Rapporto ISTAT 2005

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È giunto alla 14a edizione il Rapporto annuale sulla situazione del Paese, il principale strumento di analisi sugli aspetti economici, demografici e sociali, prodotto ogni anno dall’Istat.

Organizzato in sei capitoli e arricchito da tavole statistiche e approfondimenti, il volume si concentra sull’analisi della congiuntura economica recente e sulle dinamiche del sistema produttivo e del mercato del lavoro. Esamina l’impatto che questi fattori generano sulle condizioni di vita delle famiglie e illustra l’offerta di servizi sociali a livello territoriale. La pubblicazione descrive inoltre la capacità del sistema delle imprese, delle famiglie e delle istituzioni italiane di gestire le conseguenze dei cambiamenti legati alla crescita dell’interdipendenza economica e finanziaria a livello mondiale, e di cogliere le opportunità di miglioramento della situazione economico-sociale che ne derivano.

La pubblicazione è corredata da una sintesi dei più significativi risultati e da un'appendice di tavole statistiche con indicatori economici e sociali. Per i giornalisti sono disponibili focus ragionati sui principali temi affrontati in ciascun capitolo.

La versione in formato elettronico del volume, la sintesi, l’appendice statistica e i focus per i media possono essere consultati e scaricati gratuitamente.
 
L'ISTAT: 1,5 MILIONI DI FAMIGLIE NON ARRIVA A 800 EURO AL MESE
ROMA - Povertà stabile (7,6 milioni gli indigenti) negli ultimi otto anni in Italia che resta però fra i paesi europei con più alto grado di sperequazione dei redditi. Questo vale soprattutto al Mezzogiorno, dove le famiglie percepiscono circa 3/4 del reddito delle famiglie che vivono al Nord. Lo rileva l'Istat nel rapporto annuale presentato oggi. Pur con molta variabilità, una famiglia su due ha un reddito mensile netto inferiore a 1.670. Ma ben un milione e mezzo di persone percepisce un reddito mensile basso, mediamente meno 783 euro, e vive in contesti familiari economicamente disagiati.

DISUGUAGLIANZE, ITALIA QUASI PRIMA IN EUROPA
- L'indice di concentrazione dei redditi (pari a 0,30) colloca in basso l'Italia, insieme a Portogallo, Spagna, Irlanda e Grecia. Il mezzogiorno è il più fragile in questo contesto non solo rispetto al nord ma anche all'interno delle proprie regioni. I fattori individuali che influenzano la distribuzione dei redditi sono il livello di istruzione, il genere, l'età. Le famiglie del 20% più ricco detengono il 40% del reddito totale.

COME SONO I REDDITI - Nel 2003 il reddito medio per famiglia è stato di 24.950 euro, circa 2.079 euro al mese. Il reddito è composto per il 43,1% da lavoro dipendente e per il 32,9% da trasferimenti pubblici (il 92% riguarda pensioni). Le famiglie che hanno come fonte principale il reddito da lavoro autonomo possono contare, in media, su entrate maggiori. Al sud di solito c'é un solo percettore di reddito, mentre al nord due o più.

CHI PERCEPISCE REDDITI BASSI - Il 28,2% delle donne contro il 12,3% degli uomini; il 36% dei giovani con meno di 25 anni; il 32% di chi ha un basso titolo di studio; il 21% delle persone che lavorano nel settore privato; il 40% dei lavoratori a tempo determinato. Ruolo importante è assunto anche dal numero di ore lavorate durante la settimana: è a basso reddito il 46,7% di chi lavora meno di 30 ore contro il 13% di quelli che ne lavorano almeno 30. Le donne con basso reddito vivono spesso in famiglie dove ci sono altri percettori di reddito. Oltre il 50% dei lavoratori a basso reddito opera nell'agricoltura, nella caccia e pesca e il 42% svolte professioni non qualificate.

POVERE 2 MILIONI 600 MILA FAMIGLIE - Sono l'11,7% del totale per complessivi 7,6 milioni di poveri. Si riferisce alla povertà relativa, quella misurata sulla base dei consumi, che dal 1997 al 2004 è rimasta invariata, pur essendo strettamente legata alla mancanza di lavoro e registrando negli anni un minimo del 10,8% ed un massimo del 12,3%. L'emergenza riguarda il Sud dove una famiglia su 4 è povera e dove le persone povere nell'ultimo anno, un record, sono aumentate di circa 900 mila persone interessando oltre 1.800.000 famiglie. La povertà interessa per lo più i nuclei con tre o più figli minori, le famiglie dove il riferimento è pensionato o donna, sia anziana o comunque sola.

MOBILITA' SOCIALE RIGIDA, ULTIMI POSTI PER L'ITALIA
- Il nostro paese si trova fra i paesi europei con minore mobilità sociale (Francia, Germania, Irlanda) a differenza di Norvegia, Paesi Bassi e Svezia. E' difficile passare da una classe sociale all' altra. Le donne hanno una probabilità maggiore di quella maschile di permanere nella classe di origine: è il caso delle figlie della classe operaia agricola e della borghesia.

PREZZI A RISCHIO CON ASPETTATIVE SALARIALI

L'inflazione, che si è mantenuta sotto controllo negli ultimi mesi, potrebbe risalire a causa delle pressioni salariali dal mondo del lavoro. E' l'allarme lanciato da Luigi Biggeri, presidente dell'Istat, nella presentazione del rapporto annuale. "L'accumularsi di aspettative di recupero salariale, in parte rese probabili dai ritardi dei rinnovi contrattuali e dall'incompleto recupero della perdita di potere d'acquisto - ha sottolineato Biggeri - può avere effetti destabilizzanti sulla dinamica dei prezzi e sul quadro macroeconomico". Il presidente dell'Istat ha anche ricordato i rischi sull'inflazione che possono derivare dall'aumento del prezzo del petrolio e da un possibile rafforzamento dell'euro rispetto al dollaro.

ITALIA NON AGGANCIA RIPRESA, POTENZIALE DIMEZZATO

"L'economia italiana non ha agganciato la ripresa mondiale perché esprime un potenziale di crescita inferiore, che dipende da fattori strutturali, pari a circa la metà dell'euro". Lo ha detto il presidente dell'Istat, Luigi Biggeri, presentando il rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2005. Il sistema economico italiano è costellato da "elementi di debolezza" ai quali "si aggiungono fattori di vulnerabilità più specifici, quali le esposizioni ai rischi di ulteriore perdita di competitività - ha sottolineato Biggeri - e l'elevata dimensione del debito pubblico, che ci portiamo dietro da decenni". Biggeri ha sottolineato anche la graduale riduzione negli anni dell'avanzo primario che "pone limiti molto forti alla possibilità di contribuire alla crescita attraverso la leva della spesa pubblica, e rende necessarie misure strutturali per riportare il debito pubblico dentro un sentiero di sostenibilità".

SISTEMA ECONOMICO RESTA VULNERABILE E FRAMMENTARIO
Se i primi mesi del 2006 l'economia italiana ha cominciato a girare in positivo il sistema resta strutturalmente "vulnerabile" e "frammentario". E' quanto evidenzia l'Istat nel Rapporto annuale che fotografa la situazione del Paese nel 2005. "Nel primo trimestre del 2006 - sottolinea l'istituto di statistica - l'espansione riprende forza". Ma alle spalle c'é un 2005 "stagnante" in cui la crescita in Italia ha segnato "una battuta d'arresto" a fronte di un'economia mondiale dove invece "la crescita nel 2005 si è mantenuta vigorosa". Meno drastico il divario di crescita, che comunque permane, se si fa il confronto tra l'Italia e gli altri Paesi dell'area euro. "Il nuovo episodio di arresto della crescita dell'economia del nostro Paese - rileva l'Istat - si è inserito all'interno di un quadro di indebolimento dell'attività diffuso tra i Paesi dell'area dell'euro. Il differenziale negativo del nostro Paese rispetto all'insieme dell'Uem, che aveva già raggiunto 0,9 punti percentuali nel 2004, si è ulteriormente allargato, salendo a 1,3 punti percentuali". In ogni caso la ripresa economica dovrà innestarsi in un sistema, quello italiano, dove la produttività è più bassa che in altri paesi e dove il potenziale di crescita - evidenziano gli esperti dell'Istat citando studi anche esterni all'Italia - è di circa la metà rispetto a quello dell'area euro. I problemi sono legati proprio a quella "frammentarietà" e "vulnerabilità" evidenziate dall'istituto di statistica. La pluralità di soggetti pronti a fare economia può essere un valore se c'é interazione. Quanto invece alla debolezza del sistema produttivo, gli statistici evidenziano che è una caratteristica diffusa e che situazioni anche positive nascondono in realtà un equilibrio precario.

LAVORO, DONNE SEMPRE PIU' FUORI. MAI COSI' DA ANNI '90
Nel 2005 il mercato del lavoro ha perso una quota di lavoro femminile determinando ''un ulteriore ampliamento del divario con l'Unione europea". Lo rileva l'Istat nel Rapporto annuale sulla situazione del Paese. Nel 2005 "per la prima volta dalla metà degli anni Novanta il contributo delle donne all'aumento dell'occupazione - sottolinea l'Istat - è stato inferiore a quello degli uomini". La quota delle lavoratrici sul totale degli occupati è scesa dal 39,2% del 2004 al 39,1% del 2005. Nella Ue a 25 il trend è invece opposto: "l'incidenza dell'occupazione femminile è infatti aumentata di due decimi di punto rispetto a un anno prima, portandosi nel 2005 al 44,2%". Le donne hanno contribuito alla diminuzione nel 2005 (del 3,7% pari a 72.000 unità) delle persone in cerca di lavoro. "Il contemporaneo forte incremento del numero di donne inattive residenti nel Sud e nelle Isole e di giovani che proseguono gli studi - evidenzia l'istituto di statistica - indica il diffondersi di fenomeni di rinuncia a intraprendere concrete azioni di ricerca di un impiego". Più complessivamente "continua a rallentare la crescita dell'occupazione", che invece era stata sostenuta a partire dal '95. E aumenta il tasso di disoccupazione, soprattutto tra i giovani (nel 2005 al 24%, con un incremento sul 2004 dello 0,4%). Sostanzialmente ''le forze di lavoro risultano in crescita grazie agli stranieri regolarizzati".

OGNI ANNO NASCONO MIGLIAIA IMPRESE, NE MUOIONO DI PIU'
Anche il mondo delle imprese ha il suo indice demografico che registra "il declino della natalità, sistematico a partire dal 2000" e, al contrario, "un andamento ascendente del tasso di mortalità ". Lo rileva l'Istat che snocciola al proposito gli ultimi dati a disposizione, quelli del 2002: "il bilancio demografico delle imprese italiane si è chiuso con un passivo di circa 21.000 imprese (circa 304.000 cessazioni contro circa 283.000 nascite)". Si tratta delle nascite e cessazioni reali di attività, al netto dunque di quello che l'Istat definisce il "rumore amministrativo", ovvero la registrazione di eventi che comportano solo formalmente la nascita o la cessione di un'azienda, come le fusioni, le scissioni, i cambiamenti di forma giuridica. Nel periodo 1999-2002 "il saldo del movimento demografico è risultato positivo e pari a circa 40.000 imprese". Il più alto tasso di turn-over riguarda le ditte individuali, che però restano stabili. Tengono invece le società di capitali, nelle quali "si rilevano la natalità più elevata (9,5%) e una bassa mortalità (6,0%)". In declino invece le società di persone e le cooperative che chiudono il quadriennio 1999-2002 con un saldo negativo di 31.000 imprese e 10.000 addetti in meno.

IMPRENDITORI IN ECCESSO MA PRODUTTIVITA' E' MODESTA

Il nostro sistema produttivo è caratterizzato da "un eccesso di imprenditorialità " e da un tasso di produttività "modesto", più basso di dieci punti percentuali rispetto alla media europea. Lo sottolinea l'Istat nel Rapporto annuale. Il modello produttivo resta dunque legato alle micro-imprese dove la specializzazione è "debole" proprio nei settori ad alta tecnologia ed elevata intensità di conoscenza, che risultano più forti rispetto alle pressioni concorrenziali internazionali, soprattutto dall'Asia, rispetto a quelli più tradizionali del made in Italy. Se si guarda, per esempio, al settore manifatturiero, a fronte di una produttività del lavoro (cioé il valore aggiunto per addetto in migliaia di euro) pari al 57,6% del Regno Unito e del 56,5% in Germania, in Italia è solo al 42,3%. "Nonostante la bassa produttività il costo del lavoro contenuto - rileva l'istituto di statistica - mantiene la redditività delle imprese italiane in linea con quelle europee". L'impresa italiana "sopporta un costo del lavoro per dipendente decisamente più basso, in particolare nella manifattura, dove la differenza è pari a circa 9.000 euro con la Francia e 14.000 euro con la Germania". La conclusione, dunque, è che la redditività di un'impresa resta tutta ancorata ai "vulnerabili", così li definisce lo stesso istituto di statistica, equilibri contrattuali.

TAGLIO CUNEO: BENE A COMPETITIVITA', NO A INNOVAZIONE
L'annunciata misura del taglio del cuneo fiscale può essere salutare ai fini della competitività delle imprese, ma "rischia di fornire un disincentivo all'innovazione". Lo ha detto il presidente dell'Istat Luigi Biggeri, nella presentazione del rapporto annuale. "Le misure in discussione sulla riduzione del cuneo contributivo - ha sottolineato Biggeri - forniscono segnali solo parzialmente coerenti con le esigenze di trasformazione del sistema delle imprese. La riduzione proposta di 5 punti percentuali dei contributi sociali, con un costo netto per il bilancio pubblico pari a circa 10 miliardi di euro - spiega il presidente dell'Istat - avrebbe l'effetto di ridurre il costo del lavoro e aumentare la redditività lorda di circa 2-3 punti percentuali se l'intero risparmio andasse a favore delle imprese. Ciò rappresenterebbe uno choc positivo in termini di competitività, ancorché una tantum. Questa misura rischia però - avverte Biggeri - di fornire un disincentivo all'innovazione di prodotto e di processo e al passaggio verso tecnologie più capital-intensive e, in assenza di meccanismi di selezione virtuosa, premerebbe sostanzialmente le imprese meno produttive". Per Biggeri anche "se una parte dei benefici fosse trasferita ai lavoratori, l'impatto sui redditi disponibili delle famiglie sarebbe comunque modesto, senza concentrarsi su quelle in condizioni di disagio a meno che non si limiti il provvedimento a gruppi target selezionati".

LAVORO, BOOM FLESSIBILITA'ORARI,SOLO 1/3 IMPIEGATO 9-18
Sempre più italiani lavorano con orari flessibili: il film "Dalle 9 alle cinque orario continuato" vale solo per otto milioni di lavoratori, circa un terzo del totale mentre per gli altri sono sempre più frequenti i turni, il lavoro nel week end e quello notturno. Grazie alla crescita dell'impiego nei servizi e alla liberalizzazione degli orari nel commercio è aumentato anche il numero degli addetti impiegati di sabato (il 48,8% del totale) e della domenica (18,8% del totale) mentre il 22,1 è impegnato di sera e l'11,2% di notte. Il 13,3% degli occupati fa i conti con i turni. Il lavoro "full time standard" riguarda quindi il 36,1% della popolazione ed è più alto tra i dipendenti (41%) che tra gli autonomi (22,6%) mentre lavorano full time ma a volte anche nei week end il 26,9% degli italiani (22,8 dei dipendenti e il 38,3 degli autonomi). Gli italiani - sottolinea l'Istat nel suo rapporto Annuale - lavorano in media 38,1 ore a settimana, oltre un'ora in più della media Ue a 15: ma il dato risente del basso livello del ricorso al part time nel nostro Paese (12,8% contro il 20,2 della media Ue) che alza la media delle ore lavorate. Nella sostanza invece un lavoratore a tempo pieno in Italia è impegnato per 40,6 ore, circa mezz'ora in meno della media europea. Il numero medio di ore lavorate è molto diverso se si considerano i lavoratori dipendenti e quelli indipendenti. Per i primi la media in Italia è di 36,5 ore a settimana (compresi quelli in part time) a fronte delle 35,6 della media europea. Per i lavoratori indipendenti la media di ore lavorate è di 42,4 ore contro le 43,5 dei lavoratori autonomi europei. Se il mercato del lavoro italiano avesse la struttura di quello dell'Ue a 15 - sottolinea l'Istituto di statistica - l'orario medio sarebbe del 3,9% inferiore a quello effettivo (per un'ora e 12 minuti). In Italia si lavora più ore soprattutto nelle aziende più piccole: in quelle con 10-49 addetti i lavoratori sono impegnati per una media di 1.744 ore all'anno (a fronte delle 1.621 dell'Ue a 15) mentre in quelle con una fascia dimensionale tra i 500 e i 999 ddetti i dipendenti sono impegnati per 1.592 ore (1.554 nella media Ue a 15). L'impegno orario torna a salire nelle aziende con oltre 1000 dipendenti con un orario medio di 1.634 ore all'anno (1.500 nella media Ue a 15). Uno stesso impegno lavorativo pro capite comunque può essere espressione di combinazioni molto diverse di orari e tassi di occupazione: a fronte di bassi tassi di occupazione e poco part time in Italia nei Paesi bassi si rilevano molti occupati e ampia diffusione del tempo parziale. Gli uomini lavorano in media molte ore in più delle donne (41 ore a fronte di 33,5) soprattutto a causa dell'utilizzo del tempo parziale dalla parte femminile del mercato. Ma anche se si considera solo il tempo pieno le donne lavorano in azienda circa quattro ore in meno degli uomini con una media di 37,9 a fronte di 41,9 ore. Un vantaggio immediatamente perso con il lavoro familiare: ogni giorno infatti le donne impiegano nel lavoro di cura in media circa 4,07 ore a fronte di un ora e cinquanta minuti degli uomini.
 
12 MILA IMPRESE CONTROLLO ESTERO, FANNO BENE A SISTEMA
Le imprese che operano in Italia ma che hanno un controllo estero hanno conquistato "un ruolo importante nella diffusione di nuove conoscenze e competenze, non solo di tipo scientifico ma anche di tipo organizzativo e manageriale, nonché di stimolo a una maggiore concorrenzialità nei mercati". Lo sottolinea l'Istat ricordando che queste imprese in Italia sono circa 12.000 e che occupano un milione di addetti. "Di notevole interesse - sottolinea l'Istat nel Rapporto annuale - sono anche le informazioni sui trasferimenti di conoscenze e competenze dall'Italia verso l'estero, che consentono di qualificare come investimento potenzialmente strategico una quota significativa delle imprese a controllo estero operanti in Italia".

PREZZI ALTI, 30% FAMIGLIE COMPRA MENO CARNE
L'aumento dei prezzi fa stringere la cinghia degli italiani anche quando si tratta di cibo: il 25% delle famiglie compra meno pane e pasta mentre oltre il 30% meno carne, frutta e verdura; il 37,2% riduce l'acquisto di pesce; il 41,9% fa minori compere per l'abbigliamento e le scarpe. Il 15% opta per alimenti di qualità più bassa. Emerge dal rapporto annuale dell'Istat che per la prima volta analizza il reddito e le condizioni di vita relativi al 2004.

DIDATTICA UNIVERSITA' NON RISPONDE A RICHIESTA MERCATO
La riforma dell'università ha puntato "troppo sull'attività didattica che non sempre corrisponde alla richiesta del mercato" del lavoro. E' quanto rileva l'Istat nel rapporto annuale sulla situazione del paese nel 2005, aggiungendo che è anche "fondamentale puntare sulla ricerca, motore dello sviluppo delle conoscenze e dell'economia". In generale, aumentano gli iscritti nell'anno accademico 2004/2005 che sono 1,8 milioni contro i 1,7 del 1999/2000 (+8,7%) e le immatricolati (quasi 332 mila con un +20,4% rispetto al 1999/2000). Aumentano anche gli studenti in corso, "anche se gli abbandoni - rileva l'Istat - continuano a rappresentare un problema: circa uno studente su cinque non si iscrive al secondo anno". I corsi attivi aumentano (+55%) ma nello stesso periodo il numero dei docenti cresce del 12%, con una riduzione del numero medio di docenti per corso (dal 24 a 17) e un corrispondente calo del rapporto tra studenti e docenti (da 32,3 a 31,2). Tra le notizie positive, l'aumento dei laureati, passati da 152 mila del 1999 a quasi 269 mila del 2004 (+92 mila nei nuovi corsi triennali, +4 mila circa nei nuovi corsi biennali).

SCUOLA: SEMPRE PIU'STRANIERI IN AULA, +152% IN 5 ANNI
La aule italiane sono sempre più affollate di alunni stranieri. In cinque anni il numero degli studenti con cittadinanza non italiana è aumentato del 152%, passando da 147 mila del 2000/2001 ai 372 mila del 2004/2006, con un incremento degli extracomunitari europei e del continente americano. E' quanto rileva l'Istat nel rapporto annuale con la situazione del paese nel 2005. Il numero di stranieri ogni cento alunni è salito, sempre in cinque anni, da 1,7 a 4,2, con una punta di 5,3 stranieri per cento iscritti nella scuola primaria. La presenza maggiore è di cittadini europei extra Ue (in totale 176 mila): di questi, il 90% vengono da Albania, Romania ed ex-Jugoslavia. Il 25% viene dai paesi africani (in diminuzione 2000/2001 quando erano il 29%) specie dal Marocco. Gli asiatici, in gran parte cinesi, sono il 15%, il 12% sud americani (Ecuador e Perù). Gli alunni stranieri sono presenti in netta maggioranza nelle scuole del Nord e del Centro e soltanto il 7% studia in istituti del Sud e il 3% in Sicilia e Sardegna. La Lombardia è la regione con più alunni non italiani (90 mila) ma è l'Emilia Romagna quella con maggiore incidenza : più di 8 studenti stranieri ogni cento iscritti, dieci nelle scuole primarie. Al Sud, Basilicata, Campania, Sicilia e Sardegna sono sotto l'1%. Per quanto riguarda l'offerta scolastica, gli istituti nel nostro paese sono 57.707 (anno 2004/2005 43% scuole dell'infanzia, un terzo le primarie, il 14% le medie, l'11% le superiori), il 78,8% dei quali sono pubbliche (si va dal 93% della Basilicata al 69,2% del Veneto. L'offerta di servizi di istruzione primaria e secondaria è sostanzialmente omogenea sul territorio, rileva l'Istat, anche se nel Mezzogiorno permane una minore offerta di servizi extra scolastici come mensa, scuolabus e spazi gioco.

SPESA SOCIALE REGIONI PARI A 1/4 SPESA PUBBLICA
Nel 2003 la spesa delle Amministrazioni pubbliche destinata agli interventi sociali (per le funzioni sanità, istruzione, assistenza e beneficenza) é stata pari a circa 3.000 euro pro-capite, in crescita di oltre 900 euro nell'arco 1996-2003. Nello stesso periodo, la crescita di questa voce di spesa è stata superiore in termini nominali alla crescita del Pil. Sono alcuni dei dati che si ricavano dal Rapporto Istat 2005, più esattamente dal capitolo dedicato alla spesa sociale nelle Regioni. Le dimensioni della crescita non sono omogenee nelle diverse aree geografiche e nei diversi settori in esame. La stessa incidenza della spesa sociale sul complesso della spesa pubblica é cresciuta in termini percentuali, nel periodo 1996-2003, dal 21,9 a quasi il 25% del totale. * SPESA PIU' ALTA NEL NORD-OVEST, PIU' BASSA IN SUD E ISOLE Gli incrementi maggiori della spesa sociale hanno riguardato il Nord-Ovest, circa 1.300 euro; i più bassi le regioni del Sud con 685 euro. Per quanto riguarda l'istruzione sono TRENTINO-ALTO ADIGE e VALLE D'AOSTA le Regioni che hanno registrato gli incrementi maggiori di spesa pro-capite, mentre per la sanità il primato spetta alla LOMBARDIA con un incremento di spesa quasi doppio rispetto al sistema delle Regioni. Per quanto riguarda l'assistenza l'incremento maggiore di spesa è stato del LAZIO, mentre SARDEGNA e ABRUZZO sono maglie nere, avendo registrato un decremento della spesa pro-capite anche in termini nominali. Il Rapporto Istat ha trovato una forte correlazione tra la spesa sociale media pro-capite e il Pil pro-capite: la spesa più alta è stata registrata nelle Regioni del nord e quella più bassa nel Mezzogiorno.

SANITA': DA SUD A NORD PER CURE, 7% RICOVERI FUORI CASA
Non accenna a diminuire il fenomeno della mobilità ospedaliera, soprattutto dalle regioni meridionali verso quelle del Nord. E nella maggior parte dei casi, alla base della scelta di 'migrare' per farsi curare vi è la mancanza di centri adeguati nella propria regione, specie nel settore dei trapianti. A fotografare il fenomeno è l'Istat, nel Rapporto annuale 2005. Tra il 1999 e i 2003, sottolinea infatti l'Istat, la mobilità ospedaliera interregionale non diminuisce: la percentuale di dimissione di residenti ricoverati in un'altra regione passa dal 6,7% al 7,1%. Così, nel 2003 quasi 600.000 ricoveri, il 7% del totale di quelli ordinari per acuti, sono avvenuti in una regione diversa da quella di residenza del paziente. Le cause di questi 'viaggi'? Possono essere varie: "La mobilità - spiega l'Istat - può essere analizzata secondo due componenti: una 'fisiologica', dovuta alla prossimità di strutture ospedaliere in una regione limitrofa o per la temporanea presenza in un luogo diverso da quello di residenza (per lavoro, turismo ecc.) e una motivata da fattori sanitari". E quest'ultima, si legge nel Rapporto, "può essere espressione sia di un'offerta non adeguata di strutture, sia di un'insoddisfazione del cittadino verso la qualità dei servizi erogati dalla specifica regione, sia infine dalla necessità di rivolgersi a centri specializzati per determinate patologie". Le regioni che hanno flussi in uscita più consistenti di quelli in entrata sono quelle del Mezzogiorno (a eccezione di Abruzzo e Molise) e fra queste, le regioni con una percentuale d'emigrazione superiore alla media sono Campania, Basilicata e Calabria. La maggior parte delle regioni del nord e del centro, invece, hanno al contrario flussi di entrata più consistenti di quelli in uscita e sono, quindi, "regioni d'attrazione". La mobilità di lunga distanza, rileva l'Istat, riguarda in particolare i residenti nelle regioni Puglia, Calabria, Sicilia, e Sardegna verso la Lombardia e l'Emilia Romagna. Così, in Lombardia ben 134.000 ricoveri riguardano non residenti e nell'Emilia Romagna circa 80.000. Quanto ai tipi di interventi per cui la mobilità è particolarmente elevata, al primo posto ci sono i trapianti. Altri settori ad elevata mobilità riguardano gli interventi per malattie endocrine e nutrizionali, le biopsie del sistema del sistema muscoloscheletrico, gli interventi per obesità, le ustioni e le terapie riabilitative per dipendenze da alcol e farmaci.

FORTE RITARDO NELLE TECNOLOGIE, SIAMO COME 20 ANNI FA
Il nostro sistema economico resta antiquato e "la situazione dell'Italia è caratterizzata dal permanere di un forte ritardo nella produzione di tecnologie e nel loro impiego nel sistema economico". Lo rileva l'Istat aggiungendo che "qualche miglioramento relativo si è invece manifestato per quanto riguarda la formazione di risorse umane, sia pure in maniera non uniforme". In ricerca e sviluppo la spesa dell'Italia "é rimasta intorno a un livello poco superiore all'1% del Pil, come a metà degli anni Ottanta". In Germania si spende il 2,5%, in Francia il 2,2% e nel Regno Unito l'1,8-1,9%. "Un divario notevole" con il resto d'Europa emerge anche nell'ambito delle tecnologie dell'informazione.(ANSA).

LAVORO: IN 10 ANNI 2,7 MILIONI OCCUPATI IN PIU'

Tra il 1995 e il 2005 l'occupazione in Italia è cresciuta di 2,7 milioni di persone raggiungendo quota 22.563.000 unità: è quanto si legge nel Rapporto annuale dell'Istat secondo il quale però la percentuale di occupati tra i 15 e i 64 anni pur crescendo dal 53% al 57,5% resta molto al di sotto della media europea del 2005 (64,6%). Il tasso di disoccupazione nella media 2005 era del 7,7% in calo rispetto al 9,1% del 2001 ma l'Istat segnala come questa riduzione sia stata possibile anche grazie alla crescita della popolazione inattiva dovuta alla rinuncia alla ricerca di occupazione soprattutto al Sud.
 
24 maggio 2006
La diagnosi dell'Istat: ridare fiducia all'Italia
di Michele De Gaspari


Nel 2005 l'economia italiana ha registrato una crescita zero, così come nel 2003 e a fronte del modesto +1,1% nel 2004, facendo segnare il peggior risultato dal 1993 (-0,9%). Essa si è, dunque, confermata il fanalino di coda dell'area euro, dove il Pil è invece aumentato dell'1,3% nel suo complesso. Se si tiene conto dei giorni lavorativi in meno (quattro) rispetto a un anno prima, la variazione diventa positiva (+0,1%), ma rimane pur sempre impercettibile. Il dato risente, in particolare, del negativo andamento del quarto trimestre 2004 e del primo 2005; lo scorso anno, poi, si è concluso di nuovo in frenata, con il ristagno delle principali componenti della domanda interna (consumi privati e investimenti delle imprese), mentre quella estera (esportazioni) non è andata granché meglio. E' quanto hanno messo in evidenza i conti economici nazionali Istat, che indicano un valore del Pil 2005 ai prezzi di mercato pari a 1.417 miliardi di euro correnti, dopo la periodica revisione generale realizzata secondo le regole dell'Unione europea, con il passaggio al nuovo sistema dei conti Sec 2000.

Dal lato degli impieghi, i consumi delle famiglie sono pressoché stazionari in termini reali (+0,1%), peggiorando ancora il magro risultato (+0,5%) dell'anno precedente. Se la domanda di beni durevoli si è mostrata relativamente vivace - grazie agli acquisti di mezzi di trasporto, prodotti per la casa, elettronica e telefonia - i servizi e i beni non durevoli (alimentari, abbigliamento, largo consumo in genere) hanno registrato, per contro, una dinamica invariata o negativa, nonostante il lieve incremento del reddito reale disponibile. Gli investimenti fissi lordi, a loro volta, sono diminuiti dello 0,6% in media: alla crescita delel costruzioni (+0,5%) si contrappongono il calo degli acquisti di macchinari (-0,8%) e la caduta dei mezzi di trasporto (-4,6%). E' stato, inoltre, irrilevante l'aumento complessivo (+0,3%) delle esportazioni di beni e servizi. Il solo contributo positivo alla variazione del Pil è venuto dalla spesa delle amministrazioni pubbliche (+0,2%) e dall'accumulo di scorte (+0,1%), mentre la domanda estera netta e gli investimenti ne hanno frenato la crescita, dando un apporto negativo (-0,3% e -0,1% rispettivamente).

All'inizio del 2006 l'economia italiana ha ripreso a crescere, mostrando un significativo rialzo del Pil nel primo trimestre (+0,6% congiunturale e +1,5% tendenziale annuo). I segnali di una svolta ciclica si sono, infatti, moltiplicati negli ultimi mesi, se si guarda alla statistiche relative alla produzione industriale, al fatturato e agli ordini affluiti alle imprese, in particolare alla componente estera. Questi dati confermano il miglioramento in atto nella congiuntura economica, tanto che dovrebbe essere ormai alla spalle la lunga fase di stagnazione, protrattasi per un intero quinquennio. Nel 2006 il Pil italiano è previsto crescere a un ritmo vicino all'1,5% nella media annua, che sarebbe la migliore performance dal 2001; un risultato favorito dall'accelerazione delle esportazioni e dalla conseguente ripresa degli investimenti. Il nuovo ciclo congiunturale positivo non è, tuttavia, esente da rischi: nel breve periodo, oltre all'euro forte, persiste la debolezza della domanda per consumi, accentuata dai rincari del petrolio e delle tariffe energetiche, che pesano sui bilanci delle famiglie; a medio termine si riaffacciano, poi, i problemi strutturali legati alla perdita di competitività dei nostri prodotti sui mercati esteri.

Il Rapporto annuale e la situazione del Paese nel 2005

Il Rapporto annuale dell'Istat esamina i grandi cambiamenti strutturali del nostro paese in termini di sistema economico, situazione demografica e del mercato del lavoro, con riguardo alle dinamiche più recenti. Esso offre, in altre parole, un aggiornato strumento di conoscenza e di servizio per istituzioni, imprese e cittadini. L'edizione di quest'anno è organizzata in sei capitoli, arricchiti da tavole statistiche e approfondimenti, che si concentrano sull'analisi della recente congiuntura economica e sulle dinamiche del sistema produttivo e del mercato del lavoro. E' analizzato, in particolare, l'impatto che questi fattori generano sulle condizioni di vita delle famiglie, insieme all'offerta di servizi sociali a livello territoriale. Nel volume è descritta, inoltre, la capacità del sistema delle imprese, delle famiglie e delle istituzioni italiane di gestire gli effetti dei cambiamenti legati alla crescita dell'interdipendenza economica e finanziaria a livello mondiale.

Il Rapporto dell'Istat, pubblicato com'è ormai consuetudine nella tarda primavera, giunge quest'anno alla sua quattordicesima edizione. Differenziandosi dai tradizionali volumi che costituiscono i classici prodotti dell'Istituto, quali l'Annuario statistico italiano, il Rapporto ne rappresenta un'organica sintesi dell'attività di rilevazione e di ricerca, dove i dati sono raccolti, analizzati e interpretati in un insieme di testi, tabelle, approfondimenti. I temi descritti e sviluppati vanno da un'analisi della congiuntura economica nel 2005, della finanza pubblica, del mercato del lavoro, del sistema delle imprese e dell'apparato produttivo, sino alla trattazione dei principali aspetti demografici e sociali, come la previdenza, la sanità, la qualità della vita, il disagio sociale, i rapporti fra cittadini e istituzioni.

Il Rapporto realizza, infatti, una forma d'interazione tra l'attività dell'Istat e gli altri soggetti del sistema statistico nazionale, le università, i centri di ricerca pubblici e privati, in linea con le riforme della statistica ufficiale avviate oltre un decennio fa. Tutti i grandi temi dell'economia e della società che sono oggetto di dibattito trovano, dunque, in questo volume una serie di contributi informativi documentati. Si tratta di un grande e complesso lavoro di sintesi, in linguaggio sempre chiaro e accessibile, dello "stato di salute" dell'Italia nell'età dell'euro e nell'Europa allargata. ilsole24ore
 
FaGal ha scritto:
L'ISTAT: 1,5 MILIONI DI FAMIGLIE NON ARRIVA A 800 EURO AL MESE

DISUGUAGLIANZE, ITALIA QUASI PRIMA IN EUROPA

POVERE 2 MILIONI 600 MILA FAMIGLIE

MOBILITA' SOCIALE RIGIDA, ULTIMI POSTI PER L'ITALIA


PREZZI A RISCHIO CON ASPETTATIVE SALARIALI


ITALIA NON AGGANCIA RIPRESA, POTENZIALE DIMEZZATO

SISTEMA ECONOMICO RESTA VULNERABILE E FRAMMENTARIO
LAVORO, DONNE SEMPRE PIU' FUORI. MAI COSI' DA ANNI '90
OGNI ANNO NASCONO MIGLIAIA IMPRESE, NE MUOIONO DI PIU'

IMPRENDITORI IN ECCESSO MA PRODUTTIVITA' E' MODESTA

TAGLIO CUNEO: BENE A COMPETITIVITA', NO A INNOVAZIONE
LAVORO, BOOM FLESSIBILITA'ORARI,SOLO 1/3 IMPIEGATO 9-18
PREZZI ALTI, 30% FAMIGLIE COMPRA MENO CARNE
DIDATTICA UNIVERSITA' NON RISPONDE A RICHIESTA MERCATO
SPESA SOCIALE REGIONI PARI A 1/4 SPESA PUBBLICA
SANITA': DA SUD A NORD PER CURE, 7% RICOVERI FUORI CASA
FORTE RITARDO NELLE TECNOLOGIE, SIAMO COME 20 ANNI FA




La diagnosi dell'Istat: ridare fiducia all'Italia

Ma cos'e' una presa per il cu.lo ...... anziche' ridare fiducia all'Itlaia ci dovrebbero dire dove prendere le lamette o il cianuro ......
 
E' il risultato di un decennio....con sapienza macroeconomica il presidente del consiglio uscente ha commentato: è un modo per alzare le tasse...
 
ISTAT. Economia fragile e vulnerabile. L’Italia non aggancia la ripresa (1)
24/05/2006 - 14:27



La crescita del Pil è modesta. L'Italia non ha agganciato la ripresa mondiale perché esprime un potenziale di crescita inferiore. Il sistema economico resta vulnerabile e frammentario. È quanto rileva l'Istat nel Rapporto annuale 2005, presentato oggi a Roma, che fotografa la situazione del Paese.

L'ECONOMIA ITALIANA. Nel 2005 l'Italia è stata contraddistinta dal ristagno della domanda e dell'attività e il Pil ha registrato in termini reali una variazione nulla. Nell'arco dell'ultimo quadriennio l'economia italiana ha segnato un tasso di sviluppo medio pari ad appena lo 0,4 per cento all'anno. "La deludente performance italiana va inserita in un contesto che ha visto l'Europa crescere molto più lentamente di altre aree geografiche mentre lo sviluppo dell'economia mondiale si è mantenuto vigoroso (+3,4 per cento del Pil) - ha detto il presidente dell'Istat Luigi Biggeri - L'economia italiana non ha agganciato la ripresa mondiale perché esprime un potenziale di crescita inferiore (che dipende da fattori strutturali), pari a circa la metà dell'area dell'euro.

Se "il 2006 è iniziato con forti segnali di ripresa e un rafforzamento dell'espansione dell'attività economica - sottolinea l'Istituto di Statistica - tanto in Europa quanto in Italia (+ 0,6 per cento)", il sistema economico resta tuttavia vulnerabile e frammentario. "Rimane ancora relativamente debole il contributo dei consumi delle famiglie, in particolare per la componente dei beni non durevoli - rileva l'Istat - Il reddito disponibile è cresciuto debolmente negli anni per effetto di una contenuta dinamica delle retribuzioni reali (per molti anni al di sotto dei modesti incrementi di produttività) e del rallentamento della crescita dell'occupazione. Inoltre la produttività e la competitività delle nostre imprese sono ancora nel complesso molto modeste. Ciò testimonia la perdurante fragilità della nostra economia e potrebbe condizionare - in presenza di cambiamenti del contesto internazionale - la dimensione e la durata della crescita".

"A questi elementi di debolezza - ha detto Biggeri - si aggiungono fattori di vulnerabilità più specifici, quali l'esposizione ai rischi di ulteriore perdita di competitività e l'elevata dimensione del debito pubblico, che ci portiamo dietro da decenni". Lo scorso anno ha visto dunque un peggioramento della finanza pubblica, "con lo stock del debito pubblico rispetto al Pil che ha segnato nel 2005 un'inversione di tendenza" risalendo al 106,4 per cento (era il 103,8 per cento nel 2004). Biggeri ha inoltre sottolineato che l'avanzo primario si è ridotto nel tempo "fino quasi ad annullarsi nel 2005 per effetto di un consistente aumento della spesa pubblica primaria. Ciò - ha sottolineato - pone limiti molto forti alla possibilità di contribuire alla crescita attraverso la leva della spesa pubblica e rende necessarie misure strutturali per riportare il debito pubblico entro un sentiero di sostenibilità".

IL SISTEMA PRODUTTIVO. La diffusione delle microimprese e la specializzazione nei settori manifatturieri della meccanica strumentale e delle filiere dei beni per la persona e la casa rappresentano il fondamento della crescita italiana ma anche il suo fattore di vulnerabilità. "Nel contesto europeo - rileva l'Istat - le imprese italiane sono il 22 per cento del totale dell'Ue25 e pesano l'11 per cento in termini di occupazione. La loro dimensione è pari a circa la metà di quella media europea e la produttività è del 10 per cento inferiore".

La specializzazione italiana continua ad essere debole nei settori ad alta tecnologia e a elevata intensità di conoscenza. Le debolezze fanno dunque riferimento alla dimensione d'impresa e alla specializzazione. Se si guarda, per esempio, al settore manifatturiero, a fronte di una produttività del lavoro (cioè il valore aggiunto per addetto in migliaia di euro) pari al 57,6% del Regno Unito e del 56,5% in Germania, in Italia è solo al 42,3%. "Nonostante la bassa produttività il costo del lavoro contenuto - rileva l'istituto di statistica - mantiene la redditività delle imprese italiane in linea con quelle europee". L'impresa italiana "sopporta un costo del lavoro per dipendente decisamente più basso, in particolare nella manifattura, dove la differenza è pari a circa 9.000 euro con la Francia e 14.000 euro con la Germania".

Analizzando il movimento demografico delle imprese, il dato più rilevante degli ultimi anni è il declino della nascita di nuove imprese. Nel periodo 1999-2002 la natalità - rileva l'Istituto di Statistica - è comunque mediamente superiore alla mortalità e nel complesso il saldo del movimento demografico è positivo e pari a circa 40 mila imprese. Il sistema produttivo mantiene "un equilibrio vulnerabile", legato al "mantenimento di un basso costo del lavoro e al persistere di una specializzazione in settori tradizionali". Le imprese di eccellenza, che sono circa 25 mila nel periodo 1999-2004, sono presenti soprattutto nelle regioni del Nord-Ovest. Restano invece forti spazi di rendita nei settori più protetti dalla competizione internazionale" come nei servizi dove, rileva l'Istat, "sono presenti posizioni dominanti con ampia discrezionalità nella fissazione dei prezzi". Il panorama è dunque caratterizzato dalla compresenza di aree di vulnerabilità e segnali di vitalità. E "a quattro anni dalla nascita il 40 per cento delle imprese ha cessato l'attività con elevati costi economici e sociali".

2006 - redattore: BS




ISTAT. Un milione e mezzo di lavoratori a basso reddito e in famiglie disagiate (2)
24/05/2006 - 15:41



Occupazione tradizionale. Forte flessibilità degli orari. Alta disuguaglianza dei redditi. Difficoltà di accesso al mercato del lavoro per i giovani. E un milione e mezzo di lavoratori che vivono a basso reddito in famiglie disagiate. Sono i dati sul panorama lavorativo e sociale che emergono dal Rapporto Istat 2005 presentato oggi a Roma.

LAVORO. "Il modello occupazionale italiano è ancora caratterizzato da tassi di occupazione nettamente inferiori a quelli medi europei - ha detto il presidente dell'Istat Luigi Biggeri - ed è fondato sulla centralità dell'occupazione maschile adulta a tempo determinato, con alti livelli di esclusione dei giovani, delle donne e degli anziani". Nonostante una diffusione del part time inferiore alla media europea, la flessibilità degli orari è forte soprattutto fra i lavoratori autonomi. Solo un terzo dei dipendenti lavora full time da lunedì al venerdì, in ore diurne e senza turnazioni. Sempre più italiani lavorano dunque con orari flessibili: l'orario dalle 9 alle 17 vale solo per otto milioni di lavoratori, circa un terzo del totale, mentre per gli altri sono sempre più frequenti i turni, il lavoro nel week end e quello notturno. Grazie alla crescita dell'impiego nei servizi e alla liberalizzazione degli orari nel commercio è aumentato il numero degli addetti impiegati di sabato (il 48,8% del totale) e della domenica (18,8% del totale) mentre il 22,1 è impegnato di sera e l'11,2% di notte. Il 13,3% degli occupati fa i conti con i turni. Il lavoro "full time standard" riguarda quindi il 36,1% della popolazione ed è più alto tra i dipendenti (41%) che tra gli autonomi (22,6%) mentre lavorano full time ma a volte anche nei week end il 26,9% degli italiani (22,8 dei dipendenti e il 38,3 degli autonomi).

I soggetti più esposti a condizioni di vulnerabilità sono i lavoratori a basso reddito e gli anziani, i giovani che hanno difficoltà di acceso e stabilizzazione sul mercato del lavoro e i lavoratori con bassi livelli di istruzione o che non possono valorizzare il loro capitale umano. I giovani hanno difficoltà di accesso al mercato del lavoro e presentano rischi di disoccupazione più elevati rispetto agli altri gruppi demografici. Il differenziale fra il tasso di occupazione dei giovani fra i 20 e i 29 anni e gli adulti è di venti punti percentuali e superiore a quello europeo. "Soltanto in Italia - ha detto Biggeri - si hanno tassi di occupazione più bassi e tassi di disoccupazione più elevati per i giovani laureati rispetto ai corrispondenti valori europei".

"Ci sono oltre 4 milioni di lavoratori a basso reddito (al di sotto dei 700 euro mensili), di cui circa 1,5 vive in famiglie in condizioni di disagio economico - rileva l'Istat - Si tratta in prevalenza di giovani con redditi da lavoro autonomo; ma bassi redditi da lavoro sono presenti anche tra dipendenti con orari standard e a tempo determinato". I bassi redditi da lavoro sono più diffusi fra le donne (28 per cento contro il 12 per cento degli uomini), fra i giovani al di sotto dei 25 anni (36 per cento), fra chi ha un grado di istruzione inferiore alla licenza media (32 per cento) e fra lavoratori che operano nel privato (21 per cento).

Il nostro paese si trova fra i paesi europei con minore mobilità sociale (Francia, Germania, Irlanda) a differenza di Norvegia, Paesi Bassi e Svezia. È difficile passare da una classe sociale all'altra e le donne hanno una probabilità maggiore di quella maschile di permanere nella classe di origine. Nel 2005 "per la prima volta dalla metà degli anni Novanta il contributo delle donne all'aumento dell'occupazione - sottolinea l'Istat - è stato inferiore a quello degli uomini". La quota delle lavoratrici sul totale degli occupati è scesa dal 39,2% del 2004 al 39,1% del 2005 mentre nella Ue a 25 il trend è invece opposto. "Il contemporaneo forte incremento del numero di donne inattive residenti nel Sud e nelle Isole e di giovani che proseguono gli studi - evidenzia l'istituto di statistica - indica il diffondersi di fenomeni di rinuncia a intraprendere concrete azioni di ricerca di un impiego". Complessivamente "continua a rallentare la crescita dell'occupazione" e aumenta il tasso di disoccupazione, soprattutto tra i giovani (nel 2005 al 24%, con un incremento sul 2004 dello 0,4%). Sostanzialmente "le forze di lavoro risultano in crescita grazie agli stranieri regolarizzati".

REDDITI. Povertà stabile (7,6 milioni gli indigenti) negli ultimi otto anni in Italia, che resta però fra i paesi europei con più alto grado di sperequazione dei redditi. Questo vale soprattutto al Mezzogiorno, dove le famiglie percepiscono circa 3/4 del reddito delle famiglie che vivono al Nord. Pur con molta variabilità, una famiglia su due ha un reddito mensile netto inferiore a 1.670 ma ben un milione e mezzo di persone percepisce un reddito mensile basso, mediamente meno 783 euro, e vive in contesti familiari economicamente disagiati. Nel 2003 il reddito medio per famiglia è stato di 24.950 euro, circa 2.079 euro al mese. Il reddito è composto per il 43,1% da lavoro dipendente e per il 32,9% da trasferimenti pubblici (il 92% riguarda pensioni). Le famiglie che hanno come fonte principale il reddito da lavoro autonomo possono contare, in media, su entrate maggiori. Al sud di solito c'è un solo percettore di reddito, mentre al nord due o più. Le famiglie povere sono 2 milioni e 600 mila: l'emergenza riguarda il Sud dove una famiglia su 4 è povera e dove le persone povere nell'ultimo anno sono aumentate di circa 900 mila persone, interessando oltre 1.800.000 famiglie. Ci sono quattro gruppi di famiglie povere: coppie anziane, donne anziane sole, famiglie con persone in cerca di occupazione nel Mezzogiorno e famiglie con lavoratori a basso profilo professionale. Il modello verso cui si tende - rileva l'Istat - è quello in cui entrambi i coniugi lavorano.

PREZZI. L'inflazione, che si è mantenuta sotto controllo negli ultimi mesi, potrebbe risalire a causa delle pressioni salariali dal mondo del lavoro. Rischi sull'inflazione possono derivare dall'aumento del prezzo del petrolio e da un possibile rafforzamento dell'euro rispetto al dollaro. L'aumento dei prezzi fa stringere la cinghia degli italiani quando si tratta di cibo: il 25% delle famiglie compra meno pane e pasta mentre oltre il 30% meno carne, frutta e verdura; il 37,2% riduce l'acquisto di pesce; il 41,9% fa minori compere per l'abbigliamento e le scarpe. Il 15% opta per alimenti di qualità più bassa.

SERVIZI SOCIALI. Nel 2003 la spesa delle Amministrazioni pubbliche destinata agli interventi sociali (per le funzioni sanità, istruzione, assistenza e beneficenza) è stata pari a circa 3.000 euro pro-capite, in crescita di oltre 900 euro nell'arco 1996-2003. "A fronte di un valore medio per abitante di poco superiore a 3 mila euro annui - rileva l'Istat - permangono ampi divari territoriali di spesa sociale, con valori maggiori nelle regioni centro-settentrionali e minori in quelle meridionali". Nella sanità emergono modelli differenziati e si osserva una tendenza alla deospedalizzazione che però stenta a consolidarsi. Non accenna invece a diminuire il fenomeno della mobilità ospedaliera, soprattutto dalle regioni meridionali verso quelle del Nord. E nella maggior parte dei casi, alla base della scelta di "migrare" per farsi curare vi è la mancanza di centri adeguati nella propria regione, specie nel settore dei trapianti. Fra il 1999 e i 2003, sottolinea infatti l'Istat, la mobilità ospedaliera interregionale non diminuisce: la percentuale di dimissione di residenti ricoverati in un'altra regione passa dal 6,7% al 7,1%. Così, nel 2003 quasi 600.000 ricoveri, il 7% del totale di quelli ordinari per acuti, sono avvenuti in una regione diversa da quella di residenza del paziente. Le regioni che hanno flussi in uscita più consistenti di quelli in entrata sono quelle del Mezzogiorno (a eccezione di Abruzzo e Molise) e fra queste, le regioni con una percentuale d'emigrazione superiore alla media sono Campania, Basilicata e Calabria. La maggior parte delle regioni del nord e del centro, invece, hanno al contrario flussi di entrata più consistenti di quelli in uscita. Quanto ai tipi di interventi per cui la mobilità è particolarmente elevata, al primo posto ci sono i trapianti.

Negli ultimi anni è aumentata l'offerta formativa delle Università ma la riforma dell'università, afferma l'Istat, ha puntato "troppo sull'attività didattica che non sempre corrisponde alla richiesta del mercato" del lavoro; "è fondamentale - aggiunge -puntare sulla ricerca, motore dello sviluppo delle conoscenze e dell'economia". In generale, aumentano gli iscritti nell'anno accademico 2004/2005 e gli immatricolati, aumentano gli studenti in corso, "anche se gli abbandoni continuano a rappresentare un problema: circa uno studente su cinque non si iscrive al secondo anno".

"Il sistema del welfare - ha detto Biggeri - rimane caratterizzato da una forte incidenza delle spese per prestazioni monetarie, tra queste in particolare quelle per le pensioni, a scapito della componente dei servizi alla persona".

2006 - redattore: BS






ISTAT. Rapporto annuale: le polemiche delle Associazioni di Consumatori
24/05/2006 - 17:11



"Di fronte ai nuovi dati Istat sulla povertà sarebbe molto riduttivo affrontare il problema solo in termini di prezzi e tariffe, perché in realtà dimostrano che nel nostro Paese vanno riviste profondamente molte politiche, recuperando il primato dei diritti di cittadinanza e della persona, rispetto alle oramai asfissianti logiche di mercato, di consumi e di marketing che stanno dividendo sempre più l'Italia tra chi ha molto e chi non ha quasi niente o niente proprio". Questo il commento di Cittadinanzattiva che chiede al nuovo Governo di affrontare l'emergenza povertà in termini di sviluppo umano e non solo di sviluppo economico, occupandosi di milioni di cittadini che non hanno accesso a condizioni di vista dignitose e di farlo con l'aiuto delle organizzazioni d'impegno civico oltre a quelle dei consumatori, per sperimentare politiche di accesso ai servizi di pubblica utilità e forme concrete di sostegno al reddito e alle opportunità formative e di lavoro.

"Come per l'inflazione, anche in questo caso ci troviamo di fronte a dati sottostimati - afferma il Presidente Codacons Carlo Rienzi - Le famiglie che patiscono un disagio economico, che non riescono più ad arrivare a fine mese con lo stipendio, che presentano bilanci in rosso, che si indebitano anche per acquisti di piccola entità, sono assai più numerose di quelle registrate dall'Istat"."Finche affittare una casa costerà 600 euro al mese, un kg di ciliegie 10 euro, le tariffe rc auto o la benzina continueranno a subire aumenti, solo per fare qualche esempio - prosegue Rienzi - il numero delle famiglie in stato di disagio economico crescerà costantemente. Si impone dunque una riforma urgente nel settore economico e misure concrete mirate ad aumentare il benessere degli italiani e a far scendere i prezzi e le tariffe".




2006 - redattore: NZ
www.helpconsumatori.it
 
IMPRESE/ISTAT:PICCOLE E SPECIALIZZATE IN SETTORI TRADIZIONALI-rpt
24/05/2006 14:01

Roma, 24 mag. (Apcom) - Piccole e specializzate in settori tradizionali, meno produttive, ma anche meno gravate rispetto alle concorrenti europee del peso del costo del lavoro. Le imprese italiane sono il 22% del totale della Ue a 25 e contano l'11% in termini di occupazione. La loro dimensione è poco più della metà della media europea e la produttività è del 10% inferiore. È il quadro del sistema produttivo italiano tracciato dall'Istat nel suo rapporto 2005.

Dimensioni e specializzazione sono connesse strettamente alla produttività, spiega l'Istat. Nel complesso di industria e servizi la produttività per addetto era di 37 mila euro nel 2003 contro i 50 mila euro di Francia e Germania. Metà del gap, relativamente alla manifattura, può essere spiegato semplicemente in termini di dimensione delle aziende, mentre per un 30% dipende dall'effetto congiunto delle dimensioni ridotte e della specializzazione in settori poco produttivi. In Italia mancano le aziende nei settori ad alta tecnologia ed elevata intensità di conoscenza, meno esposti alla concorrenza delle economie emergenti, e dove la domanda è cresciuta in maniera più rapida. La spesa in ricerca e sviluppo è ferma a livelli più bassi rispetto ai tre principali paesi Ue.

Il costo del lavoro medio per dipendente però è inferiore di circa 9mila euro rispetto alla Francia e di 14mila euro rispetto alla Germania, anche se i contributi sociali sono superiori: in ogni caso il costo del lavoro in Italia resta tra i più bassi. Questo consente alle imprese di mantenere una redditività in linea con la media europea, nonostante la produttività più bassa.

Ma per l'Istat c'è un gran numero di imprese che hanno performance migliori, concentrate nei distretti produttivi, nelle regioni del Nord-est, tra le società di capitali e nei settori della meccanica strumentale e di precisione. Sono aziende che esportano molto, che riescono a competere sui mercati esteri e hanno la tendenza ad affidare molti servizi in outsourcing.

Le imprese italiane si modificano inoltre con molta lentezza. Negli ultimi anni si sono sì terziarizzazione, ma l'Italia rimane a vocazione manifatturiera più forte della media Ue a 15. L'aumento del peso relativo delle grandi imprese è una tendenza più debole, emersa dopo il 2001, quando l'occupazione ha preso a crescere un po' più velocemente della popolazione delle imprese. Tra il 2000 e il 2004 la quota di addetti ai servizi sale dal 56% al 60%, quella delle grandi imprese dal 18% al 20%.

Infine, rileva l'Istituto di statistica, le imprese sono soggette nei primi anni di vita a una forte selezione. A quattro anni dalla nascita, soltanto sei imprese su dieci son ancora attive. Al di sopra della media, le aziende industriali (62,6%) e delle costruzioni (66,7%), le società di capitale (70%), quelle del Nord-est (64,1%), le imprese con dipendenti (74,6%) quelle che esportano (72,1%) e quelle coinvolte in eventi di trasformazione, quali fusioni e acquisizioni (78,8%).

copyright @ 2006 APCOM
 
Su imprese pesano contributi sociali, costo lavoro basso - Istat
mercoledì, 24 maggio 2006 12.05

ROMA, 24 maggio (Reuters) - Le imprese italiane sopportano un costo del lavoro inferiore rispetto alle aziende francesi e tedesche ma hanno a che fare con un'incidenza dei contributi sociali maggiore rispetto agli altri principali partner dell'Unione europea.

Lo dice l'Istat nel rapporto annuale sulla situazione dell'Italia nel 2005.

"Le imprese italiane sopportano un costo del lavoro per dipendente inferiore mediamente di 9.000 euro rispetto alle imprese francesi e di 14.000 euro rispetto a quelle tedesche", dice Istat.

"L'incidenza dei contributi sociali è invece più alta rispetto a quella di Germania, Spagna e Regno Unito".

"Bassa produttività e minor costo del lavoro, ma anche il peso consistente dei lavoratori autonomi, fanno sì che la redditività italiana sia allineata a quella europea", continua l'Istituto di statistica.
 
FaGal ha scritto:
E' il risultato di un decennio....con sapienza macroeconomica il presidente del consiglio uscente ha commentato: è un modo per alzare le tasse...
Fabio capisco che un rapporto è un rapporto e quindi và dato per
intero.
Ma ogni punto di quel rapporto meriterebbe un 3d....
.
anche questa tua affermazione...andrebbe meglio argomentata..
ciao
 
L'ISTAT: 1,5 MILIONI DI FAMIGLIE NON ARRIVA A 800 EURO AL MESE
ROMA - Povertà stabile (7,6 milioni gli indigenti) negli ultimi otto anni in Italia che resta però fra i paesi europei con più alto grado di sperequazione dei redditi. Questo vale soprattutto al Mezzogiorno, dove le famiglie percepiscono circa 3/4 del reddito delle famiglie che vivono al Nord. Lo rileva l'Istat nel rapporto annuale presentato oggi. Pur con molta variabilità, una famiglia su due ha un reddito mensile netto inferiore a 1.670. Ma ben un milione e mezzo di persone percepisce un reddito mensile basso, mediamente meno 783 euro, e vive in contesti familiari economicamente disagiati.
.

Troooopppo belli questi reports. Una marea di numeri, neanche un commento,
il tentativo di una spiegazione.
Sperequazione dei redditi. Sperequazione tra chi? Uomini e donne?. Operai, impiegati
e dirigenti? Laureati e ‘poco scolarizzati’? Liberi professionisti e lavoratori dipendenti?
ecc. ecc.
Per ognuna delle categorie menzionate si potrebbero (anzi sono stati) scritti
dei libri, delle enciclopedie.
Si dice che in Italia la sperequazione è più forte. Sarà perché il grado di
istruzione è meno omogeneo degli altri paesi (meno laureati-diplomati e
più persone con istruzione medio-bassa).
Sarà che il Nord è a tutti gli effetti una ‘regione ai max. livelli europei’
e il Sud ‘una regione ai max. livelli del maghreb’?
Sarà perché una parte dei redditi (che consente alle famiglie di sopravvivere)
è occultata ‘nel sommerso’?
Sarà che si è voluto dividere in molti una torta non così grande
come quella a disposizione degli altri paesi?
Sarà che in Italia per far funzionare un’azienda da 100 dipendenti
ne occorrono, chessò 120? E quei 20 in più si ‘fot-tono’ parte
dei redditi degli altri 100.
Sarà che l’attività imprenditoriale è sì molto invidiata, ma anche
fortemente ostacolata?
Sarà che siamo privi di quelle aziende ad alto contenuto tecnologico
che possono garantire salari più alti grazie ad utili più alti?
Sarà che siamo un popolo quasi privo di ‘coscienza sociale’
e del senso dello stato e quindi ‘costringiamo’ lo stato a spendere
più di quanto dovrebbe e per di più male?
hai voglia di sarà...
 
A proposito di redditi inadeguati....non cè trippa per gatti
.
Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom-Cgil, ha così commentato le dichiarazioni del presidente di Confindustria sul cuneo fiscale.
“E’ davvero una singolare idea di equità quella di chi dice “un terzo a te e due terzi a me”. Il presidente della Confindustria, con una sua recentissima dichiarazione, ha messo le mani avanti chiarendo che la riduzione di cinque punti del costo del lavoro annunciata dal governo Prodi dovrà andare per due terzi a vantaggio delle imprese.”
E’ bene ricordare che questa riduzione verrà integralmente pagata dal fisco, e cioè dai cittadini. E’ inoltre evidente che questa stessa riduzione dovrebbe contribuire, in primo luogo, a migliorare le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori. La dichiarazione rilasciata martedì da Montezemolo è quindi un atto di pura arroganza che, tra l’altro, dimostra come la Confindustria, al di là delle affermazioni di principio, continui a puntare sulla riduzione del costo del lavoro e del salario come condizione per la competitività, quando la stessa Istat ci dice che il costo del lavoro italiano è uno dei più bassi tra quelli dei paesi industriali.”“Per quanto ci riguarda, non solo non siamo d’accordo con una simile ripartizione dell’annunciata operazione di intervento sul cuneo fiscale, ma pensiamo, al contrario, che tutta la quota di tale riduzione del costo del lavoro debba in qualche modo trasferirsi in incrementi delle retribuzioni nette dei lavoratori; retribuzioni che, oggi, sono in fondo alle classifiche europee.”
dilemma? Più competitività ( ma dove vogliamo andare con quella
riduzione del cuneo, visto che altri paesi potrebbero farlo..)
o più salari?
 
«Troppi vicini alla povertà, non basta ridurre il cuneo»
FAMIGLIE Biggeri (Istat) avverte il governo: interventi mirati o sarà uno sconto alle imprese meno efficienti
ROMA - Il taglio del cuneo contributivo sul lavoro, che il governo Prodi ha messo in cima al suo programma, può al massimo fornire una boccata d’ossigeno, ma non risolvere i problemi strutturali del nostro sistema produttivo. Lo ha spiegato ieri il presidente dell’Istat, Luigi Biggeri, illustrando il Rapporto annuale dell’istituto nazionale di statistica. Un volume che fotografa le difficoltà della nostra economia, dei conti pubblici, ma anche il disagio sociale causato da forti disuguaglianze nei redditi e da una vasta area (stabile dal ’97 al 2004) di famiglie povere, circa 2,6 milioni (7,6 milioni di persone). Nel 2004 era considerata povera una famiglia di due persone che spendeva non più di 918 euro al mese.

CUNEO - La riduzione di 5 punti del prelievo contributivo sul lavoro, se fatta a vantaggio delle aziende, «rappresenterebbe uno shock positivo in termini di competitività, ancorché una tantum», ha detto Bieggeri. Questo sconto «rischia però di fornire un disincentivo all’innovazione e al passaggio verso tecnologie più capital intensive e, in assenza di meccanismi di selezione virtuosa, premierebbe sostanzialmente le imprese meno produttive». Se poi il taglio dovesse andare almeno in parte anche a vantaggio del salario netto dei lavoratori, ha aggiunto, «l’impatto sui redditi disponibili delle famiglie sarebbe comunque modesto, senza concentrarsi su quelle in condizione di disagio», a meno che il provvedimento non sia appunto mirato. Raccoglie l’invito di Biggeri il viceministro dell’Economia, Roberto Pinza: «Il taglio deve essere selettivo e mirare alla diminuzione del costo del lavoro soprattutto sui redditi bassi».


POVERI - L’Istat ha calcolato in 2.079 euro al mese il reddito netto medio delle famiglie nel 2003, ma una famiglia su due vive con meno di 1.670 euro. Il reddito delle famiglie meridionali è pari a tre quarti di quello riscontrato al Nord. Le famiglie di lavoratori autonomi sono più ricche: 2.980 euro al mese contro i 2.260 delle famiglie di lavoratori dipendenti e i 1.570 di quelle dei pensionati. «L’Italia - dice il rapporto - è caratterizzata da un grado di disuguaglianza piuttosto elevato se confrontato con altri Pesi europei». Insieme con Portogallo, Spagna, Irlanda e Grecia siamo nel «gruppo dei Paesi con la più alta disuguaglianza». Circa un milione e mezzo di persone vive con meno di 780 euro al mese. «Desta particolare preoccupazione il dato relativo ai lavoratori con contratto a termine: è a basso reddito il 40% di questi». Più in generale, dice Biggeri, «ci sono oltre 4 milioni di lavoratori sotto 700 euro mensili». Commenta Fausto Bertinotti, presidente della Camera: «S’impone un risarcimento al lavoro»


RISCHIO INFLAZIONE - «In questo contesto - ha detto il presidente dell’Istat - l’accumularsi delle aspettative di recupero salariale può avere effetti destabilizzanti sulla dinamica dei prezzi». Insomma, l’inflazione potrebbe ricominciare a salire, complice anche il prezzo del petrolio. L’Italia, ha aggiunto Biggeri, «non ha agganciato la ripresa mondiale» a causa di problemi strutturali. Ci sono «forti spazi di rendita» che ostacolano la crescita. «La produttività e la competitività delle nostre imprese sono ancora nel complesso molto modeste». Fanno eccezione le imprese pubbliche. Sono ancora la bellezza di 2.068, con 669 mila addetti e hanno una produttività e una redditività superiori alla media e anche retribuzioni più alte. Grazie anche a «un maggior potere discrezionale nella determinazione dei prezzi», sottolinea l’Istat.


FLESSIBILITA’ - L’orario standard di 8 ore al giorno per 5 giorni vale ormai solo per 8 milioni di lavoratori, il 36,1% del totale. Per il resto valgono gli orari flessibili, compreso il lavoro il sabato e la domenica, quello notturno e quello part time. In media gli italiani lavorano 38,1 ore a settimana, oltre un’ora in più della media Ue a 15, ma il dato risente del basso livello del part time in Italia (12,8% contro il 20,2% della media europea). Al netto di questo un lavoratore a tempo pieno in Italia è impiegato per 40,6 ore, circa mezz’ora in meno della media Ue. L’aumento dell’occupazione, cominciato nel 1995, ha portato 2,7 milioni di posti di lavoro in più in dieci anni. Ma nel 2005 questa crescita si è quasi fermata.
E nrico Marro corriere
 
Redditi, quante diseguaglianze fra dipendenti e autonomi

L’Istat mette in risalto le grandi diseguaglianze dei redditi. Una famiglia su due vive con meno di 1.670 euro al mese. Quelle dei lavoratori autonomi guadagnano mediamente 2.980 euro, quelle dei dipendenti 2.260 euro. E ci sono 4 milioni di lavoratori sotto i 700 euro


Quasi due italiani su tre hanno ormai orari «flessibili»

Solo 8 milioni di dipendenti, il 36,1% del totale, lavora le «classiche» 8 ore al giorno per 5 giorni la settimana. Per tutti gli altri vince la «flessibilità», con sabati, domeniche e notturni. Escluso il part time, in Italia si lavora in media 40,6 ore settimanali
 
vabbè , ma se in Sicilia risulta il 25% di disoccupazione evidentemente i dati non sono attendibili , considerando che hanno anche i soldi per pagare il Pizzo e che non ci sono esodi biblici d'emigrazione .C'è un nero plateale , inutile ricamarci su teorie sociologiche sulla povertà .


PS anzi , sono andato a controllare , a Palermo il tasso di occupazione è del 42,5 .E hanno anche lavori per gli extraeuropei . Ma fatemi il favore!
 
Ultima modifica:
Anche dal punto di vista sociale la società italiana che emerge
dal rapporto Istat ha rigidità tra le classi e forti sperequazioni
Disuguaglianze, scarsa mobilità
famiglie povere sono 2,6 milioni
Un neonato su 10 è figlio di stranieri: nel 2005 gli immigrati
residenti hanno raggiunto i 2,4 milioni, pari al 4,1% della popolazione
di ROSARIA AMATO


ROMA - La stagnazione economica in Italia si è tradotta in una accentuazione delle diseguaglianze di reddito, in una sostanziale cristallizzazione della povertà e in una rigidità della mobilità sociale. L'Italia, dal Rapporto Istat 2005, appare un Paese piuttosto statico anche dal punto di vista sociale, non solo economico.

Per oltre 4 milioni redditi inferiori a 700 euro. In Italia "ci sono oltre 4 milioni di lavoratori a basso reddito, sotto i 700 euro mensili, di cui 1,5 milioni vive in famiglie in condizioni di disagio economico", ha ricordato il presidente dell'Istat Luigi Biggeri nella sua relazione. Le famiglie in condizione di povertà relativa sono 2,6 milioni, pari all'11,7% del totale e corrispondenti a 7,6 milioni di persone. Il valore dell'incidenza della povertà tra le famiglie, rileva l'Istat, è rimasto pressoché stabile negli ultimi otto anni (tra il 10,8 e il 12,3%). La povertà riguarda in particolare il Mezzogiorno, le famiglie con un elevato numero di componenti, gli anziani soli, le famiglie con disoccupati.

L'Italia tra i Paesi meno "mobili". L'Italia, insieme a Francia, Germania e Irlanda si colloca tra i Paesi con un basso grado di fluidità sociale. Al contrario Norvegia, Paesi Bassi e Svezia mostrano minori disuguaglianze in termini di opportunità di mobilità. Tra le classi sociali più "statiche" ci sono la piccola borghesia agricola e la classe operaia agricola: le donne, in particolare, hanno una probabilità maggiore di permanervi.

Il reddito: forti disuaglianze. Nel 2003 il reddito netto delle famiglie residenti in Italia, ha rilevato l'Istat, è stato in media di 24.050 euro, pari a circa 2.079 euro al mese. Le famiglie che hanno come fonte principale il reddito da lavoro autonomo possono contare, in media, su entrate maggiori: il loro reddito annuo nel 2003 è stato di 35.777 euro (2.980 euro al mese). Una famiglia su due ha un reddito mensile netto inferiore a 1.670 euro. L'Italia è infatti caratterizzata da un grado di disuguaglianza piuttosto elevato (superiore a 0,30), analogo solo a quello di Portogallo, Spagna, Irlanda e Grecia. Le famiglie con i redditi più bassi percepiscono soltanto il 7,9% dei reddito totale, mentre la quota del quinto più ricco risulta quasi cinque volte maggiore (38,8%).

Al Sud i più poveri. Il divario tra il reddito familiare medio del Nord e quello del Sud risulta di 9.068 euro (-27,5%). Il 50,3% delle famiglie del Nord appartiene ai due quinti "più ricchi" (l'Istat ha effettuato una ipotetica divisione in cinque quinti degli italiani, per calcolare al meglio le differenze di reddito) con redditi alti e medio-alti, contro il 46,8% delle famiglie del Centro e il 20,6% di quelle che vivono nel Sud e nelle Isole.

Come spendono le famiglie. La differenziazione della spesa per ogni famiglia dipende essenzialmente dal reddito. L'incidenza delle spese per l'abitazione sul reddito è infatti del 9,2% per le famiglie più ricche e del 30,7% per quelle più povere, in particolare per quelle che vivono in affitto.

Per le famiglie più povere prodotti di minor qualità. Le famiglie più povere, rileva l'Istat, risparmiano intanto sulla qualità: circa un quarto ha scelto di comprare prodotti di qualità più bassa, compresi quelli di prima necessità, dalla pasta alla frutta e verdura. Le stesse famiglie, secondo un'indagine Istat, hanno una probabilità di ridurre la quantità degli acquisti di generi alimentari del 20% superiore rispetto a quelle moderatamente povere e una probabilità di acquistare prodotti di qualità inferiore di quasi il 50% in più. Per abbigliamento e calzature funziona anche una strategia di riduzione della quantità.

Spesa sociale più alta nelle regioni più ricche. La spesa sociale, rileva l'Istat, non ha un effetto di compensazione delle disuaglianze, perché è in linea con il reddito delle regioni. E pertanto, i livelli di spesa sociale più elevati si riscontrano in generale nelle regioni del Nord, e inoltre nel 2003 gli incrementi maggiori della spesa sociale hanno riguardato il Nord-Ovest, circa 1.300 euro; i più bassi le regioni del Sud con 685 euro. Anche l'offerta di interventi e servizi è decisamente inferiore alla media nelle regioni meridionali. In generale, comunque, l'Italia si colloca leggermente al di sotto della media dei Paesi dell'Unione Europea per l'incidenza della spesa sociale sul Pil.

Un neonato su 10 è figlio di stranieri. Poco meno di un neonato su 10 è un italiano figlio di genitori stranieri. Se la crescita nel tempo del numero di figli di stranieri regolari è scontata, meno lo è il suo ritmo: dal 1,7% del totale nel 1995, uno su 50, all'8,7% dell'anno scorso. Nel 2005 gli stranieri residenti hanno raggiunto i 2,4 milioni, pari al 4,1% della popolazione. In rapporto alla popolazione residente, l'incidenza degli stranieri è più elevata al Nord-Est (5,9%), Nord-Ovest (5,7%) e Centro 5,1. Lontani il Sud, 1,5%, e le Isole, 1,3%.

(24 maggio 2006)
http://www.repubblica.it/2006/05/se...uaglianze-poverta/disuguaglianze-poverta.html
 
non c'è trippa per gatti..due
si può essere d'accordo o no...ma le cose stanno così..

Merkel urges more labour flexibility
By Hugh Williamson in Berlin
Published: May 24 2006 18:41 | Last updated: May 24 2006 18:41

Chancellor Angela Merkel on Wednesday demanded more labour market flexibility and fewer rights for workers on company boards :)
in comments that opened new battle lines with Germany’s trade union movement.





Speaking at a DGB trade union federation congress in Berlin, Ms Merkel rejected labour movement demands for a minimum wage of €7.50 ($9.64, £5.12) an hour, and said the system of co-determination, which gives German workers a role in corporate decision-making, should be adapted to “the new business realities across Europe”.
The chancellor, who visited China this week, said Germany must be ready for growing international competition.
“I said this in China and I say it here . . . more people are competing for the best ideas than in the past, and the high standard of living we have achieved can no longer be taken for granted.”

The speech, her first significant address to trade unionists since taking power in November, was met with jeers and whistles. Michael Sommer, DGB chairman, said afterwards that the union movement “would do everything to ensure “unfavourable policies are not implemented” by the government.

More than in other recent speeches Ms Merkel stressed the need for “structural reforms” to the labour market, welfare state and health insurance system. “We need change. We must keep what has proven its worth but change what burdens us,” she said.

She called for flexible company-based collective bargaining, incentives for unemployed people to take low-paid jobs, and for sector-specific minimum wage levels instead of a one-size fits all rate. Union proposals for an economy-wide minimum wage system “would not create jobs” but destroy them by making labour too expensive, she argued.On co-determination she said “other European countries have completely different arrangements” for employee consultation. “We must react to this” she said, signalling that she wants to go further than a joint union-business commission that is expected to propose a reduction in the overall number of seats on supervisory boards.

The BDA employers’ association wants to restrict workers to only a third of seats on all supervisory boards. Unions argue co-determination eases dispute management and has no impact on business performance.

Co-determination structures exist in 18 of the European Union’s 25 member states, but Germany is the only country that gives employee representatives more than a third of seats of companies’ supervisory boards.

Employees in companies with more than 2,000 staff occupy half the supervisory board seats (*)– a system that, business organisations argue, hinders decision-making and makes Germany a less attractive investment location. Mr Sommer said he saw “very little chance” the co-determination commission – of which he is a member – would reach agreement on substantial changes.

The unions have been on the defensive since elections for the DGB leadership this week highlighted political divisions. Mr Sommer was re-elected with 78 per cent support from delegates – compared with 94 per cent in 2002.
.
(*) E aggiungo qualcosa che già ho scritto...ma che qualcuno non vuol capire.
Se e quando partiranno i fondi pensione che saranno gestiti dai
ns sindacati, si potrà verificare che gli stessi detenendo un pacchetto
di azioni di una determinata 'company' potranno tentare di
condizionarne le scelte.....a me questo non và bene...
 
ramirez ha scritto:
non c'è trippa per gatti..due
si può essere d'accordo o no...ma le cose stanno così..

Merkel urges more labour flexibility
By Hugh Williamson in Berlin
Published: May 24 2006 18:41 | Last updated: May 24 2006 18:41

Chancellor Angela Merkel on Wednesday demanded more labour market flexibility and fewer rights for workers on company boards :)
in comments that opened new battle lines with Germany’s trade union movement.





Speaking at a DGB trade union federation congress in Berlin, Ms Merkel rejected labour movement demands for a minimum wage of €7.50 ($9.64, £5.12) an hour, and said the system of co-determination, which gives German workers a role in corporate decision-making, should be adapted to “the new business realities across Europe”.
The chancellor, who visited China this week, said Germany must be ready for growing international competition.
“I said this in China and I say it here . . . more people are competing for the best ideas than in the past, and the high standard of living we have achieved can no longer be taken for granted.”

The speech, her first significant address to trade unionists since taking power in November, was met with jeers and whistles. Michael Sommer, DGB chairman, said afterwards that the union movement “would do everything to ensure “unfavourable policies are not implemented” by the government.

More than in other recent speeches Ms Merkel stressed the need for “structural reforms” to the labour market, welfare state and health insurance system. “We need change. We must keep what has proven its worth but change what burdens us,” she said.

She called for flexible company-based collective bargaining, incentives for unemployed people to take low-paid jobs, and for sector-specific minimum wage levels instead of a one-size fits all rate. Union proposals for an economy-wide minimum wage system “would not create jobs” but destroy them by making labour too expensive, she argued.On co-determination she said “other European countries have completely different arrangements” for employee consultation. “We must react to this” she said, signalling that she wants to go further than a joint union-business commission that is expected to propose a reduction in the overall number of seats on supervisory boards.

The BDA employers’ association wants to restrict workers to only a third of seats on all supervisory boards. Unions argue co-determination eases dispute management and has no impact on business performance.

Co-determination structures exist in 18 of the European Union’s 25 member states, but Germany is the only country that gives employee representatives more than a third of seats of companies’ supervisory boards.

Employees in companies with more than 2,000 staff occupy half the supervisory board seats (*)– a system that, business organisations argue, hinders decision-making and makes Germany a less attractive investment location. Mr Sommer said he saw “very little chance” the co-determination commission – of which he is a member – would reach agreement on substantial changes.

The unions have been on the defensive since elections for the DGB leadership this week highlighted political divisions. Mr Sommer was re-elected with 78 per cent support from delegates – compared with 94 per cent in 2002.
.
(*) E aggiungo qualcosa che già ho scritto...ma che qualcuno non vuol capire.
Se e quando partiranno i fondi pensione che saranno gestiti dai
ns sindacati, si potrà verificare che gli stessi detenendo un pacchetto
di azioni di una determinata 'company' potranno tentare di
condizionarne le scelte.....a me questo non và bene...

Quella che serve alla Germania non serve da noi perchè le condizioni di struttura dell'impresa sono diverse. Il costo del lavoro, fiscalmente parlando in Italia è nettamente migliore che in Germania e Francia.
Il problema da noi sono le imprese (dimensioni, struttura finanziaria, qualità del prodotto) e quello che orbita intorno ad esse, non le tasse (se non in termini di evasione).
 
Ultima modifica:
Anche a mio avviso andare a valutare Francia e Germania per riportarlo da noi sarebbe un errore.
Il nostro tesuto industriale non è comparabile con il loro. I nostri problemi non sono uguali ai loro. Il problema è che si tratta di capire se vogliamo creare più posti a basso salario (accettando di mediare al ribasso il reddito medio) o mantenere buoni salari ma avere meno posti di lavoro.
Le piccole imprese non sono in grado di assumere tanto per via del fatto che sono schiacciabilissime dalla concorrenza. Non hanno la possibilità di dire anche quando va maluccio mi tengo cmq i 10 dipendenti in più che mi servono quando invece va a gonfie vele.

O si ingrandisce la dimensione media delle imprese o bisogna accontentarsi...
 
FaGal ha scritto:
Quella che serve alla Germania non serve da noi perchè le condizioni di struttura dell'impresa sono diverse. Il costo del lavoro, fiscalmente parlando in Italia è nettamente migliore che in Germania e Francia.
Il problema da noi sono le imprese (dimensioni, struttura finanziaria, qualità del prodotto) e quello che orbita intorno ad esse, non le tasse (se non in termini di evasione).
Fabio mi spiace ma eviti il problema.
Il problema della Merkel (ed anche il nostro) è
l'ingombrante presenza del sindacato...
in Germania addirittura seduto nel 'board' delle imprese...
D'altronde proviamo a ragionare.....se la concorrenza è
effettivamente quella dei paesi più poveri che inevitabilmente
portano ad una contrazione dei salari.......è il sindacato
quell'entità che può dare le risposte più coerenti?
Per me no.
 
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