Spigolature

LA BARCA


Una coppia andò in vacanza su un lago in cui si poteva pescare.
Lui amava pescare all’alba e lei adorava la lettura.
Una mattina lui tornò dopo alcune ore di pesca e decise di sdariarsi e schiacciare un pisolino.
Benchè il lago non le fosse familiare, lei decise di uscire in barca.
Remò un po’, ancorò la barca e ricominciò a leggere il suo libro.
Dopo un po’ apparve una guardia vicino alla sua barca.
Richiamòla donna e le disse: "Buongiorno, signora… Cosa sta facendo?"
"Leggo" – rispose lei, pensando che fosse evidente.
"Si trova in un’area di divieto di pesca" "Ma non sto pescando!
Non lo vede?"
"Sì però ha con sè tutto l’occorrente. Dovrà seguirmi e la dovrò multare".
"Se lo fa, la denuncio per violenza carnale!" – disse la donna indignata.
"Ma.. ma se non l’ho neanche toccata!"
"Sì, però ha con sè tutto l’occorrente!"

Morale: Non discutere mai con donne che sanno… leggere …
 
Il diavolo e la castagna

Nel tempo dei tempi il buon Dio aveva deciso di donare all'uomo, per certi suoi meriti, un frutto davvero eccellente.
Pensò un attimo e la sua sapienza infinita gli suggerì di crearne uno con la polpa candida e dolce, con la camiciola
lanosa contro i rigori del gelo e con la buccia solida contro gli insetti e i roditori del bosco.
L'uomo assaggiò il nuovo frutto e lo trovò delizioso e quando la stella del vespro salì a curiosare oltre il monte,
egli piegò le ginocchia a ringraziare il Signore.
li diavolo, però, ne fu così seccato e invidioso che passò sull'istante all'azione. li mattino seguente l'uomo, tornato
ai suoi frutti, li trovò avvolti in una corazza di spine, impenetrabile.
Corse, allora, al trono di Dio e così disse:
Signore, non mi è più possibile gustare il tuo dono: è tutto una spina.
li buon Dio sorrise e lo assicùrò:
Torna tranquillo alle tue faccende, attendi con molta fede, con un po' di pazienza e vedrai...
Passarono alcuni giorni, poi, quasi d'improvviso avvenne il miracolo. Un mattino che la nebbia, sul monte, pareva d'argento, il riccio arcigno si aprì in forma di croce, liberando non una, ma tre, quattro castagne. ..
L'uomo ripetè sulla sua fronte il segno di croce apparso nel riccio, mentre il diavolo, sconfitto, dalla rabbia si
morse la coda, sprofondando sotto terra.

R. MARI
 
PICCOLE STORIE PER L'ANIMA

Bruno Ferrero


C’era una volta un re che rispondeva al nobile nome di Enrico il Saggio. Aveva tre figlie che si chiamavano Alba, Bettina e Carlotta. In segreto, il re preferiva Carlotta. Tuttavia, dovendo designare una sola di esse per la successione al trono, le fece chiamare tutte e tre e domandò loro: “Mie care figlie, come mi amate?”.

La più grande rispose: “Padre, io ti amo come la luce del giorno, come il sole che dona la vita alle piante. Sei tu la mia luce!”.

Soddisfatto, il re fece sedere Alba alla sua destra, poi chiamò la seconda figlia.

Bettina dichiarò: “Padre, io ti amo come il più grande tesoro del mondo, la tua saggezza vale più dell’oro e delle pietre preziose. Sei tu la mia ricchezza!”.

Lusingato e cullato da questo filiale elogio, il re fece sedere Bettina alla sua sinistra.

Poi chiamò Carlotta. “E tu, piccola mia, come mi ami?”, chiese teneramente.

La ragazza lo guardò fisso negli occhi e rispose senza esitare: “Padre, io ti amo come il sale da cucina!”.

Il re rimase interdetto: “Che cosa hai detto?”.

“Padre, io ti amo come il sale da cucina”.

La collera del re tuonò terribile: “Insolente! Come osi, tu, luce dei miei occhi, trattarmi così�? Vattene! Sei esiliata e diseredata!”.

La povera Carlotta, piangendo tutte le sue lacrime, lasciò il castello e il regno di suo padre. Trovò un posto nelle cucine del re vicino e, siccome era bella, buona e brava, divenne in breve la capocuoca del re.

Un giorno arrivò al palazzo il re Enrico. Tutti dicevano che era triste e solo. Aveva avuto tre figlie ma la prima era fuggita con un chitarrista californiano, la seconda era andata in Australia ad allevare canguri e la più piccola l’aveva cacciata via lui…

Carlotta riconobbe subito suo padre. Si mise ai fornelli e preparò i suoi piatti migliori. Ma invece del sale usò in tutti lo zucchero.

Il pranzo divenne il festival delle smorfie: tutti assaggiavano e sputavano poco educatamente nel tovagliolo.

Il re, rosso di collera, fece chiamare la cuoca.

La dolce Carlotta arrivò e soavemente disse: “Tempo fa, mio padre mi cacciò perchè‚ avevo detto che lo amavo come il sale di cucina che dà gusto a tutti i cibi. Così�, per non dargli un altro dispiacere, ho sostituito il sale importuno con lo zucchero”.

Il re Enrico si alzò con le lacrime agli occhi: “E il sale della saggezza che parla per bocca tua, figlia mia. Perdonami e accetta la mia corona”.

Si fece una gran festa e tutti versarono lacrime di gioia: erano tutte salate, assicurano le cronache del tempo.

Voi siete il sale della terra (Matteo 5,13).
 
L'angolino del sorriso

Una donna entra in farmacia:
– Per favore, vorrei dell’arsenico.
Trattandosi di un veleno letale,
il farmacista chiede informazioni prima di accontentarla.
– E a che le serve, signora?
– Per ammazzare mio marito.
– Ah! capisco … pero’ in questo caso purtroppo non posso darglielo!
La donna senza dire una parola estrae dalla borsetta
una foto di suo marito a letto con la moglie del farmacista.
-Le chiedo scusa, signora, bastava dirlo che aveva la ricetta!
 
L’UOMO E LA DONNA
Victor Hugo



L’uomo è la più elevata delle creature.
La donna è il più sublime degli ideali.
Dio fece per l’uomo un trono, per la donna un altare.
Il trono esalta, l’altare santifica.
L’uomo è il cervello. La donna il cuore.
Il cervello fabbrica luce, il cuore produce amore.
La luce feconda, l’amore resuscita.
L’uomo è forte per la ragione.
La donna è invincibile per le lacrime.
La ragione convince, le lacrime commuovono.
L’uomo è capace di tutti gli eroismi.
La donna di tutti i martìri.
L’eroismo nobilita, il martirio sublima.
L’uomo ha la supremazia.
La donna la preferenza.
La supremazia significa forza;
la preferenza rappresenta il diritto.
L’uomo è un genio. La donna un angelo.
Il genio è incommensurabile;
l’angelo indefinibile.
L’aspirazione dell’uomo è la gloria suprema.
L’aspirazione della donna è la virtù estrema.
La gloria rende tutto grande; la virtù rende tutto divino.
L’uomo è un codice. La donna un vangelo.
Il codice corregge, il vangelo perfeziona.
L’uomo pensa. La donna sogna.
Pensare è avere il cranio di una larva;
sognare è avere sulla fronte un’aureola.
L’uomo è un oceano. La donna un lago.
L’oceano ha la perla che adorna;
il lago la poesia che abbaglia.
L’uomo è l’aquila che vola.
La donna è l’usignolo che canta.
Volare è dominare lo spazio;
cantare è conquistare l’Anima.
L’uomo è un tempio. La donna il sacrario.
Dinanzi al tempio ci scopriamo;
davanti al sacrario ci inginocchiamo. Infine:
l’uomo si trova dove termina la terra,
la donna dove comincia il cielo.
 
Misurare le parole



Giovanna Cosenza

Docente universitaria di Semiotica


Che il linguaggio contribuisca a forgiare ciò che pensiamo, sentiamo e addirittura percepiamo è qualcosa che la ricerca scientifica sa da tempo: schiere di psicologi, filosofi, sociologi e semiologi hanno ripetuto per tutto il Novecento che gli esseri umani sono fatti di parole e segni, oltre che di carne e ossa. È con le parole che costruiamo la nostra capacità di pensare, è di parole che sono fatti gran parte dei nostri pensieri, ed è dalle parole che dipende pure il mondo esterno, o almeno quella fetta che rientra nei limiti della nostra comprensione. Questa consapevolezza è ormai talmente diffusa da essere entrata nel senso comune: capita a tutti di sentir ripetere nei contesti più disparati, dai talk show ai supermercati, frasi come «Le parole sono pietre», che era il titolo di un libro di Carlo Levi, o «Le parole sono importanti», che fu urlata da Nanni Moretti nel film Palombella Rossa, per dar voce alla rabbia che il personaggio Michele Apicella provava contro i luoghi comuni sciorinati dalla giornalista che lo stava intervistando.



Le parole siamo noi insomma, e lo sappiamo. Inoltre sono pietre, nel senso che possono fare male, e molto. Se non si scelgono con ponderazione e non si usano con tatto. Anche di questa ponderazione ci riempiamo la bocca da anni, con il linguaggio politically correct: non diciamo più «handicappati» ma «disabili», non più «spazzini» ma «operatori ecologici», non più «neri» ma «neri» o «persone di colore». Per non parlare delle acrobazie linguistico-simboliche con cui cerchiamo di consolare le donne della loro discriminazione sociale ed economica, particolarmente più grave in Italia che in altri paesi sviluppati: «care colleghe e cari colleghi», «care/i colleghe/i», «car* collegh*» e via dicendo. Ma se da un lato ci esercitiamo in circonlocuzioni «politicamente corrette», dall’altro siamo pronti, oggi più di ieri, a usare la lingua in modo sbracato: turpiloquio, espressioni colorite, colloquiali e gergali hanno ormai invaso anche gli ambienti più colti ed elitari – dall’università all’azienda, dalla politica alle istituzioni – nell’idea che «parlare come si mangia» implichi maggiore autenticità ed efficacia del parlar forbito. Un’idea confermata tutti i giorni dai media, specie dalla televisione, dove l’aggressività linguistica è diventata per molti (giornalisti, star, ospiti) un vezzo, un fatto di stile. E in quanto tale fa tendenza e si riproduce ovunque, dai salotti chic ai flaming su internet.

Non è facile trovare un equilibrio fra questi due poli: da una parte, infatti, le formule politicamente corrette non bastano a costruire il rispetto che pretenderebbero di esprimere, ma restano spesso una semplice facciata, dietro alla quale si possono camuffare le peggiori tendenze razziste, omofobe e sessiste; d’altra parte è vero anche che la sciatteria linguistica può implicare sciatteria esistenziale e relazionale: «Chi parla male pensa male e vive male», diceva ancora Nanni Moretti/Michele Apicella. Ma se gli eccessi eufemistici possono cadere nell’ipocrisia, pure la posizione di Moretti corre i suoi rischi, che sono quelli dello snobismo: il mondo è pieno di persone che non hanno potuto dotarsi degli strumenti culturali necessari a raffinare il modo in cui parlano, ma sono ugualmente capaci di pensare e vivere benissimo, vale a dire con autenticità e rispetto per gli altri. Molto più di quanto non facciano certi sapientoni, la cui arroganza – verbale e non – vediamo all’opera tutti i giorni.

E allora, come se ne esce? Come si trova la misura giusta? Purtroppo non c’è una soluzione generale, perché l’attenzione, il senso di opportunità, il rispetto sono sempre relativi al contesto e al momento in cui si esercitano, ma soprattutto alla persona (o persone) a cui sono indirizzati. E oltre che con le parole possono essere trasmessi con l’espressione del volto, il tono della voce e gli atteggiamenti del corpo, con i quali si può confermare ciò che abbiamo detto, ma anche sconfessarlo. Perciò bisogna cercare la misura caso per caso, sempre ricordando che siamo ciò che diciamo e diciamo quel che siamo, ma lo diciamo con un mare di segni, sintomi e indizi ben più vasto delle parole, e lo diciamo anche con l’insieme dei nostri comportamenti e il tessuto delle nostre relazioni. Lo diciamo con tutta la nostra vita.
 
Elogio dell'Autunno


L'autunno è per definizione una stagione triste. Gli aggettivi e le espressioni usate per descriverlo in questo stato d'animo, caratterizzato dalla tristezza, sono infiniti: malinconico autunno, l'autunno della ragione, tristezze d'autunno, foglie morte d'autunno, tristi riti autunnali, l'autunno del nostro scontento, l'autunno del cuore, l'autunno della democrazia, l'autunno del pensiero, l'autunno della memoria, l'autunno dei morti e via tristeggiando.

Potremmo opporlo all’ “ottimismo della primavera” per il necessario equilibrio a vivere decentemente una vita che è fatta di tutte le stagioni. La parola autunno deriva dal francese antico “autompne”, in francese moderno “automne”. Più tardi la stessa voce venne a normalizzarsi sul latino “autumnus”. Ci sono esempi rari della parola fino al 12° secolo, ma si diffuse nel XVI.

Quale parola allora veniva usata per parlare di questa stagione di transizione? “Raccolto” era il termine maggiormente usato. Man mano però che lo spopolamento delle campagne venne ad accentuarsi si passò ad usare la parola “autunno”. Nel mondo anglosassone ci sono due termini per descrivere l’autunno: “autumn” e “fall”. Quest’ultimo porta con sè il significato di “cadere”. L’associazione alla caduta delle foglie è immediata. Questa immagine della “caduta dall’alto” caratterizza la parola in maniera quanto mai romantica.

In tutte le arti umane l’autunno, come le sue altre compagne di stagione, primavera, estate e inverno, sono state sempre celebrate. Nella musica, nella pittura, nella letteratura, nella fotografia. L’autunno di Vivaldi delle “Quattro Stagioni”, quello di Shelley nell’ “Ode al vento di Occidente”, di Carducci in “San Martino”, di Kandinsky nella pittura …

ll topos letterario della foglia morta, che cade ed è fragile, è affrontato da Leopardi, nella sua poesia Imitazione. San Martino di Carducci è un bozzetto naturalistico in cui i ritmi agresti autunnali mostrano una umanità semplice e serena. Anche in un’altra poesia della raccolta Odi barbare Carducci parla di autunno:

Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
Io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.

In “Novembre” Giovanni Pascoli l’autunno invece rappresenta la delusione di una primavera che non c’è più. Il sole così chiaro e gli albicocchi in fiore non fanno che perpetuare l’inganno: in realtà è “l’estate, fredda, dei morti”. Anche l’attività tipica autunnale dell’aratura dà spunto per un altro affresco sincero di carattere naturale nella poesia “Arano”, simile a San Martino di Carducci, ma con in più procedimenti tipici pascoliani dell’onomatopea (suo sottil tintinno) e della precisione lessicale (roggio, fratte, porche, marra, e infine moro nel senso di gelso). Analoga la poesia “Sera d’ottobre” in cui ricompaiono i campi arati e le foglie stridule. Importante anche la poesia “Nella nebbia” più descrittiva.

Sul tema della nebbia autunnale ritorna anche Corrado Covoni, poeta crepuscolare. “Soldati” di Ungaretti instaura una immediata, esclusiva, e per questo ancora più toccante, similitudine fra le foglie che cadono e gli uomini, i soldati, che durante la guerra morivano a migliaia. Si noti l’utilizzo del settenario, primo sentore di un ritorno del poeta ai metri classici della letteratura italiana:

Si sta come d’autunno
Sugli alberi le foglie



La nebbia agli irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
urla e biancheggia il mare;
Ma per le vie del borgo
Dal ribollir dè tini
Va l’aspro odor de i vini
L’anime a rallegrar.
Gira sù ceppi accesi
Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l’uscio a rimirar
Tra le rossastre nubi
Stormi d’uccelli neri,
Com’esuli pensieri,
Nel vespero migrar.


i avatar galloway
Pubblicato in: Biblioquando
 
AUTUNNO

Iniziano a cadere le foglie
stanche ormai di ciondolare dai rami,
sazie di sole e di pioggia,
percosse e violentate
dal vento prepotente
che ora le induce a posarsi
librandosi qua e la
come farfalle impazzite.

Maryella
 
"Una dolorosa perdita..."

A dire il vero non si sentiva molto bene e quell’ambiente non lo metteva comunque a suo agio, anzi da sempre si può dire; non c’era volta che appena entrato non provasse una incomprensibile voglia di darsela a gambe il più in fretta possibile. Anche adesso un senso di mancamento lo indusse verso la poltrona che lo accolse tremante e al limite dello svenimento. Chiuse gli occhi abbacinato da una luce prepotente, cerco di rilassarsi e per un attimo si senti come perduto, vuoto, insensibile a tutto. Ma una mano lo scosse. Apri gli occhi e vide il suo molare , ormai vinto e reso impotente, nelle mani del dentista…..

Maryella
 
Caro Frankyone riesci a leggere anche i messaggi?
 
""Un giorno una gallina ed un maiale si trovarono a passeggiare
insieme. Arrivati in una larga piazza videro un enorme cartello
con scritto: "Il mondo ha fame . Bisogna sfamare il mondo,
aiutateci!" La Gallina guardò il maiale e con tono molto serio
disse: E' giusto, anche noi possiamo dare qualcosa, daremo
uova e prosciutto......""

E poi ci vengono a dire che non c'è animale più stupido della gallina!!!
 
STRATEGIE

Un giorno, un uomo non vedente stava seduto sui gradini di un edificio con un cappello ai suoi piedi ed un cartello recante la scritta: “Sono cieco, aiutatemi per favore”.
Un pubblicitario che passeggiava lì vicino si fermò e notò che aveva solo pochi centesimi nel suo cappello.
Si chinò e versò altre monete, poi, senza chiedere il permesso dell’uomo, prese il cartello, lo girò e scrisse un’altra frase.
Quello stesso pomeriggio il pubblicitario tornò dal non vedente e notò che il suo cappello era pieno di monete e banconote.
Il non vedente riconobbe il passo dell’uomo: chiese se non fosse stato lui ad aver riscritto il suo cartello e cosa avesse scritto.
Il pubblicitario rispose “Niente che non fosse vero, ho solo riscritto il tuo in maniera diversa”, sorrise e andò via.

Il non vedente non seppe mai che ora sul suo cartello c’era scritto:

“Oggi è primavera… ed io non la posso vedere”.


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Cambia la tua strategia quando le cose non vanno bene
e vedrai che quasi certamente le cose andranno meglio.


Ciao da Tony Kospan
 
Erasmo da Rotterdam e il suo Elogio della follia



Elogio della Follia è un saggio scritto da Erasmo da Rotterdam (1466 – 1536) nel 1509. Opera straordinaria dell’Umanesimo, il testo è considerato una delle più grandi opere del pensiero occidentale, nonché l’elemento stimolatore per la Riforma protestante.

Erasmo (che scrisse il testo in poche settimane, durante un soggiorno con l’amico Tommaso Moro, a cui lo dedica), in questo arguto elogio, veste esattamente i panni della follia. Essa viene allegoricamente rappresentata come una dea in vesti di donna, posta all’origine di ogni bene sia per l’umanità, sia per gli stessi dei che riceverebbero al pari dei mortali i suoi doni. In primo luogo il dono della vita, perché nessuno genera o è stato generato se non grazie all’“ebbrezza gioiosa” della Follia.

È lei che parla, argomenta, espone, critica e tesse le lodi di se stessa. Questo straordinario espediente consentirà al filosofo di passare in rassegna tutte le miserie del genere umano e con una pungente ironia svelerà le sue debolezze, la sua confusione interiore, le sue false illusioni, le sue paure e tutti i suoi limiti. Sotto i colpi ben assestati della Follia nessuno sembra avere scampo. In ordine sono oggetto di critica grammatici, poeti, giuristi, filosofi, teologi, religiosi e monaci, re, cortigiani, vescovi, cardinali, pontefici. Tutti sono messi alla gogna e spogliati della loro autorevolezza.

L’Elogio della Follia è un saggio straordinariamente attuale che presenta un elemento chiave determinante: la stoltezza, alterazione della ragione, si trasforma nella saggezza della natura, pronta a soccorrere l’uomo in preda alla conoscenza. Erasmo infatti afferma che “i più fortunati sono coloro che riescono a tenersi lontani da qualunque disciplina per seguire la sola guida della natura che in nessuna parte è difettosa”. Il filosofo olandese capovolge dunque le consuete opinioni di saggezza e stoltezza. C’è una sola saggezza che aderisce perfettamente alla natura e che solo la stoltezza rende possibile, perché tutte le passioni sono un prodotto della follia. La distinzione tra saggio e folle a questo punto è presto fatta: il primo si fa guidare dalla ragione, il secondo dalle passioni. Qualche lettore potrebbe incautamente pensare che tra le righe, il vero protagonista dell’Elogio possa essere la stoltezza e non la follia, ma Erasmo elogia la stoltezza solo in quanto la ritiene la condizione umana più vicina alla follia, prossima alla follia, che ci spinge in direzione di essa, perché l’uomo solamente rifiutando la ragione umana può accedere alla Follia di Dio. Si aprono a questo punto pagine di critica feroce soprattutto nei confronti dei teologi.

“L’uomo che nasconde la sua follia è migliore dell’uomo che nasconde la sua sapienza”

Nell’Elogio della Follia ci sono per Erasmo diversi livelli di conoscenza del mondo. Il primo è il livello umano, della ragione, che non conduce a nessuna conoscenza; abbiamo poi il livello naturale che ci porta alla conoscenza del mondo; infine c’è il livello della conoscenza assoluta che è quello di Dio, a cui possiamo accedere solo attraverso la follia. L’abbandono assume una connotazione fondamentale. L’incredulità, o meglio, la presa di coscienza della propria incredulità sarà la chiave per vivere follemente il completo abbandono a Dio.

È doveroso ovviamente, ricordare che Erasmo distingue la follia in due specie. Una negativa che “scaturisce dagli inferi” e una positiva che nasce dall’uomo e che tutti desiderano. Quest’ultima è la follia pura, quella intesa da Platone: l’estasi dei poeti e degli amanti.

Secondo Erasmo, gli uomini sprecano la loro vita come se recitassero in una commedia, vestendo un’incredibile alternanza di panni diversi e indossando infinite maschere. Sono solo dei funamboli che cercano si tengono equilibrio nelle svariate convenzioni sociali. Il loro unico obiettivo è ricercare la felicità. Ognuno attua questa ricerca a proprio modo illudendosi persino di poterla trovare. Ma alla fine, colui che è veramente felice non è il saggio, che pensa di conservare tutti i segreti del mondo, bensì il folle. È veramente felice colui che sa godersi la vita, che conosce e ama se stesso, segue le proprie passioni e asseconda i propri impulsi.

Poco prima della conclusione Erasmo esalta in maniera magistrale la magnifica concezione platonica, poco fa menzionata, del rapporto tra follia e amore: “Platone scrisse che il delirio degli amanti è il più felice di tutti. Infatti chi ama ardentemente non vive in se stesso, ma in colui che ama, e quanto più si allontana da sé e si trasferisce in lui, tanto più gode. […] D’altra parte quanto più è perfetto l’amore, tanto più è grande e beato il delirio”.

Ci viene da pensare, alla luce di quanto esposto e di quanto audacemente argomentato dal filosofo, se l’Elogio della Follia conduca davvero verso quel percorso per trovare una possibile verità e se non sia proprio essa ad essere incaricata di tracciare questo percorso. Perché a pensarci bene: “quale azione dei mortali.. non è piena di follia, opera di folli in un mondo di folli?”
 
LA PALIZZATA

Raccontino di saggezza






C’era una volta un ragazzo con un pessimo carattere.

Suo padre gli diede un sacchetto pieno di chiodi e gli disse di piantarne uno nella palizzata del giardino ogni volta che bisticciava con qualcuno.

Il primo giorno ne piantò 37 di chiodi nella palizzata del giardino.

Le settimane seguenti, imparò a controllarsi e i numeri dei chiodi piantati nella palizzata diminuirono di giorno in giorno: scoprì che era più facile imparare a controllarsi che piantare i chiodi.

Finalmente, arrivò il giorno in cui il ragazzo non piantò nessun chiodo nella palizzata.

Allora andò dal padre e gli disse che oggi non aveva avuto bisogno di piantare nessun chiodo.

Suo padre allora gli disse di levare un chiodo dalla palizzata per ogni giorno che riusciva a non perdere la pazienza.

I giorni passarono e finalmente il ragazzo disse al padre che aveva levato tutti i chiodi dalla palizzata.


Il padre lo condusse davanti alla palizzata e gli disse:
” Figliolo, bravo, ti sei comportato bene, ma guarda quanti buchi hai lasciato nella palizzata.

Non sarà mai come prima.

Quando litighi con qualcuno e gli dici delle cose cattive, gli lasci delle ferite come queste.

Poco importa quante volte ti scuserai, la ferita rimarrà.

Una ferita verbale spesso fa più male di una fisica.

Una ferita fisica può guarire completamente senza lasciare traccia, quella verbale invece ti segna molto profondamente portando la tristezza nel cuore.

Ricordati che ci vuole un attimo per dire una cosa cattiva ad una persona, ma una volta detta non è più possibile cancellarla, anche se non si pensava veramente ed era solo la rabbia di un momento, quelle parole segneranno il suo cuore di tristezza per sempre.”

Tony Kospan
 
Di troppa liberta' si può anche morire

Da il "Giornale"

Prendete questo articolo con le pinze, maneggiatelo con cura e leggete le avvertenze d'obbligo: può essere nocivo e produrre effetti indesiderati. Dopo la premessa il tema: contro la libertà. La libertà ci sta soffocando, da ogni lato. I danni e i vizi che sta producendo hanno superato i pregi e i vantaggi. In occidente siamo giunti a un punto in cui la libertà deteriora il tessuto sociale, avvelena i rapporti umani, peggiora l'umanità. È giunto il tempo di rimettere in discussione ciò che non abbiamo mai discusso, dico noi contemporanei occidentali. L'unico dio rispetto a cui non è possibile professarsi atei o solo agnostici. Non è in discussione la libertà di pensiero, d'azione e d'impresa.

Ma la libertà come fondamento ci sta facendo compromettere ogni base su cui regge la vita intima e familiare, pubblica e privata: non solo la libertà come arbitrio, di chi uccide, violenta e ruba nel nome della sua assoluta autodecisione rispetto a cose, uomini e limiti. E non solo la libertà di uccidersi, violentarsi e nuocersi nel nome stesso dell'autodecisione. Ma la libertà di rompere rapporti, legami e contratti, la libertà di diventare altro da sé, la libertà da ogni limite naturale, da ogni confine, da ogni vincolo esterno, da ogni identità e da ogni appartenenza. Nel suo seno covano l'egoismo, l'egocentrismo e il narcisismo. E chiunque ostacoli la mia libertà lo abbatto, come mostrano troppi casi di cronaca e di delitti famigliari; l'altro, fosse anche mio figlio, impedisce la mia libertà, dunque lo sopprimo. La libertà assoluta non tollera neanche le leggi che pure nascono a garanzia della libertà. Ma se la libertà è sciolta da tutto e viene prima di tutto, nulla può arrestarla, se non la forza, che diventa infatti la soluzione sempre più praticata per affermare la propria libertà contro quella altrui o per arrestare gli effetti di alcune libertà invasive o aggressive. La libertà come primato assoluto e smisurato non trova argini alla prevaricazione. Tra gli effetti secondari la libertà genera stress perché ci impone continue microscelte che producono ansia, ci ricorda Peter Sloterdijk

Non leggete però questa riflessione a rovescio, come un elogio della dittatura, dei regimi dispotici e totalitari o dei sistemi coercitivi. Non è affatto così, perché quei regimi e quei sistemi nascono dalla libertà assoluta concessa a un uomo, a un partito, a un potere, a cui è consentito ogni cosa, o quasi. Sono dunque malati di libertà, ma concentrata nelle mani di uno solo o di pochi. Queste considerazioni non sono rivolte contro le libertà civili, a cominciare dalla libertà di opinione che più ci riguarda, perché nessuno ha libertà di decidere cosa posso o non posso dire. Ossia non si tratta di considerare sacra la mia libertà di opinione, ma di negare a chiunque l'arbitrio d'impedirmelo. Lo stesso discorso investe l'ambito supremo: la vita non ha valore assoluto, è un passaggio, una catena infinita; ma nessuno può avere il potere, l'arbitrio di sopprimerla o di violarla. La libertà non è assoluta e di conseguenza nessuno ha il diritto assoluto sulla mia vita e sulla mia morte, né io né gli altri.

A cosa si riduce poi questa assoluta libertà? A non assumere responsabilità nel mondo, a non accettare nulla accanto e sopra di noi, ad accettare supini il capriccio dei propri sensi, la schiavitù degli impulsi, l'automatismo delle reazioni istintive, a non riconoscere la realtà, a mortificare l'essere nel nome del non essere perché è il regno infinito delle possibilità. La libertà si traduce così nel suo contrario, la sua parabola nasce all'insegna della volontà di onnipotenza e finisce all'insegna della volontà di autodistruzione; o sorge dalla liberazione di ogni nostra energia e finisce come schiavitù di ogni nostro impulso.

La libertà ci sta svuotando, ci sta facendo perdere la bussola, il senso del confine, che non è solo limite e misura ma anche garanzia di ciò che siamo e facciamo. Ci riduce a mucillagini indeterminate, che si sciolgono nell'arbitrio dei loro desideri estemporanei, senza nessuna capacità di padroneggiarli, perché ciò vorrebbe dire reprimersi. L'abolizione dell'autorità non ci libera da ogni soggezione ma genera la proliferazione di altre agenzie imperative, altri poteri che ci tengono in ostaggio non solo dall'alto, ma dal lato, dal basso e da dentro. L'autorità sorregge la libertà, ne bilancia il peso e la misura. In sua assenza altri pesi oscuri la sostituiscono. In generale è benefico il potere che nasce dall'autorità; è malefica invece l'autorità che nasce dal potere.

Non sono considerazioni mostruose o stravaganti, ma meritano di essere affrontate prima che sia troppo tardi, visto che la libertà corrente non vuole pensieri ma solo desideri, e alla fine ci riduce ad animali emotivi ma non-pensanti. Voi direte, queste filippiche contro la libertà si sa dove cominciano ma non si sa dove vanno a parare; o peggio, si sa, e sboccano sempre in cupi dispotismi. Invece io dico che dobbiamo reimparare a rimettere in discussione la regina assoluta del nostro mondo che ci sta portando alla rovina e mentre finge di farci del bene, o addirittura mentre ci fa sentire dei e demiurghi, ci riduce al rango di larve vanesie che non vogliono mai diventare adulte per non perdere lo stato potenziale dell'infanzia, aperto a ogni possibilità di vita, compresa la sua negazione. E facendoci credere di liberarci da ogni dipendenza superiore ci lascia completamente in balia del caso, della tecnica, dei desideri indotti o ingigantiti, fino a far coincidere nel modo più perverso la libertà con l'automatismo, la coazione a ripetere o l'impulso a dissipare.

IL GIORNALE
 
LA LIBERTA'

Trilussa

La Libbertà, sicura e persuasa
d’esse’ stata capita veramente,
una matina se n’uscì da casa:
ma se trovò con un fottìo de gente
maligna, dispettosa e ficcanasa
che j’impedì d’annà’ libberamente.

E tutti je chiedeveno: - Che fai? -
E tutti je chiedeveno: - Chi sei?
Esci sola? a quest’ora? e come mai?...
- Io so’ la Libbertà! - rispose lei -
Per esse’ vostra ciò sudato assai,
e mò che je l’ho fatta spererei...

- Dunque potemo fa’ quer che ce pare... -
fece allora un ometto: e ner di’ questo
volle attastalla in un particolare...
Però la Libbertà che vidde er gesto
scappò strillanno: - Ancora nun è affare,
se vede che so’ uscita troppo presto!
 
L'Angolino del Sorriso



Il turista americano e il tassista


Un turista americano giunge a Roma; appena uscito dall’aeroporto, prende un taxi indicando al conducente l’hotel al quale era diretto. Durante il tragitto, passano vicino a San Pietro e il turista chiede:
– In quanto tempo avete costruito questa grande Basilica?
– Beh considerando la sua maestosità e tutto il resto, più di cento anni – risponde il tassista.
Il turista americano si mette a ridere e aggiunge:
– Ahahah, in America l’avremmo costruita in 50 anni!
Dopo un po’ passano vicino al Pantheon e l’americano chiede di nuovo:
– E questo splendido edificio in quanto tempo è stato costruito?
– Mah saranno stati circa 10 anni, se non ricordo male!
Di nuovo l’americano si fa una bella risata e dice:
– Noi in America lo avremmo costruito in 5 anni!
Il tassista ormai stufo cominciava a innervosirsi, e dopo un po’ passano vicino al Colosseo.
L’americano: – E questo? In quanto tempo è stato costruito?
Il tassista infastidito: – Mah guardi… sò passato ieri e non c’era!
 
Tempo d'autunno


È autunno e lo si sente
dalla pioggia che cade,
dal vento che fischiando
attraversa le strade,
dalla nebbia che striscia
con le dite bagnate,
dalle foglie che cadono,
datte fredde giornate
che spingono i bambini
verso i banchi di scuola.
È autunno, sarà inverno:
pianpiano il tempo vola.

Anonimo
 
AUTUNNO


Sono cadute tutte le foglie
stanche ormai di ciondolare dai rami,
sazie di sole e di pioggia,
percosse e violentate
dal vento prepotente
che ora le induce a posarsi
librandosi qua e la'
come farfalle impazzite.....


Maryella
 
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