Rapporto/BANCHE

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Grazie alla trasformazione di prestiti a breve in prestiti a lungo termine, e alle cartolarizzazioni, i crediti inesigibili sembrano essere scomparsi dai bilanci degli istituti. Ma il problema, uscito dalla porta, potrebbe tornare dalla finestra. Le direttiva della Banca d’Italia

Il mistero delle "sofferenze" scomparse

VITTORIA PULEDDA

L’economia va male, i bilanci delle banche no. Soprattutto per quanto riguarda quel particolare indicatore, il rapporto sofferenzeimpieghi, che per primo segnala la difficoltà del quadro congiunturale.
L’apparente paradosso da qualche tempo sta richiamando l’attenzione degli osservatori e, da ultimo, ha dato indirettamente fiato all’ennesima polemica tra il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Il primo, infatti, ha chiesto chiarimenti al secondo sull’ammontare e l’uso delle cartolarizzazioni da parte delle banche. Che, in effetti, hanno avuto in parte l’effetto di ammorbidire l’impatto delle sofferenze sui bilanci.
Ma facciamo un passo indietro, per capire il meccanismo che lega il ciclo encomico, le sofferenze bancarie e, da qualche anno, le cartolarizzazioni.
Secondo la teoria, dal momento in cui l’economia entra ufficialmente in recessione, tempo dodici mesi e le società cominciano a saltare i pagamenti delle rate sui prestiti. Di lì a poco i prestiti dovrebbero correttamente andare prima tra le partite incagliate, poi nelle sofferenze vere e proprie. Invece, nonostante il ciclo sia ormai da tempo in difficoltà, i bilanci bancari sembrano risentire tutto sommato poco di tutto ciò. Alla fine del 2003, ad esempio, Unicredito aveva un rapporto sofferenze/impieghi pari all’1,87 per cento, mentre il Sanpaolo stava ancora meglio (il rapporto sofferenze nette/crediti netti era sotto l’unità). Persino Antonveneta, che pure ha subito l’onta di chiudere l’anno in perdita, ha un rapporto sofferenze/impieghi pari al 2,8 per cento: è pur vero che la banca ha deciso la strada radicale degli accantonamenti a fronte perdite, piuttosto che star lì a far lievitare la voce delle sofferenze, ma è altrettanto vero che in tempi passati questi indicatori sono cresciuti ben di più, a livello di sistema.
La stessa Capitalia che pure contabilizza in sofferenza il 6 per cento dei crediti per cassa rispetto alle difficoltà contabili degli anni passati ha fatto decisi passi avanti.
Queste apparenti contraddizioni hanno almeno un paio di spiegazioni: i tassi di interesse in ribasso e, appunto, le cartolarizzazioni. Il primo elemento aiuta le aziende perché anche nei casi in cui non riescono a restituire il capitale, ce la fanno a pagare gli interessi, proprio perché i tassi sono bassi. Ecco allora che secondo molti osservatori le banche negli ultimi tempi hanno trasformato debiti a breve termine (che avrebbero dovuto andare in sofferenze) in debiti a lungo termine, su cui all’inizio si pagano quasi solo gli interessi. Il basso livello dei tassi aiuta a rimborsare le prime rate e in questo modo l’esposizione è apparentemente in bonis, se ci saranno problemi si manifesteranno in futuro. Se nel frattempo si riprende il ciclo economico e con esso i bilanci delle imprese, i crediti traballanti nel tempo possono essere restituiti senza essere mai transitati nel purgatorio delle sofferenze.
Per alcuni versi, questa è la strada "virtuosa" per dare un piccolo aiuto ai bilanci bancari: se le società si riprendono e pagano, tutto va a posto, altrimenti le singole poste vengono messe in un secondo momento a sofferenza, anche se con qualche rata di ritardo rispetto alla fisiologia.
Un’altra strada, finora molto seguita dalla banche (vedi tabella in pagina) è quella delle cartolarizzazioni. Anche le migliori emissioni prevedono una sorta di scaletta del rating, con valori a scalare da quella parte dell’emissione che è supersicura e che ha il punteggio più alto, per poi andare via via a scendere.
La cartolarizzazione è un’operazione piuttosto complessa tecnicamente che trasforma in un’obbligazione qualcosa che ha un flusso di pagamenti costante poniamo un mutuo, con le relative rate, o un prestito. Quindi, partendo da un prestito bancario (in genere, ma non necessariamente) si ottiene un bond, collocato sul mercato. Se il creditore paga, tutto va bene, altrimenti scattano le varie garanzie presenti nell’emissione obbligazionaria, che in genere riportano almeno una parte del rischio alla banca medesima.
Ebbene, nel caso in cui il bond, la cartolarizzazione, riguarda prestiti in sofferenza, è molto amplia la parte di obbligazioni cosiddette mezzanine, o ancora più in basso equity. Queste ultime non hanno rating o ce l’hanno molto basso e per consuetudine o per regolamento, a seconda dei casi vengono riacquistate dalle stesse banche.
In altre parole, quello che è uscito dalla porta il credito in sofferenza rientra dalla finestra, attraverso le cartolarizzazioni riacquistate. Ma il vantaggio immediato, dal punto di vista contabile, è netto: spariscono le sofferenze, non c’è bisogno di fare accantonamenti né di procedere a svalutazioni dei cespiti. E’ ovvio che il problema, anche in questo caso, è solo rimandato, ma nel breve termine le sofferenze sembrano sparire dal bilancio, trasformate anzi in poste dell’attivo. Un paio di anni fa Bankitalia ha quantomeno obbligato le banche a dichiarare nei bilanci quanti bond di questo genere erano compresi nei loro portafogli, sotto la voce "titoli immobilizzati" e da allora è stato anche più trasparente verificare gli eventuali accantonamenti su questa voce. Ma, certamente, è ben diverso dall’averli contabilizzati a sofferenze.
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/05/rapportobanche/050kipper.html
 
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Per Giacomo Neri di PricewaterhouseCoopers il ruolo dei promotori dovrà cambiare

Banche e reti, un rapporto da ripensare

MARIANO MANGIA

E' un rapporto non facile quello tra banche e reti di vendita. Perché la gestione di una rete di promotori finanziari richiede un approccio completamente diverso da quello adoperato per la rete bancaria tradizionale.
Giacomo Carlo Neri, partner di PricewaterhouseCoopers Global Management Solutions, non ha dubbi: «E' evidente che la rete di promotori finanziari è un business model atipico, che si è sviluppato sul mercato italiano per la scarsa capacità commerciale della banca tradizionale. Questi modelli, che pongono al centro dell'attività una figura di promotore con forte spirito imprenditoriale e aggressività commerciale, si sono ritagliati una fetta abbastanza importante del mercato, ma sono difficilmente gestibili dagli intermediari bancari». Come fa rilevare Neri, è emblematico della scarsa capacità del sistema bancario a gestire reti di vendita il fatto che, tra i primi quattro operatori del mercato, si trova un solo operatore di emanazione bancaria, Banca Fideuram, e che entrambe le reti cedute negli ultimi tempi, Bnl Investimenti e Banca Primavera del gruppo Intesa, siano state acquisite da due gruppi assicurativi, rispettivamente Ras e Generali, che vantano una maggiore esperienza e cultura nella gestione di reti indirette.
In termini organizzativi, con il tempo, le strutture delle reti di vendita bancarie si sono polarizzate su due opposti modelli di business: da un lato la semplice Sim specializzata nel collocamento di prodotti, tipologia diffusa tra le banche di medie e piccole dimensioni, dall'altra la struttura multicanale, nella quale al promotore si affiancano canali distributivi tradizionali (il punto vendita, il negozio finanziario) e innovativi (il web, il phone banking, etc), appannaggio dei gruppi di maggiori dimensioni.
Ma quali sono le sfide per il futuro per queste reti di vendita? «In primo luogo sono condannate alla crescita», è l'opinione di Neri. «Le strutture dei costi, tra investimenti informatici, retrocessioni e minimi garantiti, impongono masse critiche importanti, che noi da tempo indichiamo in almeno 10 miliardi. Sarà poi importante impiantare presso queste reti avanzati sistemi manageriali e informatici di controllo». E dovranno avere la disponibilità di sistemi per l'ottimizzazione dell'asset allocation e dei profili di rischio, in grado di modificare, automaticamente, in funzione dei trend di mercato, i singoli portafogli.
«A mio parere spiega Neri il mercato è oggi di fronte a un bivio. C'è un forte rischio di fiducia ma questo momento rappresenta un'opportunità strategica per innovare il business model, aumentando la funzione di consigliere indipendente del promotore, non costringerlo a vendere solo i prodotti della casa. Nel medio periodo le maggior masse acquisite per effetto di una riconosciuta indipendenza compenseranno la minore redditività che deriva dal collocare prodotti di terzi».
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/05/rapportobanche/050kappler.html
 
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Addetti ai lavori e politici si esprimono unanimi sull’esigenza di dare vita, in tempi brevi, ad un istituto italiano di status almeno continentale che accompagni le imprese sui mercati esteri ed eriga una muraglia difensiva negli snodi finanziari di casa nostra. Il ruolo decisivo della cabina di regia

Fusioni in grande, unica strada per rispondere all’Europa

ANDREA GRECO

In un ipotetico manuale di microeconomia da scrivere, i nostri anni 90 saranno ricordati come l’epoca delle grandi concentrazioni bancarie. Figlie dell’onda privatizzatrice, sorellastre del riassetto di settore su scala globale per accentuata concorrenza, sfruttando le filiere del cross selling e delle dimensioni. Così sono nati i poli del credito: Unicredit, Banca Intesa, Capitalia, Sanpaolo Imi. Aggregazioni "del primo tipo", sotto la regia unica del governatore Antonio Fazio, quasi sempre mettendo insieme istituti regionali, simili nelle attività e geograficamente complementari. Spesso funzionò, anche perché la congiuntura era favorevole: c’era un popolo di risparmiatori in fuga dal debito pubblico da servire (a ciò le privatizzazioni hanno saputo dare una risposta), una quantità di operazioni da strutturare (spesso anch’esse legate a varie alienazioni di beni pubblici).
Si è calcolato che nel decennio scorso i ricavi medi delle banche nazionali sono cresciuti del 78%. Ma questo scenario è ormai maturo, il tasso incrementale del nuovo secolo non supera il 5% e le dimensioni degli istituti italiani – si veda la tabella in pagina – sono drammaticamente inadeguate rispetto all’estero. Una foto che indica pure un pericolo, causa appetiti stranieri qualora saltasse il tappo protettore di Bankitalia. Se si aggiunge che il tempo degli scandali – all’apice con Parmalat – ha messo in pericolo l’autorità guardiana di Fazio e alleggerito status e prestigio dei banchieri a lui vicini, non può stupire che si torni a parlare di "seconda fase di fusioni" tra banche nel paese.
È difficile indovinarne i tempi, ma lo scenario appare quasi obbligato per alcune sue modalità: le caratteristiche delle nuove aggregazioni, la necessità che nasca un player continentale, i movimenti nelle posizioni di seconda fila.
Le nuove fusioni bancarie avranno tipologie diverse dalle vecchie. «Le banche da fondere saranno molto meno omogenee tra loro – spiega Raffaele Cicala, vice presidente di Bcg Italia – perché negli ultimi 5 anni le strategie dei big vanno divergendo: le banche ora sono molto più sovrapposte, quindi le sinergie di costo prevarranno su quelle di ricavo. E l’attenzione alle trasmigrazioni dei clienti peserà molto di più sui risultati finali». Premesse che impongono un approccio diverso alle dirigenze: «Servono fusioni in tempi rapidi, massimo 23 anni – continua Cicala – con obiettivi minuziosamente fissati a priori da una squadra di manager qualificata che li controlli nel tempo e implementi il progetto con l’amministratore delegato».
Il coro degli addetti ai lavori e dei politici si esprime circa unanime sull’esigenza di dar vita, presto, a un istituto italiano di status almeno europeo, che accompagni le imprese nelle loro diversificazioni estere e al contempo eriga una muraglia difensiva negli snodi finanziari del paese; solo una manciata di operatori è in grado di giocare questa partita. Dai prezzi di Borsa di inizio marzo, Unicredit vale 26,6 miliardi di euro, Intesa 17,5, Sanpaolo 15; gravitano tra il 15° e il 20° posto in Europa per mole. Più giù, dopo il trentesimo, stanno Mps, Capitalia, Bnl. Tutte insieme, le sei italiane non raggiungono la stazza di Royal Bank of Scotland (seconda con 76 miliardi), circa metà del leader Hsbc.
Quasi tutti i nostri big sono reduci da una prima tornata aggregatrice, eccetto Mps e Bnl, che hanno tentato le nozze tra loro, poi preferendo una strategia solitaria (fino a quando?). È un gioco a incastri obbligato, come si vede. Finora l’unico abboccamento "ufficiale" è stato tra Unicredit e Sanpaolo, accarezzato da alcuni grandi soci dei due gruppi ma formalmente accantonato. Sembra che la ragione sia stata che i torinesi sono un boccone troppo grosso per Piazza Cordusio, stante la volontà della squadra manageriale di Alessandro Profumo di essere un polo aggregante a dispetto delle dimensioni non troppo dissimili dei due istituti.
Rimane, infine, il composito girone delle popolari e degli istituti cooperativi sul territorio. Ai secondi basterà forse ritagliarsi un ruolo di nicchia dove non avere rivali, per sopravvivere. Sono le prime a dover fare maggiori conti col mercato globale, anche se il grido di dolore di Antonio Mazzotta della Bpm – una sorta di «Basta con la banca universale che fa tutto per tutti i tipi di clienti» – è emblematico. Due fusioni tra popolari hanno già mostrato la via: quelle tra VeronaNovara e BergamoComindustria. Più discutibile, invece, il "modello Lodi", scaturito da tre anni di acquisizioni minori che stanno provando la redditività del gruppo e la sua tenuta. Tra le altre da maritare stanno, in ordine decrescente, Bpm, Banca Lombarda, Popolare Sondrio e Popolare Intra.
A combinare tutti questi fattori, trasversalmente, rivestirà un ruolo decisivo la regia. O, meglio, la "cabina di regia" che dirà l’ultima parola sulle ipotesi di fusione. Perché se nel decennio scorso l’unico a smistare il traffico è stato Fazio, ora il numero è salito. Accanto al governatore, che nello spirito delle riforme in fieri manterrà le funzioni di vigilanza bancaria, sarà l’Antitrust a spartire con via Nazionale il controllo della concorrenza settoriale. Con un ruolo ai commissari dell’Unione europea, sempre più attenti alle singole vicende nazionali. E una graduale ingerenza – quasi un ritorno però, in questo caso – della classe politica, abile a insinuarsi nelle more del sistema, tra maglie bancarie larghe nella fase di scarso prestigio che attraversa la categoria. Le pressioni politiche viste sulle nomine del nuovo cda al Sanpaolo ne sono un esempio. O, peggio, sono solo l’inizio.
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/05/rapportobanche/051kisena.html

l’esempio francese

Ecco tutte le regole perché l’unione vada in porto ed abbia successo


I nostri vicini di casa una "seconda ondata" di fusioni creditizie l’hanno fatta, integrando istituti già differenziati per culture, funzioni e business. Con fruttuosi risultati, consolidando le posizioni di BnpParibas e di Credit AgricoleLyonnais, rispettivamente al 5° e al 14° posto per capitalizzazione di Borsa tra banche in Europa. Due operazioni che hanno provato decine di manager, advisor e consulenti. Didier Ribadeau Dumas, 57enne vice presidente di Boston Consulting Group, ha contribuito alla preparazione e al perfezionamento di entrambi i merger e ne spiega la ricetta: «Perché una fusione riesca, va applicata una severa disciplina a un numero incredibile di variabili; ognuna impone decisioni pianificate, da implementare giorno per giorno senza lasciare nulla al caso. Bisogna rispondere a una serie di questioni basilari prima dell’avvio, che implicano scelte precise».
I temi chiave sono i seguenti: tempo a disposizione, tipo di sinergie ricercate, destino dei marchi e delle sedi centrali. «I tempi lunghi rischiano di fomentare le litigiosità tra manager, ma nel breve è più facile sbagliare, anche se si crea più efficienza. Per le sinergie, va dichiarato se sono da ricavi o da costi, le ultime più facili da ottenere solo razionalizzando il personale. Sono poi delicate le scelte sui marchi e le, possibili di diversi livelli di integrazione». Vanno infine armonizzate le culture aziendali: «Quelli di Bnp, forti nell’investment banking, avevano un’immagine molto cool, diversa dalla mentalità retail di Paribas. Mentre l’Agricole è una banca territoriale che serve aree contadine, tutta diversa dal Lyonnais che per decenni è stata centralizzata e attiva sul corporate». Secondo Bcg, è stato determinante per la riuscita di BnpParibas il fatto che due squadre di manager e consulenti abbiano lavorato parallelamente, una sull’acquisizione di Bnp, una sulla fusione "industriale"; altra caratteristica favorevole, l’aver avuto nel ’99 ben 5 mesi a disposizione per rispondere alla «mole incredibile di domande».
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/05/rapportobanche/051kasa.html
 
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con i nuovi standard

Il telefonino sarà sempre più usato come un "terminale bancario"

LUCA VAGLIO

Avrà influenza, negli intenti dei promotori, soprattutto sull’Internetbanking uno sviluppo del mondo web: l’introduzione dei nuovi domini "mobile". Vi sta lavorando un consorzio di nove società legate ai settori della telefonia, dei computer e della tecnologia, guidate da Microsoft, Nokia e Vodafone. Tra gli aderenti figurano anche H3G, Sun Microsystems, HewlettPackard, Orange, Samsung Electronics e la Gsm Association. L’intenzione è quella di fissare le regole in stretta relazione con le società autorizzate a compiere le procedure di registrazione nelle diverse nazioni, e il risultato finale dovrebbe essere quello di incentivare l’uso del telefonino anche per fare operazioni bancarie. Il nome dei nuovi indirizzi potrebbe essere .mobile, ma una soluzione finale non è ancora stata scelta. Gli addetti ai lavori si dicono ottimisti sul successo dell’iniziativa, che favorirà la definizione di quegli standard utili all’affermazione dell’Internet su piattaforma mobile.
Sarebbero meglio identificabili i siti accessibili dalle periferiche mobili, i quali potrebbero mantenere il dominio originario (ad esempio .com) e aggiungervi il nuovo .mobile. «Ci proponiamo di rendere sempre più completa la navigazione in rete sui dispositivi mobili. Un dominio ad hoc permette di risolvere i problemi legati alla sicurezza delle connessioni, favorendo la gestione di attività più complesse del semplice browsing come l’ecommerce», spiega Fabrizio Albergati, direttore della divisione Windows Client Mobility di Microsoft. Alan Harper, strategy director di Vodafone, dice che «l’obiettivo è di accelerare la diffusione di prodotti e servizi Internet progettati per i dispositivi mobili, oltre a garantire la semplicità di utilizzo per gli abbonati ai servizi di comunicazione mobile di tutto il pianeta». Alan Harper, strategy director di Vodafone, dice che «l’obiettivo è di accelerare la diffusione di servizi progettati per i dispositivi mobili». Conclude Claudio Corbetta, amministratore delegato di Register.it, una società accreditata da Icann per la registrazione di domini Internet nel nostro paese: «Il progetto va nella direzione di semplificare l’uso dei terminali mobili su protocollo web».
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/05/rapportobanche/051kura.html


la trasparenza bancaria

"Pattichiari" funziona: oltre un milione i visitatori del sito

MASSIMILIANO DI PACE

Trasparenza bancaria: un tema che le recenti vicende delle obbligazioni Parmalat, Cirio e Argentina ha riproposto all’attenzione degli utenti dei servizi bancari. In realtà la trasparenza è stata introdotta da una legge di 12 anni fa, che è stata l’apripista di una serie di disposizioni del Cicr (Comitato interministeriale per il credito e il risparmio), della Banca d’Italia, e dell’Abi, che hanno previsto tutta una serie di misure per rendere chiare le condizioni delle banche. Misure come l’affissione di manifesti informativi nelle agenzie, o come le indicazioni sempre più precise negli estratti conto, e la pubblicazione in Gazzetta ufficiale delle eventuali variazioni di condizioni e prezzi dei servizi bancari.
Ma la vera scommessa per rafforzare la trasparenza è l’iniziativa Pattichiari, promossa dall’Abi, che vede coinvolte in modo volontario 184 banche, che possiedono 26.000 dei 30.000 sportelli presenti in Italia. L’iniziativa, lanciata a metà ottobre del 2003, prevede sostanzialmente un sito internet (www.pattichiari.it), dove ottenere informazioni sui servizi bancari, e la presenza in ciascun sportello di materiale informativo impostato negli stessi termini da tutte le banche. Spetta poi agli enti di certificazione verificare che le informazioni corrispondano a quelle effettivamente fornite dall’agenzia bancaria.
Attraverso il sito www.pattichiari.it è possibile confrontare le condizioni dei servizi legati ai conti correnti (tassi di interesse, commissioni, valute, ecc.) tra le banche più vicine all’utente (c’è un motore di ricerca che consente di individuarle e di esaminarne le offerte), di individuare i bancomat più vicini (iniziativa Faro), i criteri di valutazione per la concessione e l’erogazione del credito alle piccole e medie imprese (Pmi), nonché i tempi sulla disponibilità degli assegni versati sui conti, le caratteristiche del servizio bancario di base (ovvero un c/c semplice e a basso costo), l’elenco delle obbligazioni a basso rischio (e a basso rendimento), e i chiarimenti sulle obbligazioni bancarie strutturate (che danno un rendimento legato a certi parametri).
I "visitatori" del sito hanno già superato quota 1, 2 milioni, con 160. 000 tentativi di ricerca del conto più conveniente (i conti correnti in Italia sono 34 milioni).
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/05/rapportobanche/051kuria.html
 
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Le imprese più piccole si sentono bistrattate dall’accordo sui requisiti patrimoniali

Il trattato di "Basilea 2" e l’incognita delle Pmi

LUCA PAGNI

Per il sistema del credito è qualcosa di paragonabile al trattato di Maastricht per i conti pubblici dei 15 stati dell’Unione europea. In questo caso, a dare il nome alla convenzione che segnerà per lungo tempo i rapporti tra banche e imprese non è una cittadina olandese, ma una delle più caratteristiche tra le cittadine svizzere.
Stiamo parlando di Basilea 2, l’accordo internazionale che definisce i requisiti patrimoniali delle banche in base al rischio di credito. È uno di quei temi di cui, al momento, si occupano e si preoccupano soltanto gli addetti ai lavori. Ma che, a breve, è destinato a cambiare il modo di lavorare di milioni di persone. E che ha già sollevato polemiche a non finire da parte dei rappresentanti delle piccole e medie imprese che si sentano i più bistrattati dalla riforma che entrerà in vigore dal 2006.
Basilea 2 è lo sviluppo di quanto sancito da documento del 1988 conosciuto come "Accordo sul capitale" e che ha imposto agli istituti di credito di accantonare, in via prudenziale, l’8 per cento del capitale erogato. Una misura studiata allo scopo di garantire solidità al sistema che è la più importante delle decisioni assunte dal Comitato di Basilea. Si tratta di un’organizzazione internazionale che opera sotto il patrocinio della Banca per i Regolamenti Internazionali (Bank of International settlements, Bis) nata per promuovere la cooperazione fra le banche centrali e altre agenzie equivalenti allo scopo di ottenere la stabilità monetaria e finanziaria. Il Comitato è stato fondato nel 1974 dai governatori delle banche centrali dei dieci paesi più industrializzati.
Basilea 2 risale al gennaio 2001. Rispetto all’accordo del 1988 cosa cambia? Rimane come pilastro fondamentale l’accantonamento dell’8%, a cui si aggiunge una nuova metodologia per la valutazione dei rischi attraverso la metodologia del rating, ovvero un sistema di valutazione che coinvolge sia chi eroga il prestito, sia chi lo riceve. Da una parte le banche dovranno dimostrare di avere una valutazione corretta delle tre categorie di rischio (rischio di mercato, rischio di credito e rischio operativo) e una capacita organizzativa adeguata allo scopo. In base al livello del rischio dovranno accumulare quote di capitale in proporzione. Le imprese, dall’altra, dovranno sottoporsi a una valutazione per misurarne il coefficiente di rischiosità. Per ottenere un rating adeguato anche le società non quotate dovranno così presentare conti trasparenti e il più completi possibile.
E qui cominciano i problemi. A sollevare le maggiori perplessità è il sistema delle piccole e medie imprese: oltre a non essere abituati al confronto con la concessione di un rating potrebbe veder peggiorare le condizioni loro praticate con una minor capacità di indebitamento. È proprio questo l’ammonimento lanciato in un recente convegno dal presidente di Confagricoltura, Augusto Bocchino: «Basilea 2 può essere un’occasione importante, ma a patto che non implichi maggiori oneri creditizi per le imprese agricole e che non sia una sorta di paravento, come per qualcuno è stata l’introduzione dell’euro, per l’aumento dei prezzi di vendita». Ancora più decisa la richiesta arrivata dalla Confartigianato dell’Emilia Romagna, il cui presidente Giampaolo Paolazzi propone, una volta recepiti da governi e banche centrali gli accordi di Basilea 2, che sia prevista una "no rating area" per le piccole imprese: «L’Emilia, nonostante sia la regione al top della capacità di rimborso con solo lo 0,6% di sofferenze, ha visto calare dell’1,6% il livello del credito al settore».
Non la pensa così il sistema bancario. Allo stesso convegno di Confagricoltura è intervenuto il direttore centrale di Bankitalia, Giovanni Carosio, il quale ha rivelato che dall’accordo di Basilea deriverà un aumento dei crediti alle pmi per effetto della riduzione del capitale che dovranno dimostrare per accedere al credito: «Analisi preliminari ha sostenuto portano a prevedere una riduzione media del capitale regolamentare sui crediti alle pmi da circa 5% per le più piccole a circa 25% per le più grandi».
Uno dei manager bancari tra i più influenti, il direttore generale della Popolare Vicenza, Divo Gronchi, con un passato a Mps, cerca di fugare i timori del settore: «Credo che le novità introdotte da Basilea 2 fossero divenute ormai necessarie. E non credo che siano penalizzanti per il sistema delle pmi. Le imprese devono prendere atto di un nuovo modo di porgersi e presentare i conti. Perché all’estero già lo fanno: sono abituati ad essere verificati dal sistema creditizio, mentre in Italia c’è una maggior riservatezza. Anche le banche devono saper sfruttare l’occasione per passare da un rapporto personalizzato con il cliente a un rapporto in cui si valutano parametri più oggettivi. Per concludere, non è che Basilea 2 comporti un nuovo modo di far credito o più rigoroso, ma soltanto più al passo con i tempi».
Mentre il dibattito entra nel vivo, le banche cominciano ad attrezzarsi. Ma saranno in grado di rispettare la scadenza del 2006? La risposta la possono dare società come Cad.it, quotata al Numtel, specializzata in software per l’intermediazione finanziaria. Elisabetta Serra della società guidata dall’ad Paolo Del Cortivo è la responsabile del settore analisti: «La banche si stanno organizzando anche se siamo soltanto a metà del processo di riorganizzazione richiesto da Basilea. Nel senso che ci sono state, fino ad ora, tante riunioni teoriche, ma la scelta del prodotto ancora non è avvenuta. Dovrà avvenire entro breve, perché Basilea 2 impone alle banche già con la fine di quest’anno di presentare dati storici compatibili con il nuovo sistema di valutazione del rischio».
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/05/rapportobanche/052kokako.html
 
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Necessario approntare una struttura di "rating" interno, e c’è chi ha già cominciato, ma molte banche piccole potrebbero soffrire

"Saranno favoriti non i giganti ma chi si è attrezzato per tempo"

EUGENIO OCCORSIO

«Sicuramente l’attuazione degli accordi Basilea 2, per i quali sono in via di completamento i regolamenti applicativi e che diventeranno pienamente operanti in autunno, comporterà una serie di importanti adattamenti nel mercato. Ma come non comprendere le preoccupazioni delle banche centrali, forzate a stringere i cordoni della sicurezza e della trasparenza dopo la fitta serie di scandali finanziari che hanno bruciato decine di miliardi di risparmi?» Franco Citterio, direttore generale dell’Associazione Bancaria Ticinese, ha una lunga esperienza nell’universo bancario per antonomasia, appunto quello svizzero, e ha appena completato l’ennesimo road show tra banche e imprese per spiegare motivi e conseguenze dei sofferti accordi messi a punto nella città del nord del suo paese. «Lo sa qual è stata la cosa più difficile? Far capire agli imprenditori che Basilea 2 non è nata per iniziativa delle banche, come a creare qualche ulteriore problema nella concessione dei crediti, ma su iniziativa delle istituzioni centrali e delle autorità di controllo, con l’appoggio dei governi dei principali paesi industrializzati».
Perché è importante questa precisazione?
«Perché dell’accordo probabilmente resteranno vittima anche alcune banche piccole, oppure gestite secondo criteri, diciamo così, all’antica, cioè senza troppi controlli sulla qualità del credito. E d’altro canto, dal lato cioè di chi il credito lo prende, risulteranno spiazzate le industrie che a loro volta non avranno già messo a punto tutte le adeguate procedure di corporate governance interna, di sana finanza, di conti chiari».
Ma perché? Quali sono i meccanismi messi in piedi dalla nuova architettura di regolazione?
«A differenza di Basilea 1, che esiste dai primi anni 80 e che si limitava a dire che ogni banca doveva accantonare a titolo di sicurezza l’8% del patrimonio, quest’accordo introduce un importante elemento qualitativo: non basta più evidenziare la semplice somma dei crediti in essere, per la banca, ma occorre chiarire a chi sono stati prestati questi soldi. L’ammontare degli accantonamenti prudenziali verrà deciso in base ad una serie di algoritmi e sostanzialmente adeguato alla rischiosità delle operazioni intraprese».
Insomma, chi ci guadagna e chi ci perde?
«C’è una considerazione di fondo: tutte le banche, grandi e piccole, dovranno mettere in piedi una loro struttura equivalente a quelle di cui dispongono le agenzie internazionali di rating, di valutazione. Dovranno essere cioè perfettamente consapevoli delle caratteristiche, dei precedenti, della solvibilità di ogni singolo cliente, al quale assegneranno un voto. Dal rating discenderà il tasso applicato, e anche gli accantonamenti di rischio da effettuare. Per far ciò serve una struttura dedicata di analisti, specialisti dell’analisi dei crediti, e via dicendo. Le maggiori banche, per parlare delle nostre dall’Ubs al Credit Suisse, questa struttura la stanno mettendo insieme da tempo, e in molti casi è già completata. Tutte le altre se la dovranno costruire in tutta fretta, e saranno investimenti che non tutti saranno in grado di sostenere».
Ma sarà obbligatorio per tutti adempiere a questi impegni?
«Le nuove norme varranno di principio per tutti i paesi e per tutti gli istituti di credito che vorranno far parte della finanza internazionale». Un’altra critica, velatamente avanzata perfino dal ministro Tremonti, è che le nuove norme penalizzeranno le piccole aziende, che troveranno con molta maggior difficoltà chi presterà loro soldi a tutto detrimento dello sviluppo nel suo complesso…
«E perché? Le strutture di valutazione delle banche esistono proprio per questo. Anche un’azienda poco nota, piccola e sconosciuta, può essere solida, affidabile, tempestiva nei pagamenti. Spesso molto di più di una grande realtà, apparentemente più solida. Tutto starà nel rating che sarà assegnato dalla banca sulla base di valutazioni oggettive».
Ma qui in Svizzera, la terra delle banche, ci sono stati casi clamorosi in cui un fallimento bancario ha provocato una crisi quasi sistemica, come la Bcci a Londra o il Banco Ambrosiano in Italia?
«Oh, certo, più di uno. Ricordo che negli anni 80 a Losanna finì sull’orlo del fallimento la banca cantonale Vodese, a causa del crack di un importante cliente del settore vinicolo. In questo caso dovette intervenire con un cospicuo salvataggio lo stesso Cantone di Vaud. Altro caso eclatante fu negli anni 90 quando vari istituti creditizi ebbero grosse difficoltà in seguito alla crisi del settore immobiliare, in particolare a Ginevra. Le banche si trovarono esposte in modo sproporzionato al valore degli immobili, e alla fine le perdite complessive superarono i 40 miliardi di franchi svizzeri. Ecco, Basilea 2 dovrebbe contribuire a fare in modo che questi casi non si verifichino più».
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/05/rapportobanche/052kappio.html
 
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Ricavi e margini in risalita e la Borsa ha favorito la rivalutazione dei portafogli"


Elio Faralli, presidente di Banca popolare Etruria e Lazio, come stanno le banche italiane? C’è la ripresa o siamo ad una nuova strozzatura dei business?
«Il 2003 ha portato incrementi dei ricavi, del margine di interesse e da servizi. L’andamento delle Borse è stato un altro fattore positivo, per la rivalutazione dei portafogli. D’altra parte permangono difficoltà oggettive che rendono complessa la contingenza anche per chi fa credito».
Concorda con chi dice che il modello di Banca universale non funziona più?
«Questa esperienza non ha dato i frutti sperati e ha spinto gli operatori a una crescita dimensionale che di per sé non garantisce più efficienza, creando strutture ad alta complessità e poco vicine alle esigenze dei clienti. Il rischio di conflitti d’interesse è un altro dei fattori che mina le fondamenta del modello».
Cosa c’è di alternativo?
«Un modello di banca regionale che premi la personalizzazione e la vicinanza ai clienti. C’è una riscoperta delle banche locali: dopo i recenti crac il cliente vuol essere seguito e indirizzato a gestioni del risparmio che non guardino solo al rendimento, ma facciano della diversificazione il punto di forza».
Alla luce di queste dinamiche e dell’indebolimento di molti banchieri sotto inchiesta, può aprirsi una seconda fase di consolidamento?
«Va sviluppato piuttosto il midcorporate banking, armonizzando l’intermediazione al sistema produttivo delle Pmi. Un modello che unisca storie e identità comuni, in cui le banche accompagnino l’azienda in un percorso di crescita che tocchi anche la governance. La banca locale è e sarà vincente».
Quale futuro per le Banche popolari, di cui lei presiede l’associazione? Molte paiono a un bivio: crescere o accartocciarsi.
«Il cliente cerca più fiducia, quindi vicinanza al territorio e capacità di rispondere alle esigenze, tipica delle popolari, rimarranno strategiche. Non conta la dimensione, ma la capacità di dar voce alle specificità. Il gap dimensionale tra grandi e piccole banche può esser molto ridotto dallo sviluppo tecnologico e dalla diffusione della cultura bancaria».
Niente fusioni quindi tra popolari o, peggio, con le spa?
«E’ ben difficile che le fusioni mantengano le peculiarità dei soggetti coinvolti. L’opportunità, per le Popolari, è consolidare e arricchire il localismo, intensificando e qualificando l’offerta senza limitarsi alla crescita di mole. Vedo come nuova frontiera le strutture federali, dotate di più respiro sul mercato internazionale: come un cervello che produce hardware il cui software applicativo resta alle banche locali».
(a.gr.)
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/05/rapportobanche/052kesler.html
 
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La creazione di Intranet è il fenomeno di punta della telematizzazione che procede a ritmi intensi

Banche, boom di "reti interne" per favorire le concentrazioni

GIANLUCA SIGIANI

Non c’è dubbio: l’Italia è un paese di navigatori (di Internet) ma anche di correntisti (online). Secondo una ricerca a carattere europeo commissionata da Unicredit Banca a NielsenNetratings e Commstrategy, gli italiani che nel 2003 hanno frequentato le "aree riservate" dei web degli istituti di credito sono stati circa quattro milioni. L’anno scorso l’incremento degli utenti dei servizi bancari e di pagamento online del nostro paese è stato quasi doppio (1, 2 milioni persone in più) rispetto a quello già cospicuo dei fruitori della Rete (675. 000 nuovi utenti Internet), con una crescita (+10, 3%) superiore alla media europea (+9, 2%). Il committente della ricerca ricopre il primo posto fra le "banche via Internet" con una quota di mercato pari al 18%. La telematizzazione degli istituti di credito e dei loro clienti procede dunque a passo spedito. Ma di che tipo sono questi strumenti e qual è lo stato dell’arte in questo mercato? Il progressivo impiego della Rete e, più in generale, della multicanalità (la capacità d’interagire con la clientela attraverso varie fonti) costituiscono senz’altro uno dei "filoni" più importanti. Molte società dell’Information Technology hanno sviluppato doti da system integrator (e sono quindi in grado di combinare componenti e sistemi tecnologici differenti, così come processi e competenze) anche in sintonia con le esigenze del mondo creditizio. "In questo ambito assembliamo le migliori tecnologie di terze parti — dice Enrico Toson direttore marketing Emea per il mercato banche e assicurazioni di Hp Italia — , e con le nostre soluzioni di management siamo in grado di monitorare tutta la catena dei processi bancari; possiamo così misurare i livelli di servizio che vanno dal back office sino alle performance del web e dei call center ed individuare gli eventuali punti critici". Altro caso interessante viene da Cedacri, gruppo specializzato nel fornire al settore bancario (opera con oltre cento istituti di credito) servizi in outsourcing (gestendo cioè "dall’esterno" i processi delle aziende clienti) utilizzando in particolar modo Asp (Application service providing), la modalità che consente di "noleggiare" a costi contenuti l’utilizzo online di piattaforme software. Ulteriore "fenomeno di punta" che riguarda l’informatizzazione e la comunicazione interna degli istituti di credito è quello delle Intranet, le reti aziendali basate sul web su cui possono "girare" moltissime applicazioni. "Le banche stanno attraversando un periodo di trasformazioni e concentrazioni societarie — ci ha detto Gianfranco Vezzaro, responsabile sviluppo mercato di Webegg, system integrator italiano — ; un’Intranet adeguatamente studiata può rafforzare la Corporate Identity, armonizzare le diverse culture aziendali e conformare i processi operativi in un unico modello. Con Abi Lab e Mip — Politecnico di Milano, stiamo per presentare il primo studio in Italia sulla diffusione delle Intranet nelle banche e lanciare un osservatorio permanente". Un’altra problematica cruciale e "in progress" per la sfera creditizia è quella relativa a Basilea 2. Com’è noto, la direttiva internazionale così denominata imporrà alle banche di accantonare quote di capitale proporzionali al rischio derivante dai vari rapporti di credito assunti. Tale rischio verrà valutato applicando lo strumento del rating alle aziende debitrici. La direttiva dovrà essere attuata entro la fine del 2006, ed entro quel periodo dovranno anche essere adeguati i sistemi informatici bancari. Il discorso coinvolge soprattutto le tecnologie di back office, quelle che presiedono ai processi strutturali delle aziende. Fra gli altri quindi, anche quella che viene considerata la "madre" dei software gestionali, Sap, s’è mossa per affinare la propria offerta. "In vista dell’entrata in vigore delle nuove regolamentazioni — dice Gustavo Manfredini, responsabile della business unit financial services di Sap Italia — abbiamo dotato la nostra soluzione per le banche con tutte le procedure di calcolo previste da Basilea 2 per il rischio di credito, dall’approccio standardizzato a quello più avanzato basato sui rating interni". Anche la gestione dei documenti bancari verrà toccata dalla nuova direttiva: Filenet, multinazionale dell’enterprise content management, per parte sua, ha potenziato la propria soluzione "principe". Infine Basilea 2 andrà a coinvolgere anche i meccanismi della business intelligence, la raccolta e l’analisi dei dati ‘interni’ relativi ai clienti e volta a sviluppare il business. "Abbiamo cercato di realizzare il meglio sul piano dei sistemi analitici per il controllo del rischio operativo anche in vista di Basilea 2 — dice Walter Lanzani di Sas Italia, nota società di business intelligence — . D’altra parte per le banche le soluzioni più efficaci sono quelle che integrano l’esperienza di molteplici progetti e che si basano su una tecnologia di modelli dimensionali e analitici".
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/05/rapportobanche/053kaloria.html


Basilea 2

Cosa cambia nei software degli istituti


L’insieme delle nuove regole internazionali note col nome di Basilea 2, riguarda tutti i tipi di rischio bancario, da quello relativo al credito a quello di mercato, ma l’accento è posto in particolare sulla gestione avanzata del rischio operativo, quello legato cioè a carenze ed errori nel controllo dei processi interni, nella sicurezza delle informazioni, nella continuità dei sistemi, nella capacità di reazione ad eventi esterni. Ciascuno di questi fattori di rischio, de facto, richiederà nella maggior parte dei casi, per essere affrontato razionalmente, l’ausilio delle tecnologie informatiche. L’ottimizzazione del controllo dei processi interni prevederà soprattutto l’aggiornamento dei sistemi gestionali di tipo Erp (Enterprise resource planning), così come la sicurezza delle informazioni richiederà firewall (sistemi che controllano gli accessi alle reti dall’esterno) ancor più sofisticati e software di intrusion detection (che si occupano di identificare le presenze non autorizzate in un computer o in una rete aziendale) ancor più analitici e "sensibili". La continuità del funzionamento dei sistemi (business continuity) imporrà soluzioni di storage ("archiviazione") evolute, come la dislocazione dei dati aziendali in località distanti fra loro su sistemi collegati da reti ad alta velocità. La pronta reazione agli eventi esterni potrà essere garantita da architetture informatiche di tipo realtime enterprise capaci di avere tempi di risposta prossimi allo zero.
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/05/rapportobanche/053kocomero.html
 
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Ma negli ultimi tempi ci sono meno frizioni. Anche perché il sistema postale offre agli istituti di credito buone possibilità di guadagno. Il gruppo pubblico migliora i conti nel 2003 e si prepara a una privatizzazione parziale

Banche e Poste nemicheamiche

ADRIANO BONAFEDE

Collaborano ma sono concorrenti. Vanno d’accordo ma ogni tanto litigano. In una parola, sono nemiciamici. Stiamo parlando delle banche da una parte e delle Poste dall’altro. In particolare del Bancoposta, la divisione "bancaria" delle Poste Spa, che vive un perenne rapporto conflittuale con il sistema bancario. E si capisce: il Bancoposta vende gli stessi prodotti bancari, alcuni dei quali confezionati dagli stessi istituti di credito. Inoltre, tutto ciò che attiene al credito non può essere erogato direttamente dal Bancoposta (altrimenti diventerebbe a tutti gli effetti una banca). È lo stesso Bancoposta a trovare degli accordi con vari istituti di credito per erogare prestiti, la cui istruttoria avviene comunque nelle banca scelta come partner.
Dunque il Bancoposta lavora molto con le banche, che ricavano la loro parte di guadagno da questa collaborazione. Però, nonostante tutto, quando si parla di Bancoposta, presso gli istituti di credito scatta sempre un riflesso condizionato. Il timore è che le Poste controllate per il 65 per cento dal Tesoro e per il restante 35 dalla Cassa depositi e presti (sempre del Tesoro) usino la loro incredibile potenza di fuoco per fare una concorrenza selvaggia alle banche.
Dunque la paura nel mondo creditizio è tanta. E si è manifestata in passato in molti modi. Ad esempio negando agli assegni delle Poste la validità presso le banche. Oppure chiedendo alla Posta per i pagamenti effettuati dai clienti con il bancomat agli sportelli postali una commissione. Infine, negando al Bancoposta la possibilità di utilizzare direttamente il circuito nazionale bancomat; cosa che ha obbligato il Bancoposta ad aderire con un costo supplementare al circuito Maestro, che raggiunge lo stesso scopo (da notare che anche le banche aderiscono al circuito Maestro ma solo per i pagamenti effettuati al di fuori dei confini nazionali).
Alcuni di questi problemi sono adesso risolti (gli assegni sono accettati anche in banca e l’Abi l’Associazione bancaria italiana ha rinunciato a chiedere una commissione anche per i pagamenti dei conti correnti effettuati con il bancomat agli sportelli postali), ma una certa diffidenza permane. Anche se, a livello singolo, gli istituti di credito fanno letteralmente a gara per aggiudicarsi la vendita di alcuni prodotti (tra cui quelli creditizi). E siamo solo agli inizi di una maggiore collaborazione tra Poste e istituti di credito. Di recente Mediolanum ha deciso di utilizzare il "Conto Bancoposta Impresa", che consente ai promotori finanziari di utilizzare gli uffici postali per i pagamenti. «La nostra rete aggiunge Massimo Sarmi, amministratore delegato delle Poste è disponibile per svolgere funzioni di sportello per gli istituti di credito che non li hanno». Una possibilità ancora tutta da esplorare da parte del sistema bancario.
Comunque i rapporti tra i due mondi sono oggi più cordiali. Sarà perché ormai la privatizzazione delle Poste non è più nell’agenda politica, dopo il tanto parlare che si è fatto negli anni passati. E quindi, per le banche, non si profila la nascita di un nuovo e temibile istituto di credito. Lo scorporo del Bancoposta e la sua collocazione in Borsa, che alcuni anni fa sembrava possibile, ora sembra quasi impossibile, alla luce degli infiniti intrecci fisici e societari con il servizio postale, con cui condivide gli uffici. «Al momento dice Sarmi la tesi più accreditata è che si proceda verso una parziale privatizzazione dell’intero gruppo Poste Spa sul modello olandese».
Del resto i conti che presenta Poste Spa rendono possibile una privatizzazione. L’utile, finalmente emerso nel 2002 con 22 milioni di euro, è stato confermato anche nel 2003, anche se i dati ufficiali non sono ancora disponibili. È significativo, però che il rapporto fra Mol (margine operativo lordo) e ricavi sia del 14 per cento, contro il 12 degli olandesi e l’11 dei tedeschi. Questo rapporto è cresciuto del 43 per cento nell’ultimo anno (era al 10 nel 2002), consentendo alle Poste italiane di scavalcare le altre due. Certo, il fatturato (8 miliardi) resta molto distante da quello dei tedeschi (circa 40) e olandesi (circa 13).
La redditività delle Poste potrebbe essere superiore se lo Stato restituisse tutta la cifra stabilita per lo svolgimento del cosiddetto "servizio universale" che assicura la ricezione e la spedizione della posta anche nelle zone che non è economico servire. Questo servizio costa infatti alle Poste 940 milioni di euro, ma lo Stato ne restituisce soltanto 400. L’utile deriva quindi dall’attività sui servizi finanziari (dunque dal Bancoposta, che è la vera gallina dalle uova d’oro del gruppo pubblico) e da altri servizi innovativi rivolti soprattutto alle imprese e alle pubbliche amministrazioni con l’obiettivo di semplificare la vita ai cittadini. Un esempio è dato dalle comunicazioni per il pagamento delle multe (un servizio destinato ai Comuni) .
La logistica, rafforzata negli anni scorsi con l’acquisto del corriere Sda, non dà per ora grandi risultati: «È un business difficile dice Sarmi fatto di grandi volumi e redditività modesta». E tuttavia anche questa attività è stata rafforzata all’estero grazie ad accordi con Federal Express (Usa) e La Poste (francese).
Su cosa puntano le Poste per il futuro? «Poste Italiane, con la sua capillarità fisica e con i suoi molteplici canali di accesso si propone di semplificare la vita delle persone. Poiché i volumi postali sono sostanzialmente stazionari dice Sarmi cerchiamo di essere più presenti sui nuovi servizi: finanziari in primo luogo (dunque Bancoposta, NdR), di logistica, di elettronica, e per la pubblica amministrazione».
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/05/rapportobanche/054kalogero.html
 
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Nel 1991 le famiglie italiane avevano debiti per il 29,9 per cento del loro reddito, nel 2002 questa percentuale è salita al 35,3

Gli italiani s’indebitano di più (ma non è per forza un male)

NICOLA DE BLASIO

Il credito al consumo ha avuto un autentico boom in Italia negli ultimi 10 anni. Se nel 1991 le famiglie italiane erano indebitate per il 29,9 per cento del loro reddito, nel 2002 la soglia è salita al 35,3 per cento, con una crescita di 17,1 punti. Questo significa che a fronte di un reddito medio di 40.000 euro l’anno, una famiglia tipo italiana è indebitata per circa 13.000 euro. Una cifra che può sembrare alta, ma che invece è molto lontana dai livelli del Giappone, dove le famiglie sono indebitate per il 139 per cento del loro reddito disponibile, o della Gran Bretagna (128) o Stati Uniti (112). E nei primi sei mesi del 2003 il credito al consumo ha visto un’ulteriore crescita del 15,8 per cento.
Cosa spinge gli italiani a chiedere prestiti? I motivi sono essenzialmente tre: la crisi economica che da alcuni anni ha ridotto i redditi personali, portando il risparmio delle famiglie a scendere da 104 miliardi di euro nel 2001 a 77 nel 2002; i tassi di interesse molto più bassi del passato, grazie all’introduzione dell’euro; una maggior facilità ad avere credito rispetto agli anni 80 e 90.
Per le banche e le società finanziarie questa forte propensione all’indebitamento da parte delle famiglie è una manna dal cielo, perché in un periodo di vacche magre sul fronte della raccolta e degli investimenti finanziari, gli impieghi (i prestiti) sono una fonte di ricavi eccezionale. "Quando la propensione agli investimenti scende, è chiaro che le banche si rivolgono ad altri strumenti che possano sostituire la raccolta. Il credito è uno strumento molto importante per le banche per fare reddito" dice Edoardo Giorgetti, direttore marketing e strategia di Banca Fineco.
Il business è portato avanti dalle banche e dalle società finanziarie. Queste ultime fanno la parte del leone con circa il 70 per cento dell’intero mercato. Le banche hanno tassi di interesse più contenuti, ma una minor elasticità nell’erogare il credito; le seconde con tassi più alti e con maggior aggressività nel proporsi. "Per chi ha bisogno di soldi, conviene sempre andare in banca, dove i tassi sono decisamente migliori" dice Mauro Novelli, segretario organizzativo dell’Adusbef, una delle associazioni di difesa degli utenti finanziari.
Nonostante la forte crescita degli ultimi anni, le prospettive per il mercato del credito al consumo restano buone. "Rispetto al passato la richiesta di credito non è più vissuta come un disagio, un’ammissione di povertà o di debolezza. Quindici anni fa pochi compravano un auto a rate, oggi quasi nessuna la compra in contanti" dice Maurizio Liuti, responsabile relazione esterne di Crif, principale Credit Bureau del sistema creditizio. "Fino a 10 anni fa, l’unico prestito abbastanza strutturato al credito era il mutuo casa. Oggi il 50 per cento degli acquisti di auto o di arredamento sono finanziati da prestiti. Ed essendo cambiato l’approccio degli italiani al credito al consumo, questo diventa oggi un elemento di ripresa dei consumi interni e quindi di ripresa economica, visto che i consumi sono in calo" aggiunge Liuti.
"Il boom del credito al consumo continuerà anche nei prossimi 2/3 anni almeno" dice " dice Jean Yves Bruna, amministratore delegato di Fiditalia. "In Italia è in atto un’evoluzione culturale importante. La crescita del credito al consumo è alta ma potrebbe essere molto più alta. Il legislatore non deve demonizzare il credito al consumo perché ne deriverebbe un intralcio alla stessa crescita economica".
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/05/rapportobanche/054kele.html


Il ricorso a strumenti complessi ha consentito di far fronte a nuovi compiti ma ora si cerca di tenere sotto controllo il rischio indebitamento

Enti locali, una rivoluzione nella finanza

ROSARIA AMATO

Le riforme hanno ampliato i compiti degli enti locali territoriali, che si sono però trovati con mezzi economici minori, soprattutto per via della costante diminuzione dei trasferimenti statali: il risultato è un sempre maggiore indebitamento. A fine 2003, secondo dati forniti nel corso di un’audizione davanti alla commissione Bilancio del Senato dal direttore generale del Tesoro Domenico Siniscalco, il debito delle amministrazioni locali ammontava a 98. 992 milioni di euro. «Il debito degli enti territoriali — osservava Siniscalco nel corso della stessa audizione — mostra una dinamica crescente, che è il frutto di un processo di decentramento e di conferimento di una più ampia autonomia gestionale, la quale trova il suo naturale corrispettivo in una maggiore responsabilità degli amministratori».
E’ rispetto a queste nuove esigenze che, dal ‘96 a oggi, da quando cioè il quadro normativo lo ha permesso, gli enti locali hanno utilizzato un ventaglio sempre maggiore di strumenti finanziari: emissioni obbligazionarie (boc, bor, ecc), cartolarizzazioni, strumenti derivati. Il tutto, a fianco dei tradizionali mutui, che non vengono concessi però soltanto dalla Cassa Depositi e Prestiti (che nel frattempo è stata trasformata in una società per azioni) ma anche da una serie di istituti bancari specializzati.
Enti dunque più attivi nella gestione del proprio debito, ma anche più esposti a rischi, che non sempre gli amministratori locali sono in grado di valutare. «Gli enti locali, a differenza delle aziende — ammette Francesco Pratesi, responsabile marketing derivati BNP Paribas — non hanno avuto la possibilità di sviluppare competenze in questi settori, e quindi si sono dovuti appoggiare alle banche per il ruolo di consulenza. Tuttavia, anche per i derivati, che gli enti locali hanno cominciato a utilizzare nel ‘99, con un boom nel 2002 (al momento se ne fa uso in quasi tutti i capoluoghi di provincia) gli amministratori locali stanno acquisendo una maggiore autonomia valutativa: piano piano, l’utilizzo delle banche dovrebbe limitarsi sempre più alla fornitura del prodotto, non anche alla consulenza».
Forse adesso gli enti locali sono in grado di gestire meglio gli strumenti finanziari innovativi, ma sull’uso che se n’è fatto finora la Corte dei Conti ha espresso recentemente forti perplessità. In un’audizione alla Commissione Bilancio del Senato del 25 marzo il presidente della Corte, Francesco Staderini ha rilevato che «il ricorso ai prodotti derivati se in generale è stato funzionale alla copertura del rischio di cambio o di interesse, ha assolto spesso ad altre finalità, legate anche all’esigenza di disporre di liquidità a breve, tramite operazioni esposte al movimento avverso dei tassi, con esiti preoccupanti per la futura tenuta degli equilibri di bilancio».
Le banche protagoniste della gestione finanziaria più recente degli enti locali rivendicano però un ruolo responsabile nella consulenza e nella gestione del debito delle amministrazioni locali: «Noi diamo innanzitutto la nostra consulenza — spiega Elia Colabraro, amministratore delegato di Banca Opi (gruppo SanpaoloImi) — una volta consultata la consistenza del bilancio, suggeriamo la strada da battere. Ogni ente ha una storia a sé, l’importante è creare rapporti di fiducia reciproca. In linea di massima, ci siamo però astenuti dal perfezionare operazioni in derivati, perché si era in attesa della normativa (che adesso è stata pubblicata) e per evitare che gli enti venissero gravati da oneri futuri ai quali avrebbero potuto non essere in grado di far fronte. Quando verrà pubblicata la circolare ministeriale, ci muoveremo comunque con maggiore tranquillità anche in questo settore. Anche quello dei Boc e dei Bor è un filone operativo che sta crescendo in maniera consistente, agli enti pubblici conviene perché c’è una norma che prevede lo storno a loro favore della metà dell’imposta sostitutiva sugli interessi, che è del 12, 50 per cento. In questo momento l’esposizione degli enti locali per le emissioni obbligazionarie è di 14, 2 miliardi di euro, e le prospettive sono per una sensibile crescita».
La prudenza è comunque sempre necessaria quando si lavora accanto agli enti locali, riconosce anche l’amministratore delegato di Dexia Crediop Gérard Bayol: «In Francia non esiste la possibilità di commercializzare in derivati per gli enti locali, ma il caso dell’Italia mi sembra positivo, in fondo ogni tipo di prodotto presenta un rischio. Anche i mutui a tasso fisso possono diventare un errore quando il tasso è alto e poi nel tempo si modificano le condizioni di mercato. Comunque noi abbiamo sempre evitato i derivati di tipo puramente speculativo. Dal ‘96 a oggi c’è stata una rivoluzione nella finanza degli enti locali: questo è un vantaggio, ma poi nessuno ha la palla di cristallo, la volatilità del mercato non si può controllare e se la prevedibile risalita dei tassi non fosse graduale ma brusca, ci potrebbero essere delle difficoltà a farvi fronte».
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/05/rapportobanche/055kirco.html


abi

Impieghi in calo per l’incertezza del ciclo economico


I nuovi dati dovrebbero essere divulgati a breve, ma non dovrebbero esserci grosse novità. Stando all’ultimo bollettino mensile dell'Abi sull'evoluzione dei mercati finanziari emergono segnali di preoccupazione, in linea con quelli espressi da Bankitalia.
La dinamica degli impieghi a febbraio, infatti, segnala un calo in termini assoluti rispetto a gennaio di circa 5 miliardi a quota 1.026 miliardi, registrando ancora un tasso di crescita annuo che però si assottiglia e passa dal 5,3% di gennaio al 4,38% di febbraio. Diverse le ragioni del calo dei finanziamenti bancari che scontano innanzitutto l'incerto ciclo economico, nonché la contrazione della domanda di impieghi da parte della Pubblica Amministrazione (3,8% su febbraio 2003) e di altre istituzioni finanziarie (12%).
Positiva, invece, l'evoluzione del settore privato, imprese e famiglie, con un progresso del 7,7%, un valore, sottolinea, l'Abi che è "superiore di quasi un punto e mezzo percentuale rispetto a quanto segnato a gennaio 2003" e maggiore dell'attuale "crescita del Pil nominale in Italia e all'andamento degli investimenti".
Livelli che, malgrado la flessione, consentono all'Italia di avere impieghi con incrementi (+5,9% a gennaio, sulla base degli ultimi dati) più ampi della media dei paesi dell'area euro (+5,1%). Quanto ai tassi, a febbraio si registra un rialzo a quota 4,77%, 5 punti base rispetto al mese precedente.
Anche la raccolta evidenzia a febbraio segnali di rallentamento a quota 934 miliardi (5 miliardi su gennaio), pur conservando un incremento annuo dell'7,41% contro l'8,27% di gennaio. In termini assoluti, rileva ancora il rapporto Abi, i flussi netti della raccolta si attestano a oltre 64,5 miliardi negli ultimi 12 mesi. (a.f.)
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/05/rapportobanche/055kappella.html
 
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