jump st. man
sparate sul pianista
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La fase di rafforzamento del $ è destinata a durare oppure no? Il problema del $ è che si muove su due fronti: se da una parte appare sopra/valutato sul fronte del disavanzo commerciale [dovrebbe scendere ancora per permettere agli USA di esportare], è ancora fortemente richiesto sul fronte del deficit federale [si comprano $ per finanziare le spese federali].
Una opzione esclude l’altra e l’oscillazione determina l’ambiguità della situazione sul fronte dei cambi. È una questione di equilibrio [di sottile equilibrio], che attraversa come un’onda [flusso e riflusso] tutti i mercati.
Per poter giungere ad un maggior controllo, gli USA dovrebbero diminuire il loro deficit interno [pilotando il $ verso il basso]: si produrrebbe così una dinamica deflativa, destinata a stimolare la crescita economica e favorire una reale competizione industriale. Questo scenario, però, contrasterebbe con l’esigenza USA di mantenere il $ in una posizione tale da favorire le importazioni dall’Asia in cambio di sostegno al deficit federale [sostegno che, paradossalmente, rafforza il $].
La novità delle ultime settimane sta però nella convergenza di due pericolose figure inflazionistiche: il rialzo del $ e quello del crude insieme. La doppia figura pone di fronte ad una situazione nuova. Vediamo come tale situazione potrebbe evolvere.
Fase A: se la crescita del deficit federale è destinata a salire [e tutti i segnali conducono a questa previsione], anche il $ è destinato a salire [queste sono le conseguenze paradossali di un monetarismo spinto all’eccesso];
Fase B: se il $ si rafforza diviene lecito attendersi una ripresa dei flussi commerciali verso gli USA;
Fase C: il rafforzamento del $ [congiunto a quello generalizzato delle commodities], finirebbe per innescare quella spirale che condurrebbe fatalmente ad una ripresa generalizzata delle spinte inflative;
Fase D: per far fronte all’aumento dei prezzi, si sarebbe costretti a frenare sul fronte dei tassi [fornendo così nuove spinte alle tensioni inflative].
Il livello d’indebitamento del sistema è infatti tale da rendere impossibile [se non dilazionando all’infinito la data] il rientro del circolante.
Alla fine del percorso, non resterebbero che due soluzioni: o dichiarare fallimento o scaricare sui prezzi le tensioni inflative. Non siamo però negli anni ’70, quando i salari inseguivano catastroficamente la curva dei prezzi. Oggi le spinte deflative sono più efficaci, ma è proprio la presunta robustezza di queste spinte contrarie a rendere problematico l’esito del percorso.
Il sistema, infatti [sistema inteso come massa monetaria], non appare in grado di deflazionare in misura tale da contenere in una volta sola aumento dei prezzi/livelli d’indebitamento/tenuta generalizzata dei consumi. Per tenere insieme tutte le variabili è necessario o inflazionare ancora o distruggere una parte della ricchezza immessa espansivamente nel sistema.
Una parte della ricchezza, probabilmente, finirà per autodistruggersi in mancanza di fonti sufficienti di reddito [a meno di non inflazionare duramente]; la parte restante [quella dotata di maggior valore intrinseco] potrà deflazionare tranquillamente attraverso una migliore, reale produzione di reddito.
In una fase deflativa, però, le monete tenderanno ad indebolirsi [dovranno infatti abbandonare per strada la parte inflativa del loro valore], ma alla fine sarà proprio il loro valore reale ad emergere. Da quel valore si potrà ripartire, rimettendo con i piedi per terra un’economia spodestata dalla progressiva virtualità della ricchezza.
Una opzione esclude l’altra e l’oscillazione determina l’ambiguità della situazione sul fronte dei cambi. È una questione di equilibrio [di sottile equilibrio], che attraversa come un’onda [flusso e riflusso] tutti i mercati.
Per poter giungere ad un maggior controllo, gli USA dovrebbero diminuire il loro deficit interno [pilotando il $ verso il basso]: si produrrebbe così una dinamica deflativa, destinata a stimolare la crescita economica e favorire una reale competizione industriale. Questo scenario, però, contrasterebbe con l’esigenza USA di mantenere il $ in una posizione tale da favorire le importazioni dall’Asia in cambio di sostegno al deficit federale [sostegno che, paradossalmente, rafforza il $].
La novità delle ultime settimane sta però nella convergenza di due pericolose figure inflazionistiche: il rialzo del $ e quello del crude insieme. La doppia figura pone di fronte ad una situazione nuova. Vediamo come tale situazione potrebbe evolvere.
Fase A: se la crescita del deficit federale è destinata a salire [e tutti i segnali conducono a questa previsione], anche il $ è destinato a salire [queste sono le conseguenze paradossali di un monetarismo spinto all’eccesso];
Fase B: se il $ si rafforza diviene lecito attendersi una ripresa dei flussi commerciali verso gli USA;
Fase C: il rafforzamento del $ [congiunto a quello generalizzato delle commodities], finirebbe per innescare quella spirale che condurrebbe fatalmente ad una ripresa generalizzata delle spinte inflative;
Fase D: per far fronte all’aumento dei prezzi, si sarebbe costretti a frenare sul fronte dei tassi [fornendo così nuove spinte alle tensioni inflative].
Il livello d’indebitamento del sistema è infatti tale da rendere impossibile [se non dilazionando all’infinito la data] il rientro del circolante.
Alla fine del percorso, non resterebbero che due soluzioni: o dichiarare fallimento o scaricare sui prezzi le tensioni inflative. Non siamo però negli anni ’70, quando i salari inseguivano catastroficamente la curva dei prezzi. Oggi le spinte deflative sono più efficaci, ma è proprio la presunta robustezza di queste spinte contrarie a rendere problematico l’esito del percorso.
Il sistema, infatti [sistema inteso come massa monetaria], non appare in grado di deflazionare in misura tale da contenere in una volta sola aumento dei prezzi/livelli d’indebitamento/tenuta generalizzata dei consumi. Per tenere insieme tutte le variabili è necessario o inflazionare ancora o distruggere una parte della ricchezza immessa espansivamente nel sistema.
Una parte della ricchezza, probabilmente, finirà per autodistruggersi in mancanza di fonti sufficienti di reddito [a meno di non inflazionare duramente]; la parte restante [quella dotata di maggior valore intrinseco] potrà deflazionare tranquillamente attraverso una migliore, reale produzione di reddito.
In una fase deflativa, però, le monete tenderanno ad indebolirsi [dovranno infatti abbandonare per strada la parte inflativa del loro valore], ma alla fine sarà proprio il loro valore reale ad emergere. Da quel valore si potrà ripartire, rimettendo con i piedi per terra un’economia spodestata dalla progressiva virtualità della ricchezza.