ISTAT. Economia fragile e vulnerabile. L’Italia non aggancia la ripresa (1)
24/05/2006 - 14:27
La crescita del Pil è modesta. L'Italia non ha agganciato la ripresa mondiale perché esprime un potenziale di crescita inferiore. Il sistema economico resta vulnerabile e frammentario. È quanto rileva l'Istat nel Rapporto annuale 2005, presentato oggi a Roma, che fotografa la situazione del Paese.
L'ECONOMIA ITALIANA. Nel 2005 l'Italia è stata contraddistinta dal ristagno della domanda e dell'attività e il Pil ha registrato in termini reali una variazione nulla. Nell'arco dell'ultimo quadriennio l'economia italiana ha segnato un tasso di sviluppo medio pari ad appena lo 0,4 per cento all'anno. "La deludente performance italiana va inserita in un contesto che ha visto l'Europa crescere molto più lentamente di altre aree geografiche mentre lo sviluppo dell'economia mondiale si è mantenuto vigoroso (+3,4 per cento del Pil) - ha detto il presidente dell'Istat Luigi Biggeri - L'economia italiana non ha agganciato la ripresa mondiale perché esprime un potenziale di crescita inferiore (che dipende da fattori strutturali), pari a circa la metà dell'area dell'euro.
Se "il 2006 è iniziato con forti segnali di ripresa e un rafforzamento dell'espansione dell'attività economica - sottolinea l'Istituto di Statistica - tanto in Europa quanto in Italia (+ 0,6 per cento)", il sistema economico resta tuttavia vulnerabile e frammentario. "Rimane ancora relativamente debole il contributo dei consumi delle famiglie, in particolare per la componente dei beni non durevoli - rileva l'Istat - Il reddito disponibile è cresciuto debolmente negli anni per effetto di una contenuta dinamica delle retribuzioni reali (per molti anni al di sotto dei modesti incrementi di produttività) e del rallentamento della crescita dell'occupazione. Inoltre la produttività e la competitività delle nostre imprese sono ancora nel complesso molto modeste. Ciò testimonia la perdurante fragilità della nostra economia e potrebbe condizionare - in presenza di cambiamenti del contesto internazionale - la dimensione e la durata della crescita".
"A questi elementi di debolezza - ha detto Biggeri - si aggiungono fattori di vulnerabilità più specifici, quali l'esposizione ai rischi di ulteriore perdita di competitività e l'elevata dimensione del debito pubblico, che ci portiamo dietro da decenni". Lo scorso anno ha visto dunque un peggioramento della finanza pubblica, "con lo stock del debito pubblico rispetto al Pil che ha segnato nel 2005 un'inversione di tendenza" risalendo al 106,4 per cento (era il 103,8 per cento nel 2004). Biggeri ha inoltre sottolineato che l'avanzo primario si è ridotto nel tempo "fino quasi ad annullarsi nel 2005 per effetto di un consistente aumento della spesa pubblica primaria. Ciò - ha sottolineato - pone limiti molto forti alla possibilità di contribuire alla crescita attraverso la leva della spesa pubblica e rende necessarie misure strutturali per riportare il debito pubblico entro un sentiero di sostenibilità".
IL SISTEMA PRODUTTIVO. La diffusione delle microimprese e la specializzazione nei settori manifatturieri della meccanica strumentale e delle filiere dei beni per la persona e la casa rappresentano il fondamento della crescita italiana ma anche il suo fattore di vulnerabilità. "Nel contesto europeo - rileva l'Istat - le imprese italiane sono il 22 per cento del totale dell'Ue25 e pesano l'11 per cento in termini di occupazione. La loro dimensione è pari a circa la metà di quella media europea e la produttività è del 10 per cento inferiore".
La specializzazione italiana continua ad essere debole nei settori ad alta tecnologia e a elevata intensità di conoscenza. Le debolezze fanno dunque riferimento alla dimensione d'impresa e alla specializzazione. Se si guarda, per esempio, al settore manifatturiero, a fronte di una produttività del lavoro (cioè il valore aggiunto per addetto in migliaia di euro) pari al 57,6% del Regno Unito e del 56,5% in Germania, in Italia è solo al 42,3%. "Nonostante la bassa produttività il costo del lavoro contenuto - rileva l'istituto di statistica - mantiene la redditività delle imprese italiane in linea con quelle europee". L'impresa italiana "sopporta un costo del lavoro per dipendente decisamente più basso, in particolare nella manifattura, dove la differenza è pari a circa 9.000 euro con la Francia e 14.000 euro con la Germania".
Analizzando il movimento demografico delle imprese, il dato più rilevante degli ultimi anni è il declino della nascita di nuove imprese. Nel periodo 1999-2002 la natalità - rileva l'Istituto di Statistica - è comunque mediamente superiore alla mortalità e nel complesso il saldo del movimento demografico è positivo e pari a circa 40 mila imprese. Il sistema produttivo mantiene "un equilibrio vulnerabile", legato al "mantenimento di un basso costo del lavoro e al persistere di una specializzazione in settori tradizionali". Le imprese di eccellenza, che sono circa 25 mila nel periodo 1999-2004, sono presenti soprattutto nelle regioni del Nord-Ovest. Restano invece forti spazi di rendita nei settori più protetti dalla competizione internazionale" come nei servizi dove, rileva l'Istat, "sono presenti posizioni dominanti con ampia discrezionalità nella fissazione dei prezzi". Il panorama è dunque caratterizzato dalla compresenza di aree di vulnerabilità e segnali di vitalità. E "a quattro anni dalla nascita il 40 per cento delle imprese ha cessato l'attività con elevati costi economici e sociali".
2006 - redattore: BS
ISTAT. Un milione e mezzo di lavoratori a basso reddito e in famiglie disagiate (2)
24/05/2006 - 15:41
Occupazione tradizionale. Forte flessibilità degli orari. Alta disuguaglianza dei redditi. Difficoltà di accesso al mercato del lavoro per i giovani. E un milione e mezzo di lavoratori che vivono a basso reddito in famiglie disagiate. Sono i dati sul panorama lavorativo e sociale che emergono dal Rapporto Istat 2005 presentato oggi a Roma.
LAVORO. "Il modello occupazionale italiano è ancora caratterizzato da tassi di occupazione nettamente inferiori a quelli medi europei - ha detto il presidente dell'Istat Luigi Biggeri - ed è fondato sulla centralità dell'occupazione maschile adulta a tempo determinato, con alti livelli di esclusione dei giovani, delle donne e degli anziani". Nonostante una diffusione del part time inferiore alla media europea, la flessibilità degli orari è forte soprattutto fra i lavoratori autonomi. Solo un terzo dei dipendenti lavora full time da lunedì al venerdì, in ore diurne e senza turnazioni. Sempre più italiani lavorano dunque con orari flessibili: l'orario dalle 9 alle 17 vale solo per otto milioni di lavoratori, circa un terzo del totale, mentre per gli altri sono sempre più frequenti i turni, il lavoro nel week end e quello notturno. Grazie alla crescita dell'impiego nei servizi e alla liberalizzazione degli orari nel commercio è aumentato il numero degli addetti impiegati di sabato (il 48,8% del totale) e della domenica (18,8% del totale) mentre il 22,1 è impegnato di sera e l'11,2% di notte. Il 13,3% degli occupati fa i conti con i turni. Il lavoro "full time standard" riguarda quindi il 36,1% della popolazione ed è più alto tra i dipendenti (41%) che tra gli autonomi (22,6%) mentre lavorano full time ma a volte anche nei week end il 26,9% degli italiani (22,8 dei dipendenti e il 38,3 degli autonomi).
I soggetti più esposti a condizioni di vulnerabilità sono i lavoratori a basso reddito e gli anziani, i giovani che hanno difficoltà di acceso e stabilizzazione sul mercato del lavoro e i lavoratori con bassi livelli di istruzione o che non possono valorizzare il loro capitale umano. I giovani hanno difficoltà di accesso al mercato del lavoro e presentano rischi di disoccupazione più elevati rispetto agli altri gruppi demografici. Il differenziale fra il tasso di occupazione dei giovani fra i 20 e i 29 anni e gli adulti è di venti punti percentuali e superiore a quello europeo. "Soltanto in Italia - ha detto Biggeri - si hanno tassi di occupazione più bassi e tassi di disoccupazione più elevati per i giovani laureati rispetto ai corrispondenti valori europei".
"Ci sono oltre 4 milioni di lavoratori a basso reddito (al di sotto dei 700 euro mensili), di cui circa 1,5 vive in famiglie in condizioni di disagio economico - rileva l'Istat - Si tratta in prevalenza di giovani con redditi da lavoro autonomo; ma bassi redditi da lavoro sono presenti anche tra dipendenti con orari standard e a tempo determinato". I bassi redditi da lavoro sono più diffusi fra le donne (28 per cento contro il 12 per cento degli uomini), fra i giovani al di sotto dei 25 anni (36 per cento), fra chi ha un grado di istruzione inferiore alla licenza media (32 per cento) e fra lavoratori che operano nel privato (21 per cento).
Il nostro paese si trova fra i paesi europei con minore mobilità sociale (Francia, Germania, Irlanda) a differenza di Norvegia, Paesi Bassi e Svezia. È difficile passare da una classe sociale all'altra e le donne hanno una probabilità maggiore di quella maschile di permanere nella classe di origine. Nel 2005 "per la prima volta dalla metà degli anni Novanta il contributo delle donne all'aumento dell'occupazione - sottolinea l'Istat - è stato inferiore a quello degli uomini". La quota delle lavoratrici sul totale degli occupati è scesa dal 39,2% del 2004 al 39,1% del 2005 mentre nella Ue a 25 il trend è invece opposto. "Il contemporaneo forte incremento del numero di donne inattive residenti nel Sud e nelle Isole e di giovani che proseguono gli studi - evidenzia l'istituto di statistica - indica il diffondersi di fenomeni di rinuncia a intraprendere concrete azioni di ricerca di un impiego". Complessivamente "continua a rallentare la crescita dell'occupazione" e aumenta il tasso di disoccupazione, soprattutto tra i giovani (nel 2005 al 24%, con un incremento sul 2004 dello 0,4%). Sostanzialmente "le forze di lavoro risultano in crescita grazie agli stranieri regolarizzati".
REDDITI. Povertà stabile (7,6 milioni gli indigenti) negli ultimi otto anni in Italia, che resta però fra i paesi europei con più alto grado di sperequazione dei redditi. Questo vale soprattutto al Mezzogiorno, dove le famiglie percepiscono circa 3/4 del reddito delle famiglie che vivono al Nord. Pur con molta variabilità, una famiglia su due ha un reddito mensile netto inferiore a 1.670 ma ben un milione e mezzo di persone percepisce un reddito mensile basso, mediamente meno 783 euro, e vive in contesti familiari economicamente disagiati. Nel 2003 il reddito medio per famiglia è stato di 24.950 euro, circa 2.079 euro al mese. Il reddito è composto per il 43,1% da lavoro dipendente e per il 32,9% da trasferimenti pubblici (il 92% riguarda pensioni). Le famiglie che hanno come fonte principale il reddito da lavoro autonomo possono contare, in media, su entrate maggiori. Al sud di solito c'è un solo percettore di reddito, mentre al nord due o più. Le famiglie povere sono 2 milioni e 600 mila: l'emergenza riguarda il Sud dove una famiglia su 4 è povera e dove le persone povere nell'ultimo anno sono aumentate di circa 900 mila persone, interessando oltre 1.800.000 famiglie. Ci sono quattro gruppi di famiglie povere: coppie anziane, donne anziane sole, famiglie con persone in cerca di occupazione nel Mezzogiorno e famiglie con lavoratori a basso profilo professionale. Il modello verso cui si tende - rileva l'Istat - è quello in cui entrambi i coniugi lavorano.
PREZZI. L'inflazione, che si è mantenuta sotto controllo negli ultimi mesi, potrebbe risalire a causa delle pressioni salariali dal mondo del lavoro. Rischi sull'inflazione possono derivare dall'aumento del prezzo del petrolio e da un possibile rafforzamento dell'euro rispetto al dollaro. L'aumento dei prezzi fa stringere la cinghia degli italiani quando si tratta di cibo: il 25% delle famiglie compra meno pane e pasta mentre oltre il 30% meno carne, frutta e verdura; il 37,2% riduce l'acquisto di pesce; il 41,9% fa minori compere per l'abbigliamento e le scarpe. Il 15% opta per alimenti di qualità più bassa.
SERVIZI SOCIALI. Nel 2003 la spesa delle Amministrazioni pubbliche destinata agli interventi sociali (per le funzioni sanità, istruzione, assistenza e beneficenza) è stata pari a circa 3.000 euro pro-capite, in crescita di oltre 900 euro nell'arco 1996-2003. "A fronte di un valore medio per abitante di poco superiore a 3 mila euro annui - rileva l'Istat - permangono ampi divari territoriali di spesa sociale, con valori maggiori nelle regioni centro-settentrionali e minori in quelle meridionali". Nella sanità emergono modelli differenziati e si osserva una tendenza alla deospedalizzazione che però stenta a consolidarsi. Non accenna invece a diminuire il fenomeno della mobilità ospedaliera, soprattutto dalle regioni meridionali verso quelle del Nord. E nella maggior parte dei casi, alla base della scelta di "migrare" per farsi curare vi è la mancanza di centri adeguati nella propria regione, specie nel settore dei trapianti. Fra il 1999 e i 2003, sottolinea infatti l'Istat, la mobilità ospedaliera interregionale non diminuisce: la percentuale di dimissione di residenti ricoverati in un'altra regione passa dal 6,7% al 7,1%. Così, nel 2003 quasi 600.000 ricoveri, il 7% del totale di quelli ordinari per acuti, sono avvenuti in una regione diversa da quella di residenza del paziente. Le regioni che hanno flussi in uscita più consistenti di quelli in entrata sono quelle del Mezzogiorno (a eccezione di Abruzzo e Molise) e fra queste, le regioni con una percentuale d'emigrazione superiore alla media sono Campania, Basilicata e Calabria. La maggior parte delle regioni del nord e del centro, invece, hanno al contrario flussi di entrata più consistenti di quelli in uscita. Quanto ai tipi di interventi per cui la mobilità è particolarmente elevata, al primo posto ci sono i trapianti.
Negli ultimi anni è aumentata l'offerta formativa delle Università ma la riforma dell'università, afferma l'Istat, ha puntato "troppo sull'attività didattica che non sempre corrisponde alla richiesta del mercato" del lavoro; "è fondamentale - aggiunge -puntare sulla ricerca, motore dello sviluppo delle conoscenze e dell'economia". In generale, aumentano gli iscritti nell'anno accademico 2004/2005 e gli immatricolati, aumentano gli studenti in corso, "anche se gli abbandoni continuano a rappresentare un problema: circa uno studente su cinque non si iscrive al secondo anno".
"Il sistema del welfare - ha detto Biggeri - rimane caratterizzato da una forte incidenza delle spese per prestazioni monetarie, tra queste in particolare quelle per le pensioni, a scapito della componente dei servizi alla persona".
2006 - redattore: BS
ISTAT. Rapporto annuale: le polemiche delle Associazioni di Consumatori
24/05/2006 - 17:11
"Di fronte ai nuovi dati Istat sulla povertà sarebbe molto riduttivo affrontare il problema solo in termini di prezzi e tariffe, perché in realtà dimostrano che nel nostro Paese vanno riviste profondamente molte politiche, recuperando il primato dei diritti di cittadinanza e della persona, rispetto alle oramai asfissianti logiche di mercato, di consumi e di marketing che stanno dividendo sempre più l'Italia tra chi ha molto e chi non ha quasi niente o niente proprio". Questo il commento di Cittadinanzattiva che chiede al nuovo Governo di affrontare l'emergenza povertà in termini di sviluppo umano e non solo di sviluppo economico, occupandosi di milioni di cittadini che non hanno accesso a condizioni di vista dignitose e di farlo con l'aiuto delle organizzazioni d'impegno civico oltre a quelle dei consumatori, per sperimentare politiche di accesso ai servizi di pubblica utilità e forme concrete di sostegno al reddito e alle opportunità formative e di lavoro.
"Come per l'inflazione, anche in questo caso ci troviamo di fronte a dati sottostimati - afferma il Presidente Codacons Carlo Rienzi - Le famiglie che patiscono un disagio economico, che non riescono più ad arrivare a fine mese con lo stipendio, che presentano bilanci in rosso, che si indebitano anche per acquisti di piccola entità, sono assai più numerose di quelle registrate dall'Istat"."Finche affittare una casa costerà 600 euro al mese, un kg di ciliegie 10 euro, le tariffe rc auto o la benzina continueranno a subire aumenti, solo per fare qualche esempio - prosegue Rienzi - il numero delle famiglie in stato di disagio economico crescerà costantemente. Si impone dunque una riforma urgente nel settore economico e misure concrete mirate ad aumentare il benessere degli italiani e a far scendere i prezzi e le tariffe".
2006 - redattore: NZ
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