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L'Ira di Biden frantuma l'Ue. Meloni non va in America, le aziende sì (di C. Paudice)
Sempre più produttori di acciaio, componenti di aerei, automobili, di batterie elettriche e persino di energia, insomma l'industria manifatturiera ed energetica con pianta stabile in Europa fa in queste ore i conti con un assillo: se trasferire o meno quote di produzione negli Stati Uniti. Lì dove si ritroverebbero a operare in un ambiente legale e burocratico meno rigido, con costi energetici inferiori, un'inflazione in discesa ma soprattutto con un vasto piano di sussidi pubblici da 370 miliardi di dollari messo sul piatto dalla Casa Bianca. Ovvero
l'Inflation Reduction Act (Ira) che sta innescando lo spostamento di imprese europee sull'altra sponda dell'Oceano Atlantico. Ci sono quindi
i timori di una deindustrializzazione delle loro economie dietro il viaggio organizzato un po' in sordina dal ministro dell'Economia tedesco Robert Habeck e del suo omologo francese Bruno Le Maire negli Stati Uniti, tagliando fuori, non senza disappunto, l'Italia. L'entourage del ministro delle Imprese Adolfo Urso ha fatto trapelare una nota in cui si rivendica la presenza italiana a Stoccolma al Consiglio Competitività dell'Ue, come a rimarcare la partecipazione di Roma alle iniziative di natura comunitaria. E non a quelle condotte in solitaria da Berlino e Parigi. Le Maire e Habeck si recano martedì a Washington per incontrare il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen, e quello al Commercio Gina Raimondo per cercare di negoziare delle modifiche al maxi piano americano. Si tratta dell'ennesimo tentativo.
Sabato, il ministro francese ha invitato gli Stati Uniti a mostrare "trasparenza" nell'impiego dei massicci sussidi e placare i timori stavolta alimentati non dal rivale storico, Xi Jinping, ma da chi è sempre stato considerato un alleato e partner economico strategico come Joe Biden. Dopo essersi sostituiti alla Russia nelle forniture di combustibili fossili all'Europa,
facendoli pagare a prezzi salati rispetto ai prezzi praticati a imprese e consumatori americani, in particolare con il Gnl, gli Stati Uniti, senza nemmeno tentare di celarlo, stanno muovendo una minaccia commerciale che, col solito ritardo che contraddistingue l'azione europea, ha messo seriamente in allerta le cancellerie.
Chiaro, i problemi ci sono e quanto possa essere complesso per le aziende europee fare business qui lo dimostra l'esempio di Siemens Gamesa. Azienda tedesca leader mondiale nella produzione di turbine eoliche, ha chiuso il primo trimestre fiscale 2023 con un rosso di 884 milioni di euro. Paradossale per un settore, quello delle rinnovabili, dove la domanda del mercato è attesa crescere a livello esponenziale nei prossimi anni. Ad assestare un duro colpo al bilancio una serie di guasti e manutenzioni ma nella presentazione dei risultati la società ha evidenziato la firma di nuovi ordini per soli 1,6 miliardi di euro (-35% rispetto a un anno fa). Ma le prospettive restano buone anche perché due impianti negli Stati Uniti dove la produzione era sospesa, in Iowa e in Kansas, riprenderanno a lavorare, ha annunciato giovedì scorso l'amministratore delegato Jochen Eickholt: "L'attenzione dell'Ira sulle tecnologie pulite ha dato una scossa alle discussioni con i clienti nel mercato statunitense. Stiamo per riaprire quelle fabbriche prima del previsto perché vediamo una domanda più forte negli Stati Uniti". È l'effetto Ira.
Siemens Gamesa non è l'unica grande azienda europea a subire il richiamo delle sirene americane. Il produttore tedesco di acciaio Klöckner ha recentemente acquisito la messicana National Material of Mexico per ampliare la sua presenza nel mercato nordamericano. Operazione da 340 milioni di dollari portata a compimento dalla controllata statunitense Kloeckner Metals Corporation. A differenza delle imprese Ue, quelle messicane e canadesi godono di esenzioni ai sensi dell'Ira. La lista tuttavia è corposa. Climeworks, ad esempio, è una società svizzera che dispone della tecnologia più avanzata per la cattura di anidride carbonica direttamente dall'aria. Nel genere è considerata un fiore all'occhiello dell'industria da questo lato dell'Atlantico, ma ora "stiamo guardando con occhio attento oltre lo stagno", ha detto Christoph Beuttler, Chief Climate Policy Officer. In altre parole, "stiamo cercando di espanderci negli Usa". Motivo? La politica fiscale americana della legge simbolo di Joe Biden che innalza i crediti di imposta per le imprese che catturano e immagazzinano CO2 da 50 dollari a 180 dollari a tonnellata, oltre al piano da 3,5 miliardi per lo sviluppo di impianti di rimozione delle emissioni inquinanti. I contatti tra la società e funzionari americani sono iniziati diversi mesi fa e i rapporti stabiliti "sono molto buoni".
Di fronte all'inazione o all'azione ridotta della Commissione Europea, progetti all'avanguardia che avrebbero buone ragioni per nascere e svilupparsi in Ue stanno lentamente spostando il loro focus oltre oceano. Come Marvel Fusion, startup tedesca nella fusione nucleare, anch'essa già sotto pressione di funzionari americani per stabilirsi sul suolo americano, come ha riportato un recente articolo del Financial Times. L'Unione Europea rischia di restare indietro nella cattura di CO2, nel nucleare di futura generazione e persino nell'idrogeno, secondo uno studio di Aurora Energy. Un rapporto infatti mette in evidenza che nel 2030 l'idrogeno importato dall'estero potrebbe essere economicamente più vantaggioso per l'Ue rispetto a quello prodotto in casa. Con buona pace della difesa delle catene di fornitura e degli approvvigionamenti energetici sempre più strategici. Basti pensare al colosso energetico spagnolo Iberdrola, che al momento ha una presenza in sei Stati americani e attivi per oltre 40 miliardi di dollari. Ora ha portato la sua quota di investimenti circa la metà circa del totale, rispetto alla quota del 23 per cento riservata all’Europa. L’amministratore delegato Ignacio Galán ha fatto ben intendere che al momento gli Stati Uniti sono un posto molto più conveniente in cui investire, grazie al sostegno di circa 100 miliardi di dollari per la produzione di idrogeno da fonti rinnovabili, rispetto ai cinque miliardi di euro messi da Bruxelles.
La 3Sun Usa, controllata americana di Enel, è orientata alla costruzione di una megafabbrica di pannelli solari da 6 GW, nel Texas o nella zona dei Grandi Laghi, come riportato dal Wall Street Journal. Sarebbe il doppio della produzione rispetto alla gigafactory di Catania. Il costo dell'operazione è di un miliardo di dollari con uno sbocco occupazionale da 1500 posti di lavoro. Per il colosso energetico tedesco RWE la legge targata Biden è stata determinante nella decisione di spendere quasi sette miliardi di dollari per rilevare Clean Energy Businesses. Secondo la società grazie all'operazione diventerà la quarta azienda più grande in Usa nelle energie rinnovabili e il secondo operatore solare. "Le società adorano il fatto che l'Ira sia a lungo termine", ha affermato Lucas Ferhani, analista di Jefferies in un rapporto di S&P Global, indicando i crediti d'imposta di dieci anni contenuti nella legislazione statunitense per settori come l'energia rinnovabile, i veicoli elettrici e manifattura avanzata. "È la prima volta che potenzialmente abbiamo un decennio di visibilità".
Di certo il tedesco Habeck citerà con i rappresentanti della Casa Bianca il caso Northvolt, un esempio da appuntarsi sul taccuino. Colosso svedese nella produzione di batterie per auto elettriche, aveva annunciato la scorsa primavera una megafactory per le celle e tremila posti di lavoro a Heide, nelle brughiere dello Schleswig-Holstein. Ma è ancora tutto fermo perché la pioggia di sussidi americani ha cambiato i piani dell'azienda svedese. L'idea iniziale era che fra lo Stato centrale e il Land l'investimento sarebbe stato da 155,4 milioni di euro, con il 30% della somma, pari a 46,5 milioni, a carico della regione di Kiel. Northvolt vuole avviare la produzione a partire dal 2025. Ma con l'Ira di Biden i sussidi pubblici potrebbero sfiorare gli ottocento milioni di dollari. Chiaro che la società svedese ora chieda "condizioni giuste" per poter investire in Germania. E il cancelliere federale Olaf Scholz teme che la Casa Bianca gli sfili l'investimento da sotto il naso o quantomeno faccia passare quello tedesco in secondo piano.
Ma Habeck potrebbe discutere negli States anche dei recenti progetti annunciati dalle sue case automobilistiche, fiore all'occhiello della manifattura tedesca. Bmw prevede un investimento da due miliardi di dollari nella Carolina del Sud. Anche qui l'Ira garantisce condizioni di favore (quasi ottomila dollari per veicolo) a chi produce sul suolo americano, a patto che vengano rispettate determinate condizioni. Come illustra bene
un rapporto dell'Institut Montaigne, prima di tutto i veicoli elettrici dovranno utilizzare per almeno il 40% materie prime e minerali critici estratti e prodotti negli Usa o in Paesi che hanno accordi commerciali con gli Usa. Soglia che però nel 2026 salirà all'80%. E poi i componenti - come le celle - dovranno essere prodotte per il 50% in Stati federali americani, in Canada o in Messico (100% entro il 2029).
Il piano americano è potenzialmente un
game changer tale da assestare un colpo esiziale all'industria manifatturiera dell'Ue, tanto quanto la minaccia cinese. Lo hanno capito tutti che le nuove agevolazioni in termini di credito d'imposta creeranno "squilibri e iniquità", ha affermato Guillaume Faury, l'amministratore delegato del colosso degli aerei Airbus, competitor storico dell'americana Boeing.
La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen la scorsa settimana ha lanciato il nuovo Green Deal Industrial Plan. Piano che ruota intorno a due pilastri: un fondo sovrano comune entro l'estate e aiuti di Stato nel breve termine. Tuttavia, il primo pilastro particolarmente spinto dai Paesi ad alto debito come l'Italia è votato per ora al fallimento. Circa dieci Stati membri hanno già detto di essere fermamente contrari a nuovi fondi comuni per competere con il vasto piano di sussidi approvato dalla Casa Bianca e spingono per allentare piuttosto le norme sugli aiuti di Stato. Una mossa che rischia tuttavia di compromettere definitivamente il mercato interno dell'Ue.
Mercato invero in parte già compromesso se si pensa che nel
contrasto al caro energia,
due terzi dei sussidi pubblici in Ue sono stati erogati solo da Berlino e Parigi. Il fattore tempo è inoltre determinante: arrivare a un accordo a livello europeo su nuovo debito comune, se mai ci dovesse essere, richiederebbe mesi di lunghi e complicati negoziati. Il Fondo Sovrano suona molto come la riforma del mercato elettrico, annunciata da Bruxelles ormai un anno fa e di cui al momento non si è visto nemmeno una pagina a causa della contrarietà del Nord Europa che non vuole mettere mano al mercato. O meglio, non vuole farlo solo quando non le conviene. Quando si parla di aiuti di Stato - idealmente l'opposto del libero mercato - per contrastare la minaccia americana, l'allentamento è la via preferita perché più rapida e soprattutto capace di garantire ai Paesi con maggiore spazio fiscale come la Germania, Paesi Bassi e compagnia di arginare per tempo la fuga di imprese verso l'altra sponda dell'Atlantico. E quindi di proteggere la loro industria manifatturiera.
L'ipocrisia della "frugalità" spesso denunciata tuttavia solo ora inizia a far breccia nella dialettica interna europea. Perché è sempre più evidente che i paesi Ue che "che amano definirsi 'frugali' sono anche buongustai quando si tratta di aiuti statali", ha detto polemicamente oggi il Commissario al Mercato interno Thierry Breton. "Se si mettono i sussidi dei Paesi Ue in relazione alla loro produzione economica", ha detto, "la Finlandia è in testa con circa il 9,3%, seguita dalla Germania con il 9,2% e dalla Danimarca con l'8%".
In un confronto con il Commissario Ue Gentiloni, il falco tedesco Lindner, ministro delle Finanze, ha chiarito la scorsa settimana tutta la sua contrarietà all'idea di un fondo sovrano europeo per rispondere a Washington. Dalla sua parte
si è schierata l'Olanda ma pure altri sette Paesi, autori di una lettera recapitata la scorsa settimana al vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis in cui si legge che "non dovrebbe essere introdotto alcun nuovo finanziamento" e di attingere piuttosto alle risorse del Recovery Fund, sebbene siano già state allocate e sottoposte a un lungo procedimento autorizzativo e un negoziato da parte delle istituzioni europee e quelle nazionali. Anche Berlino, a parole sempre contraria all'intervento dello Stato nel mercato, a fine 2022
ha preautorizzato una spesa pubblica da 200 miliardi con cui sostenere la sua economia e soltanto quella. Quasi il 5% del suo Pil, roba che Paesi come l'Italia possono solo sognare.
I piani della Commissione Europea in materia di aiuti di Stato sembrano inoltre sposare bene le esigenze del Nord Europa e dell'industria tedesca, rappresentata da Habeck a Washington nelle prossime ore. Si tratta del Temporary Crisis and Transition Framework (TCTF) nell'ambito del Net-Zero Industry Act. Una parte è infatti rivolta agli investimenti in settori strategici per la transizione ecologica come "turbine eoliche, pannelli solari, batterie elettriche, pompe di calore, sistemi di cattura e immagazzinaggio di CO2 e materie prime connesse". L'aiuto può coprire fino al 10% dei costi di produzione e inizialmente stare sotto la soglia dei 100 milioni, se viene ravvisato il rischio di delocalizzazione fuori dall'Ue o tra Stati membri. Tuttavia, come nota l'analista Simona Benedettini su twitter, questo tipo di aiuti a certe condizioni può essere aumentato sino a raggiungere l'entità di quello offerto alla stessa impresa da un Paese terzo fuori Ue. Quasi una norma
ad aziendam, direbbe qualcuno, pensando all'investimento di Northvolt ad Heide, ora minacciato dagli Usa.
Si tratta di ragionamenti che in linea teorica varrebbero anche per Paesi come Italia, Spagna e Grecia, ma non nella pratica. Perché gli aiuti di Stato concorrono alla formazione del deficit e del debito pubblico, e il rigido quadro regolatorio dell'Ue rischia perciò di tagliare fuori gli Stati con un maggiore indebitamento. Quello stesso quadro regolatorio che proprio
i Paesi frugali non intendono allentare, in nome della corretta gestione delle finanze pubbliche a dispetto di ogni ciclo economico. "C'è il rischio concreto", ha detto Breton, "che soprattutto gli Stati membri che hanno un margine di manovra fiscale siano in grado di utilizzare rapidamente queste disposizioni", mentre in futuro dobbiamo invece "garantire che tutti i Paesi abbiano uguale accesso ai fondi pubblici. Oggi non è sempre così". Amara scoperta ma è in queste condizioni e con queste divisioni che l'Ue si appresta a contrastare il massiccio piano di sussidi pubblici che Biden ha iniettato nella sua economia, a tacere delle politiche dirigiste da sempre attuate dalla Cina e che le hanno permesso di dominare le catene di fornitura strategiche nella transizione green. Auguri.
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