Attenti, il lavoro debole ha almeno due facce
Il problema non sta tanto nell'esistenza di un'area di lavoro precario, quanto nella difficoltà di uscirne con la maturità professionale, accedendo all'area del lavoro protetto; e l'inaccessibilità di quest'ultima è conseguenza proprio dell'eccesso di rigidità della protezione. Sarebbe utile che le statistiche incominciassero anche a distinguere tra i due tipi di lavoratori coinvolti nel fenomeno del precariato, di cui proprio pochi giorni fa abbiamo discusso su queste pagine (Corriere del 14 marzo). Un problema è quello del lavoratore precario professionalmente forte, che ha soltanto la sfortuna di collocarsi in settori del mercato dove i posti di lavoro stabili, per vari motivi di natura istituzionale o sindacale, si bandiscono col contagocce: così nelle università, negli ospedali, nelle case editrici, in generale in tutto il settore pubblico; un problema di natura molto diversa è quello del lavoratore precario debole, che riesce a trovare un’occupazione soltanto sotto-standard perché è meno produttivo della media della sua categoria. La distinzione tra i due casi è molto importante, perché le rispettive possibili cure sono diverse; e se non si coglie la differenza si rischia di fare disastri. È dunque auspicabile che in futuro la Banca d'Italia e l'Istat facciano il possibile per rendere i due aspetti del lavoro precario meglio visibili, quantificabili e individuabili nella mappa del tessuto produttivo nazionale.
Il lavoratore precario professionalmente debole è solitamente occupato in settori, o margini del tessuto aziendale, caratterizzati da alta elasticità della domanda: cioè in zone dove a un aumento anche modesto del costo del lavoro corrisponde una riduzione rilevante della domanda. Qui, se l'intervento consiste nell'imporre uno standard di trattamento più costoso per l'azienda (e anche la stabilità costituisce un costo assai rilevante, a parità di retribuzione), esso può determinare la soppressione del posto di lavoro. Lo sanno bene - per esempio - i sindacati che nei call center sono costretti ad andare con i piedi di piombo nel rivendicare la regolarizzazione di migliaia di false collaborazioni autonome, per evitare il rischio di far perdere il posto a migliaia di giovani.
Nelle ultime settimane l'Unione col suo programma elettorale e la Cgil con le tesi approvate dal suo ultimo congresso hanno indicato come obiettivo generale di politica del lavoro la parificazione del costo dei cosiddetti lavori atipici rispetto a quello del lavoro regolare. Faranno bene anch'esse ad andare con i piedi di piombo su questo terreno, se non vogliono mietere vittime tra i precari. È questo un terreno sul quale l'uguaglianza non si garantisce con un tratto di penna del legislatore, ma va costruita nel vivo del tessuto produttivo con l'intelligenza delle analisi e con l'efficienza dei servizi di educazione, informazione, orientamento professionale, formazione mirata e assistenza alla mobilità geografica: i soli mezzi utili per neutralizzare l'handicap di cui soffre il lavoro debole.
Pietro Ichino
Bankitalia avverte: meno occupazione, più debito Il Bollettino economico: Italia ferma, indebitamento pubblico in salita dopo undici anni
ROMA - L’economia si è fermata. E la priorità non è più contrastare il rallentamento della crescita ma addirittura uscire dal ristagno. È un quadro tutto in ombra, senza luci, quello abbozzato dalla Banca d’Italia nel consueto bollettino di primavera. Un quadro che fa giustizia anche dell’ultimo, il più resistente elemento positivo della situazione, motivo d’orgoglio del governo Berlusconi, e cioè l’aumento dei posti di lavoro. L’occupazione a tempo pieno, per la prima volta dopo dieci anni, diminuisce. In realtà il numero dei lavoratori sale lievemente ma solo grazie all’espansione del part time . Tanto che l’indice misurato sulle unità standard (quelle a tempo pieno) di lavoro è diminuito dello 0,4%. E poi ci sono i giovani: per i nuovi assunti la metà dei lavori disponibili sono a termine e comunque tra i 15 e i 29 anni uno su quattro è precario. Sulla finanza pubblica le cifre sono ancora più amare: il debito pubblico nel 2005 è salito di 2,6 punti rispetto al Pil, più di quanto aveva previsto il ministero dell’Economia, al 106,4%. Un incremento del rapporto non si vedeva dal 1994. L’economia «è in affanno», aveva detto due settimane fa al congresso del Forex il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. Ieri l’analisi congiunturale dell’Ufficio studi di Palazzo Koch ha fornito i dati e le spiegazioni di tale difficoltà. Che parte da lontano ma che è peggiorata negli ultimi anni. Il bollettino non fa riferimenti specifici all’azione di governo. Anzi cerca di evitarli e utilizza quasi sempre, con poche eccezioni, come parametro temporale della sua analisi il decennio. Ma certo i grafici e le cifre indicano come negli ultimi anni si sia riusciti a fare ben poco per contrastare o frenare la tendenza negativa. Pur in un quadro congiunturale favorevole. Tanto per fare un esempio il male strutturale principale dell’economia italiana, la progressiva caduta della competitività, causata dal ristagno della produttività, ha subito un crollo verticale del 30% dal 2001 al 2004 contro deterioramenti più ridotti di Germania (6%) e Francia (13%). Ma non basta: il rallentamento dell’interscambio si è riversato sulla bilancia dei pagamenti annullando praticamente l’avanzo commerciale.
I conti pubblici preoccupano non poco gli economisti della Banca d’Italia che temono il rischio di un insuccesso delle misure di contenimento della spesa, necessarie per rispettare gli impegni presi il 14 marzo scorso con l’Unione europea. Il fatto è che per realizzare l’obiettivo bisognerebbe porre un tetto dell’1% all’aumento della spesa primaria corrente (nel 2005 è salita del 4%). E ciò vuol dire che in termini reali «essa dovrebbe segnare una flessione intorno ad un punto percentuale». Impresa quasi impossibile se si guarda all’esperienza del passato nonché ai dati storici custoditi nell’Ufficio studi di via Nazionale. Non è mai successo infatti che il governo riuscisse a tagliare così tanto la spesa complessiva: il massimo sforzo fu fatto negli anni dal ’93 al ’97 quando la spesa nella media salì dello 0,5% l’anno. Senza contare la necessità di «incidere in maniera permanente sui comportamenti degli enti pubblici». In particolare «occorrono regole di bilancio e meccanismi di finanziamento che rendano le amministrazioni decentrate pienamente partecipi dell’azione di riequilibrio dei conti pubblici».
È essenziale «ricondurre rapidamente i conti pubblici su un sentiero coerente con la stabile riduzione del rapporto tra debito e Pil anche in vista del fine più generale di trarre l’economia italiana dal ristagno». Lo sviluppo economico del paese nel corso dell’ultimo decennio «ha rallentato sino ad arrestarsi indipendentemente dallo svolgersi del ciclo mondiale». A fermarlo ripete la Banca d’Italia «sono stati i nodi strutturali che bloccano il sistema produttivo».
E la ripresa? Per il 2006 le previsioni indicano, conferma il bollettino, un incremento di poco superiore all’1%. Un risultato che presuppone un ritorno, già nel trimestre in corso, a ritmi di sviluppo vicini all’1,5% in ragione d’anno. In ogni caso tali segnali, dicono gli economisti di Palazzo Koch, «non delineano ancora un superamento del divario di crescita» di cui l’economia italiana soffre non solo rispetto agli Usa o alle economie emergenti dell’Asia, ma anche rispetto agli stessi paesi dell’area dell’euro pure attardati nel confronto internazionale. Per questo, insiste la Banca d’Italia, «occorrono azioni di lunga lena» volte a modificare incisivamente la struttura produttiva e l’ambiente regolamentare e di mercato in cui essa opera.
Stefania Tamburello
Impiego I giovani?
I dati sull’occupazione sono uno dei passaggi del Bollettino economico. Secondo Bankitalia il numero delle persone occupate è aumentato nel 2005 dello 0,2%, ma il lavoro complessivo, calcolato in unità standard a tempo pieno, è calato dello 0,4% soprattutto a causa dell'aumento dei part time. Rilevante il dato sugli occupati per condizione professionale dal quale emerge che tra i nuovi occupati tra i 15 e i 29 anni uno su due (il 49,8%) ha un contratto a termine. In aumento rispetto al 46,4% di un anno prima.
La precarizzazione del mercato del lavoro emerge anche dal dato sul totale degli occupati: il 40,5% dei nuovi assunti ha un contratto a termine invece che a tempo indeterminato (38,6% nel 2004).
Polemica Visco-Maroni sull’occupazione. «È in calo». «No, i posti sono aumentati» Tremonti: ma contano solo i numeri europei Rutelli: dopo quei dati non c’è spazio per la propaganda
ROMA - Era scontato che finisse così. Anche con tutto il rispetto per il nuovo Governatore Mario Draghi, l’autorevolezza e l’indipendenza dell’Istituto, riportate a galla da un accordo bipartisan sul vertice, il nuovo Bollettino della Banca d’Italia sullo stato dell’economia a tre settimane dalle elezioni diventa terreno di feroce scontro politico tra i due poli. Con l’opposizione che accusa il governo delle peggiori scelleratezze nella gestione dei conti pubblici, e il ministro dell’Economia che mostra indifferenza, sostenendo che per lui «i dati che contano veramente sono solo quelli di Eurostat».
SIGILLO DI GARANZIA - «Tutti i numeri sono rilevanti, ma quelli decisivi sono quelli europei», ha spiegato Giulio Tremonti. Gli stessi numeri, insomma, sui quali si è basata solo pochi giorni fa la Commissione Ue per promuovere l’ultima Finanziaria del governo Berlusconi. «Per me, per tutti i governi europei, la politica è basata sui dati Eurostat» ha aggiunto ieri il ministro. «Gli uffici studi dicono cose interessanti, ma la politica si fa sui dati europei...» ha sottolineato, sarcasticamente, Tremonti. Apparentemente ancora poco convinto che questo debba essere il ruolo di Bankitalia. Del resto anche ad Antonio Fazio il ministro rinfacciava le stesse cose, però con toni ben più aspri. «Un conto è rispondere agli uffici studi, un altro ai cittadini. Un conto è governare un Paese, un altro è giocare con un computer» gli disse in tv dopo aver ascoltato le valutazioni di Bankitalia sulla riforma delle pensioni.
FIDUCIA - Chi si fida invece ciecamente delle valutazioni di Via Nazionale sembra essere il centrosinistra, almeno per adesso. L’intero schieramento dell’Unione è stato lesto, ieri, a rilanciare in chiave critica nei confronti dell’esecutivo le analisi della banca centrale. Definita da Oliviero Diliberto «un pericoloso covo di comunisti, perché dice che il governo sta fallendo tutte le proprie misure». «Bisogna mettere a posto i conti perché c’è stato un incremento del debito fortissimo e i dati sono assolutamente preoccupanti», ha detto Romano Prodi, che come primo atto del suo eventuale governo ha già proposto una verifica «indipendente» sui conti pubblici.
Francesco Rutelli ha detto che «dopo i dati di Bankitalia non c’è più spazio per la propaganda», anche se poi ha promesso: «noi puntiamo fortemente sul taglio delle tasse sul lavoro per far ripartire la crescita economica e difendere il potere d’acquisto». Preoccupati anche i sindacati, che però mettono le mani avanti: «Per il rilancio occorre una politica forte, rigorosa, che però non vuol dire di sacrifici».
GIALLO SUL LAVORO - Per Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze e del Tesoro, «Bankitalia conferma che in cinque anni il centrodestra ha portato il bilancio in gravissima difficoltà, l’economia al ristagno e l’occupazione in calo». Aprendo, su quest’ultimo punto, una polemica nella polemica. Secondo il ministro del Welfare Roberto Maroni, «il numero degli occupati aumenta e la lettura che fa la sinistra del Bollettino Bankitalia è errata. Il calo delle unità lavorative a tempo pieno è una mera astrazione statistica: nella realtà i posti di lavoro nell’ultimo anno sono cresciuti dello 0,2%. Il tasso di occupazione è cresciuto e la disoccupazione diminuita».
Mario Sensini
corriere