinse tutti (Palmiro, Alcide, Nenni, come si esprime Benigni) a dare il meglio sul piano della progettazione culturale, è senza dubbio la Costituzione repubblicana. Un capolavoro. Con un tocco di sublime acutezza, Benigni ha reso con trasparenza, e forse meglio di molti interpreti professionali, il senso del principio di solidarietà che la pervade nel profondo.
La doverosità dell’essere solidali, ha suggerito il comico con un autentico lampo di rischiaramento concettuale, equivale a istituzionalizzare una passione. È come se il principio psicologico di Hume della simpatia, intesa come passione del soggetto che lo porta a prestare cura anche al disagio degli altri, venisse riconosciuto per legge e proposto come pilastro della pubblica città.
Quando Benigni ha rammentato la distinzione tra lavoro (nozione allargata che comprende più figure, attività e soggetti) e lavoratore (nozione più ristretta e con una venatura classista) ha mostrato di saperne molto di più, sul fondamento materiale della Repubblica, di tanti suoi seriosi censori che suppongono che chi maneggia metafore non possa poi veicolare pensieri. Fanno finta di avere la puzza sotto il naso dinanzi all’affronto di un comico che con parole e segni poetici si azzarda a parlare di Costituzione. In realtà provoca rabbia il fatto che, combinando con una straordinaria efficacia immagini e retorica, concetti e metafore, senso e significato, Benigni abbia colto, e trasmesso plasticamente a un vasto pubblico, la grandezza ideale persistente della Carta del ’48.
C’è una forte componente della politica italiana, che Belpietro rappresenta senza infingimenti, che il progetto di società tracciato nella Costituzione lo avversa alla radice e non esita per questo a svelare «la menzogna della Repubblica fondata sul lavoro». Lavoro, solidarietà, eguaglianza, diritti sono parole che ancora destano resistenze e il comico che, con i suoi peculiari simboli e con le sue specifiche immagini, invece riesce a farne dei concetti concreti e a dare loro una sostanza vitale merita l’irrisione. Benigni procura un senso di fastidio a Belpietro o Della Loggia non già perché abbia ridotto le cose serie a barzelletta, come scrive Libero. «Robertaccio» fa arrabbiare perché ha disvelato la fecondità valoriale inesauribile di quell’antico compromesso firmato nel 1947 da Palmiro, Alcide e Nenni (e altri ancora).
E se Galli della Loggia sul Corriere reprime il suo disappunto (si limita a un punto esclamativo) innanzi a un simile inaudito spettacolo (che fa della Carta «oggetto delle divagazioni di un comico»), Maurizio Belpietro non si trattiene. E, in un editoriale di Libero, colpisce duro il «Robertaccio che prendeva in braccio Berlinguer» e ora pretende di parlare di politica e Costituzione. Suscita uno scandalo immenso un artista che non attraversa a nuoto lo stretto di Messina o che non ci sta a far da comprimario nello stupido coro del conformismo antipolitico. E allora l’insofferente Belpietro, cioè lo stesso sedicente apostolo del mercato che denuncia il puzzo sovietizzante impresso nella nozione di lavoro scolpito nella Carta, scatta subito per rimproverare a Benigni di essere «il milionario».
E il libero mercato, e l’incontro tra domanda e offerta, che tanto stanno a cuore del liberale Belpietro? Al solito, questi articoli di fede vanno subito mandati alla malora quando premiano un artista che nelle sue idee osa rimanere ancora legato al lavoro. Il fatto è che Benigni non si accoda a quell’astioso ronzio che a reti unificate predica senza tregua contro la politica. In un tempo di ricchi sfondati che comprano giornali per dire basta ai politici o di frenetici capitalisti che creano partiti e liste personali per tentare la scalata al governo, di davvero dissacrante (per smascherare il potere vero, non quello di comodo), non c’è altro che recuperare la celebrazione aristotelica del primato della politica.
Il prodotto più grande della politica italiana novecentesca, di quell’incontro storico eccezionale che spinse tutti (Palmiro, Alcide, Nenni, come si esprime Benigni) a dare il meglio sul piano della progettazione culturale, è senza dubbio la Costituzione repubblicana. Un capolavoro. Con un tocco di sublime acutezza, Benigni ha reso con trasparenza, e forse meglio di molti interpreti professionali, il senso del principio di solidarietà che la pervade nel profondo.
La doverosità dell’essere solidali, ha suggerito il comico con un autentico lampo di rischiaramento concettuale, equivale a istituzionalizzare una passione. È come se il principio psicologico di Hume della simpatia, intesa come passione del soggetto che lo porta a prestare cura anche al disagio degli altri, venisse riconosciuto per legge e proposto come pilastro della pubblica città.
Quando Benigni ha rammentato la distinzione tra lavoro (nozione allargata che comprende più figure, attività e soggetti) e lavoratore (nozione più ristretta e con una venatura classista) ha mostrato di saperne molto di più, sul fondamento materiale della Repubblica, di tanti suoi seriosi censori che suppongono che chi maneggia metafore non possa poi veicolare pensieri. Fanno finta di avere la puzza sotto il naso dinanzi all’affronto di un comico che con parole e segni poetici si azzarda a parlare di Costituzione. In realtà provoca rabbia il fatto che, combinando con una straordinaria efficacia immagini e retorica, concetti e metafore, senso e significato, Benigni abbia colto, e trasmesso plasticamente a un vasto pubblico, la grandezza ideale persistente della Carta del ’48.
C’è una forte componente della politica italiana, che Belpietro rappresenta senza infingimenti, che il progetto di società tracciato nella Costituzione lo avversa alla radice e non esita per questo a svelare «la menzogna della Repubblica fondata sul lavoro». Lavoro, solidarietà, eguaglianza, diritti sono parole che ancora destano resistenze e il comico che, con i suoi peculiari simboli e con le sue specifiche immagini, invece riesce a farne dei concetti concreti e a dare loro una sostanza vitale merita l’irrisione. Benigni procura un senso di fastidio a Belpietro o Della Loggia non già perché abbia ridotto le cose serie a barzelletta, come scrive Libero. «Robertaccio» fa arrabbiare perché ha disvelato la fecondità valoriale inesauribile di quell’antico compromesso firmato nel 1947 da Palmiro, Alcide e Nenni (e altri ancora).