watson e Simone Weil

  • Ecco la 60° Edizione del settimanale "Le opportunità di Borsa" dedicato ai consulenti finanziari ed esperti di borsa.

    Questa settimana abbiamo assistito a nuovi record assoluti in Europa e a Wall Street. Il tutto, dopo una ottava che ha visto il susseguirsi di riunioni di banche centrali. Lunedì la Bank of Japan (BoJ) ha alzato i tassi per la prima volta dal 2007, mettendo fine all’era del costo del denaro negativo e al controllo della curva dei rendimenti. Mercoledì la Federal Reserve (Fed) ha confermato i tassi nel range 5,25%-5,50%, mentre i “dots”, le proiezioni dei funzionari sul costo del denaro, indicano sempre tre tagli nel corso del 2024. Il Fomc ha anche discusso in merito ad un possibile rallentamento del ritmo di riduzione del portafoglio titoli. Ieri la Bank of England (BoE) ha lasciato i tassi di interesse invariati al 5,25%. Per continuare a leggere visita il link

Anita

Nuovo Utente
Sospeso dallo Staff
Registrato
26/5/02
Messaggi
1.378
Punti reazioni
50
Siamo tutti in trepidante attesa: watson sta freneticamente ricercando, sta mandando in tilt svariati motori di ricerca per creare il più bel 3d dedicato ad un personaggio famoso: Simone Weil, grande filosofa.

:)
 
ecchime.
Ho preparato la colla.
Vado ad iniziare.
 
sweil.gif



Si inizia bene!!
 
Simone Weil (1909-1943)
Nasce a Parigi nel 1909 da genitori ebrei non praticanti.
Porta a termine, nonostante la sua salute fortemente cagionevole, gli studi liceali ed universitari laureandosi in filosofia. A 16 anni vive una forte crisi depressiva, il cui frutto più significativo è la scoperta di una personale "vocazione alla verità" che non l’abbandonerà più.
Insegna filosofia in vari licei francesi, con l'interruzione di due anni in cui lavora in fabbrica.
Nel ’37 vive un’esperienza mistica di "incontro col Cristo" particolarmente intensa che indirizzerà il suo pensiero in termini decisamente spirituali. Da allora preferirà alla cultura platonico-ellenica, cui aveva dedicato varie speculazioni, lo studio dei principali testi sacri esistenti, dal Libro dei Morti Egiziano al Corano, dalla Bibbia alla Bhagavad-Gita. Nel ’40 abbandona Parigi a causa dell’invasione tedesca e si rifugia dapprima a Marsiglia e poi negli Stati Uniti, da qui passa in Inghilterra dove lavora per l’organizzazione "France libre". Muore il 24 agosto 1943 nel sanatorio di Ashford.

Contesto storico
Prende parte in più occasioni alla vita politica di quegli anni tra le due guerre, intrattenendo vari contatti: ora con i gruppi della resistenza repubblicana, durante una breve e sfortunata partecipazione alla guerra civile spagnola, ora ospitando per un breve periodo il leader antistalinista Trotzkij, nonchè organizzando manifestazioni antifasciste di vario genere che le costeranno la segnalazione alle autorità scolastiche e relativi trasferimenti.
 
Il pensiero


Simone Weil subisce dapprima il fascino del marxismo (sono gli anni della rivoluzione d’Ottobre) di cui tuttavia rifiuta la configurazione teorica dello stato per il suo autoritarismo. Si occupa di politica fin dagli anni del liceo ma non si iscrive mai ad alcun partito. La sua stessa militanza sindacale e politica iniziale - più anarchica che marxista - trova le sue ragioni in un’ispirazione etica che la guiderà sempre a mettersi dalla parte degli oppressi:
"Occorre essere sempre disposti a cambiare di parte per seguire la giustizia, questa eterna fuggiasca dal campo dei vincitori." Filosoficamente aderisce inizialmente al pensiero dei suoi insegnanti Alain e Le Senne, esponenti di un filone dello spiritualismo francese di inizio secolo, permeato di una forte carica anti sistematica. Nella sua esperienza di insegnamento ne proseguirà il metodo invitando gli allievi a leggere direttamente i testi dei filosofi anzichè i manuali.
Successivamente Simone Weil andrà sviluppando il suo pensiero che sarà sempre più caratterizzato dalle esperienze interiori. Gli anni di lavoro in fabbrica danno l’avvio ad una profonda e sofferta riflessione sul senso della propria esistenza, mentre vive l’esperienza operaia come occasione di esperienza interiore, che annota fedelmente: "Lentamente nella sofferenza - scrive in "La condizione operaia" - ho riconquistato attraverso la schiavitù il senso della mia dignità di essere umano, un senso che questa volta non si basava su alcunchè di esteriore." Sono anche gli anni in cui si intensificano quei dolori di testa che la indurranno ad esperire "che cosa significa assaporare la morte da viva." L’idea della morte, così presente in Simone Weil, è qualcosa di più del frutto di momentanei scoramenti: attraverserà tutta la sua vita costituendone il vettore di ricerca della verità. Scrive in una lettera: "Ho sempre pensato che l’istante della morte sia la norma, lo scopo della vita.Pensavo che, per coloro che vivono come si conviene, sia l’istante in cui per una frazione infinitesimale di tempo penetra nell’anima la verità pura, nuda, certa, eterna.
Posso dire di non aver desiderato per me altro bene." Abbandona gradualmente l’interesse più propriamente politico e sospinge sempre più la sua riflessione in direzione del senso dell’esistere, colto nei suoi risvolti religiosi e mistici, senza con ciò rinunciare al tentativo di tradurre il tutto in Pensiero, compito che non delegò mai ad alcuna istituzione politica nè ecclesiastica: questo fu uno dei punti fermi che le garantì la coerenza con se stessa.
E’ un personaggio estremamente significativo per la pregnanza e la radicalità con cui ha vissuto e concretizzato via via la sua visione del mondo attraverso le sue trasformazioni. Come filosofa certamente non fu capita: ci fu sempre un maggior interesse per il carattere, da molti ritenuto eccentrico ed esemplare, delle sue esperienze personali, che per il pensiero che, come filosofa, la Weil stessa distillò dalla propria vita così intensamente vissuta. Una caratteristica della sua esistenza fu proprio quel particolarissimo contatto col "malheur", con la sofferenza come realtà universale nonchè l’accettazione di esserne posseduti senza che ciò porti ad alcuna rassegnazione: "Non si tratta di cercare un rimedio contro la sofferenza, ma di farne un uso soprannaturale". Quale miglior tentativo di leggere all’affermativo le vicende umane?
Il centro problematico del pensiero di Simone Weil è imperniato sul concetto di "decreazione", quale conseguenza diretta della creazione stessa: in merito la Weil rivela il carattere tendenzialmente gnostico della trascrizione intellettuale della sua intuizione mistico-religiosa: "La creazione è abbandono. Creando ciò che è altro da Lui, Dio l’ha necessariamente abbandonato. La creazione è abdicazione." E ancora: "Dio si è svuotato della sua divinità e ci ha riempito di una falsa divinità. Svuotiamoci di essa. Questo atto è il fine dell’atto che ci ha creati.In questo stesso momento Dio con la sua volontà creatrice mi mantiene nell’esistenza perchè io vi rinunci. Dio attende con pazienza che io voglia infine acconsentire ad amarlo." Decreazione, quindi, come atto di spoliazione totale, di morte di ciò che in noi dice "io", come unica via per portare a realtà quella scintilla divina che in noi si dà, l’increato appunto. Attraverso il pensiero di Simone Weil si stabilisce un rapporto rigoroso tra la facoltà naturale dell’intelligenza e la facoltà soprannaturale dell’amore: la prima infatti può cogliere "l’esistenza nell’anima di una facoltà superiore a se stessa, che conduce il pensiero al di sopra di essa." Ed è in virtù di tale scoperta e non di alcuna costrizione esterna, che l’intelligenza umana trova in se stessa "un motivo sufficiente che la costringa a subordinarsi all’amore soprannaturale." E’ su queste basi che Simone Weil arriva ad una delle formulazioni cardine del suo pensiero che l’avvicina così alle posizioni della più moderna epistemologia, là dove afferma che "la verità non si trova mediante prove, ma mediante esplorazione. Essa è sempre sperimentale".
 
Scritto da watson
[B

Si inizia bene!! [/B]

Si inizierebbe meglio con poppe grosse in vista e glutei al vento?
:mad:
Lavora, avanti, non ti distrarre.
Grazie per il 3d.

:)
 
Scritto da Anita
Si inizierebbe meglio con poppe grosse in vista e glutei al vento?
:mad:
Lavora, avanti, non ti distrarre.
Grazie per il 3d.

:)

Tu si che mi capisci.
Non è che mi piaccia tanto quello che dice la Weil.
Mi pare più interessante la Arendt,se permetti procederei con lei.
 
Chi tace acconsente,come dicono gli Arabi.
 
HANNAH ARENDT (1906-1975). Nata ad Hannover da una famiglia ebrea, studiò filosofia con i più importanti filosofi tedeschi del tempo (Husserl, Heidegger, Jaspers). A causa delle persecuzioni antisemitiche si trasferì in Francia e qui collaborò col Movimento Sionista. Nel 1940 fu arrestata ma riuscì a fuggire e emigrò negli Stati Uniti, dove rimase per tutto il resto della vita.
L'analisi del fenomeno del totalitarismo in tutte le sue forme è alla base del lavoro intellettuale della Arendt. Ne Le origini del totalitarismo (1951) la Arendt vide nel totalitarismo di questo secolo un fenomeno nuovo, che rompe con qualsiasi altra tradizione precedente. Nei regimi totalitari gli individui sono come i granelli di sabbia indistinguibili gli uni dagli altri. Ognuno sta nel proprio isolamento. In tali regimi la violenza è gratuita: è il terrore per il terrore. A questo proposito la Arendt introduce l'idea del "male radicale", cioè del male fine a se stesso, che non serve a nulla e non segue nessuna logica. Il libro venne molto discusso proprio perché sosteneva una trasformazione nella natura umana. Qualcosa che prima non s'era mai visto. L'uomo che si era così perfettamente inserito negli ingranaggi della macchina nazista dello sterminio era l'uomo massa, un uomo senza qualità né coscienza morale che era adattabile ad ogni evenienza, capace di uccidere come di portare a spasso il cane. Per questo il nazismo ha rappresentato l'apparizione del male assoluto nella storia: ci ha dimostrato che in certe circostanze l'uomo è un nulla, un agente passivo, è in grado di compiere qualsiasi atto in quanto nessun valore o principio aprioristico è in grado di indirizzare il suo comportamento.
Anni dopo, in un'altra opera intitolata Eichmann a Gerusalemme. La banalità del male (1963), la Arendt modifica la sua opinione dicendo che il male che ha fatto per esempio l'aguzzino Eichmann è spiegabile nel modo seguente: il male non è più qualcosa di eccezionale ma fa parte di noi e delle persone che ci sono vicine. Di fronte al giudice che lo accusava dello sterminio degli ebrei, Eichmann sostenne che non aveva fatto altro che obbedire agli ordini. Ad Eichmann mancò quello che lei chiama "lo spazio pubblico", cioè lo spazio per giudicare quello che avviene. Lo spazio pubblico non è un bene garantito per sempre. Non è un bene stabile e acquisito. Mancando di questo, tutta la vita di Eichmann è un esempio di impossibilità di esprimere un giudizio. E' la singolarità, che si mostra come tale, che permette che vi sia uno spazio pubblico. Ora Eichmann è esattamente l'esempio di una vita che non ha mai raggiunto la singolarità. Ed infatti la sua è una esistenza impostata nell'obbedienza agli ingranaggi burocratici di potere, qualsiasi essi siano. Dunque il suo non è un vero agire, ma una ripetizione degli ordini ricevuti. La sua incapacità di arrivare ad una sua singolarità si manifesta anche nel linguaggio adoperato. E' un linguaggio "burocratico", intessuto di luoghi comuni, con frasi fatte. Sono queste le radici del male. Si tratta di un male molto quotidiano. Abituale quanto i nostri luoghi comuni. Le frasi fatte sono infatti modi di sottrarsi alla realtà. Cioè al dire no agli avvenimenti. Il male è l'assenza, il rifiuto del pensiero. Pensare è infatti dialogare con se stessi, cioè porsi di fronte alla scelta fra il giusto e l'ingiusto, il bello e il brutto. Chi pensa, si dissocia, si allontana: anche senza far nulla, dissente e apre lo spazio al giudizio. Il pensiero è l'unico antidoto contro la massificazione e il conformismo che sono le forme moderne della barbarie.
 
Nel 1958 apparve La condizione umana (Vita activa in italiano), sintesi più filosofica del suo pensiero. Il mondo d'oggi è il mondo della tecnica. Tale situazione non è altro che il compimento di un processo intrapreso dall'uomo occidentale dal XVI secolo. I Greci distinguevano la vita attiva fatta di lavoro, creazione artistica e azione politica, dalla vita contemplativa. Nella prima l'uomo plasmava le cose al fine di renderle utili, durevoli, di conquistarsi quella immortalità dell'operare che poteva renderlo presente ai mortali anche dopo la morte. Nella vita contemplativa l'uomo era messo di fronte all'eternità del divino, che lo portava all'ascesi e al misticismo. Con l'età moderna, la vita attiva e quella contemplativa perdevano la loro ragion d'essere. Il theoréin passava dal filosofo allo scienziato o meglio ai suoi strumenti, diventando così la più astratta delle attività pratiche. Il fare diventava un complemento della tecnica e il pensare si trovava ad avere, come suo unico oggetto, il mondo interiore per il tramite dell'introspezione. Una tale trasformazione influì anche sulla sfera sociale: la sfera dell'agire fu sottomessa a quella del fare e della utilità. Il risultato fu la "spoliticizzazione" del fare e il trasferimento del "gioco politico" nelle mani di pochi. La Arendt critica la società moderna perché ha privilegiato l'economico ed ha dimenticato il vero significato dell'agire. Ogni azione è un inizio. Quando un essere umano nasce è una singolarità assoluta, che apre un imprevisto nel mondo. E' agendo che noi ci mostriamo. Nell'azione c'è anche rischio perché le conseguenze di ogni azione sono senza limiti e non dipendono da noi. Iniziare qualcosa è politico, perché è visto e rilanciato dagli altri. Presuppone dunque una pluralità di esseri umani in rapporto tra loro. Però non è sufficiente agire perché ci sia una vera e propria azione significativa. Occorre che quella azione venga raccontata. Bisogna che ci sia qualcuno che faccia conoscere quella azione a chi non era presente e la tramandi alle generazioni future. E solo così il tempo che viviamo non è semplicemente quello biologico della vita e della morte, ma ha un passato e un futuro significativi.
 
arendt.gif


Hannah Arendt nasce nel 1906 a Hannover, in una famiglia benestante appartenente alla borghesia ebraica, ma non avevano legami particolari con il movimento e con le idee sioniste. A Königsberg, dove nel frattempo la famiglia si è trasferita, consegue nel 1924 l' “Abitur”, titolo di studio che equivale all’italiano diploma di maturità. Conseguito l' “Abitur” decide di iscriversi all'Università di Marburg, dove si stava facendo strada la tendenza più interessante di quegli anni, la fenomenologia di Husserl. Arendt incontra un giovane docente destinato a diventare uno dei pensatori più importanti del XX secolo: Martin Heidegger. Con il filosofo tedesco Hannah intratterrà un rapporto personale intenso, che la coinvolgerà sotto diversi aspetti (anche sentimentali) per l'intero arco della vita. Nel 1925 si reca a Friburgo per un semestre di studio, al fine di seguire le lezioni del fondatore della filosofia fenomenologica Edmund Husserl. Quindi, seguendo le indicazioni di Heidegger, si sposta all'Università di Heidelberg, dove sotto la guida di Karl Jaspers prepara e porta a termine nel 1929 la ricerca di dottorato “Der Liebensbegriff bei Augustin” (“Il concetto di amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica”). Nel 1929, trasferitasi a Berlino, ottenne una borsa di studio per una ricerca sul romanticismo dedicata alla figura di Rahel Varnhagen (“Rahel Varnahagen. Storia di un'ebrea”). Nello stesso anno sposa Günther Stern, un filosofo conosciuto anni prima a Marburg. Dopo l'avvento al potere del nazionalsocialismo e l'inizio delle persecuzioni nei confronti delle comunità ebraiche, Hannah abbandona la Germania nel 1933 attraversando il cosiddetto "confine verde" delle foreste della Erz. Passando per Praga, Genova e Ginevra giunge a Parigi, dove conosce e frequenta, tra gli altri, lo scrittore Walter Benjamin e il filosofo e storico della scienza Alexander Koiré. Fino al 1951, anno in cui le verrà concessa la cittadinanza statunitense, rimane priva di diritti politici. Nella capitale francese collabora presso istituzioni finalizzate alla preparazione di giovani ad una vita come operai o agricoltori in Palestina (l'Agricolture et Artisan e la Yugend-Aliyah) e diventa, per alcuni mesi, segretaria personale della baronessa Germaine de Rothschild. Nel 1940 si sposa per la seconda volta, con Heinrich Blücher. Ma gli sviluppi storici del secondo conflitto mondiale portano Hannah Arendt a doversi allontanare anche dal suolo francese: internata nel campo di Gurs dal governo Vichy in quanto "straniera sospetta" e poi rilasciata, dopo varie peripezie, riesce a salpare dal porto di Lisbona alla volta di New York, che raggiunge insieme al coniuge nel maggio 1941. Il periodo americano inizia in maniera non certo facile: alle iniziali difficoltà economiche si aggiunge l'impegno, faticoso quanto necessario, dell'apprendimento di una nuova lingua. Nonostante tutto è proprio nel nuovo mondo che Hannah ha modo di creare nuove amicizie e di scrivere opere importanti, che le permettono di acquisire autorevolezza e notorietà come intellettuale e pensatrice politica. Nella sua intensa attività, Hannah Arendt è costantemente supportata da una particolare famigliarità con la scrittura: possiede infatti il talento non comune di unire, con fluidità, il pensiero alla penna. In modo più o meno marcato ma sempre indelebile, tale capacità può essere vista come un segno distintivo, presente in tutti i suoi scritti. Le riflessioni vengono proposte attraverso uno stile personale, rigoroso e discorsivo al tempo stesso: in quanto scrittrice avversa al dogmatismo culturale, Hannah Arendt non vuole la passività del lettore, ma al contrario ricerca e richiede un suo coinvolgimento attivo, attento, dialogico. La figura e l'opera di questa pensatrice possono costituire una esempio eloquente della possibilità di un felice connubio fra pensiero e parola, contemplazione e azione, tradizione e innovazione. Nel 1951 pubblica il fondamentale “The Origins of Totalitarianism” (“Le origini del totalitarismo”), frutto di un’ accurata indagine storica e filosofica. In tale contesto, particolarmente interessante risulta essere l'analisi della cosiddetta "ideologia", intesa come uso indebito della facoltà razionale umana e perciò crogiolo potenziale di ogni dinamica totalitaria. La mente gioca con se stessa: l'atteggiamento ideologico, privo di un vero ideale, assolutizza la facoltà logica facendola esorbitare dai suoi limiti costitutivi, in modo tale da costruire una pseudo-realtà, impermeabile all'esperienza della realtà autentica, al cui interno vige la pretesa di spiegazione totale che nega, di fatto, la vocazione della natura umana alla libertà di iniziativa. Dal 1957 comincia la carriera accademica vera e propria: ottiene insegnamenti presso le Università di Berkeley, Columbia, Princeton e, dal 1967 fino alla morte, anche alla New School for Social Research di New York Nel 1961, in qualità di inviata del settimanale "New Yorker", assiste al processo contro il gerarca nazista Eichmann. Il resoconto di questa esperienza viene inizialmente pubblicato a puntate sulla rivista newyorkese e successivamente proposto in forma unitaria nel 1963, con il libro “Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil” (“La banalità del male. Eichmann in Gerusalemme”).Sempre nel 1963 pubblica “On Revolution” (“Sulla rivoluzione”), saggio politologico dalle cui pagine emergono giudizi negativi sia sulla Rivoluzione francese sia su quella russa. L'assunto principale dell'opera, il punto fisso su cui fa leva il discorso dell'autrice, è l'intelligenza della correlazione presente fra libertà e politica: la politica infatti è vista, essenzialmente, come l'attività che preserva, cura e garantisce lo spazio all'esercizio concreto della libertà in tutte le sue forme di attuazione. Nel 1972 viene invitata a tenere le Gifford Lectures all'Università scozzese di Aberdeen, che già in passato aveva ospitato pensatori di prestigio come Bergson, Gilson e Marcel. Due anni più tardi, durante il secondo ciclo delle "Gifford", subisce il primo infarto. Altre opere significative sono “The Human Condition” del 1958 (“Vita activa. La condizione umana”) e il volume teoretico “The Life of the Mind” (“La vita della mente”), uscito postumo nel 1978, attraverso cui Hannah, sulla scia originaria della migliore filosofia greca, riporta al centro dell'esistenza umana la "meraviglia" (il qaumazein ). Tale "stupore" metafisico non è uno stato psicologico, bensì un elemento costitutivo della capacità dell'essere umano di conoscere, pensare e vivere in modo costruttivo, come persona in comunione con altre persone. Il 4 dicembre 1975 muore a causa di un secondo arresto cardiaco, nel suo appartamento di Riverside Drive a New York: questo il capolinea storico di un'esistenza "pensante", pervasa da un senso di gratitudine sempre fedele alla realtà delle cose. Una vita densa non solo di studi e letture ma anche di incontri, luoghi, eventi.
 
Scritto da watson
Tu si che mi capisci.
Non è che mi piaccia tanto quello che dice la Weil.
Mi pare più interessante la Arendt,se permetti procederei con lei.

Grave errore procedurale e metodologico interrompere la ricerca su Simone perché non ti piace quel che dice. Ohibò. Mica deve piacere per forza a te.
watson e la ricerca condizionata.

:rolleyes:
 
Scritto da Anita
Grave errore procedurale e metodologico interrompere la ricerca su Simone perché non ti piace quel che dice. Ohibò. Mica deve piacere per forza a te.
watson e la ricerca condizionata.

:rolleyes:

Oihbò un cappero.E a proposito di capperi,buona la ricerca condizionata con il pomodoro!!Simone,invece,non me gusta.
Non mi ispira.Se vuoi incollare qualcosa te la colla è nel mobile in alto,sulla sinistra.Bai bai Anitona!
 
estranea al problema del potere e attiva nella difesa dei diritti civili e delle minoranze, fu Hannah Arendt (1906-1975), ebrea, nata nei pressi di Hannover, studentessa tra il 1924 e il 1929 nell'università di Marburgo, dove fu allieva di Heidegger, con il quale ebbe anche una relazione sentimentale. Arrestata nel 1933, fuggì a Praga, poi a Ginevra e a Parigi e successivamente, nel 1941, a New York. Dopo la guerra potè riallacciare i suoi rapporti con Jaspers, mentre incontrò difficoltà con Heidegger anche per il persistente silenzio di quest'ultimo sulla pro pria adesione al nazismo. Nel 1960 seguì a Gerusalemme, come corrispondente di un giornale, il processo al nazista Eichmann, che le apparve un uomo mediocre, incapace di distinguere tra bene e male: da ciò trasse la conclusione della "banalità" del male, che non ha di per sé profondità, e attribuì una parte di responsabilità del genocidio alle stesse vittime del nazismo, ma questo sollevò nei suoi confronti accuse di antisionismo. Intanto, a partire dal 1956 aveva cominciato a insegnare all'università di Berkeley, per passare poi a quella di Chicago, tra il 1963 e il 1967, e infine alla "New School for Social Research" di New York, dal 1967 sino alla morte. La prima opera significativa della Arendt, pubblicata negli Stati Uniti, è " Le origini del totalitarismo " (1951). Caratteristica saliente del totalitarismo è non tanto una concezione filosofica, quanto l'esistenza di campi di concentramento: nessun governo totalitario, infatti, può sussistere senza terrore e il terrore non può essere edificato e mantenuto senza tali campi, nei quali gli individui sono ridotti a entità superflue. Per questo aspetto, esistono, secondo la Arendt, profonde analogie tra nazismo e stalinismo, entrambi diversi dalla democrazia proprio per l'assenza di ogni salvaguardia delle libertà civili. L'esperienza della rivoluzione in Ungheria, nel 1956, rafforza la sua convinzione che l'unica alternativa al totalitarismo nell'età moderna è nel sistema dei Consigli, che nascono spontanei, senza organizzazione, in nome della libertà, nel corso dei moti rivoluzionari.
 
Intanto, lo studio di Marx e del problema del lavoro la conduce ad interrogarsi sul tema dell'equilibrio delle attività umane: nasce di qui il volume " La condizione umana " (1959), noto anche col titolo " Vita activa ". Ispirandosi all'etica aristotelica, Arendt individua tre componenti nella vita attiva degli uomini: sono tre attività, il lavoro, la fabbricazione, o produzione di oggetti, e l'azione (in greco, "praxis"), le quali si connettono alle condizioni generali dell'esistenza umana, ossia al nascere e al morire, al rapporto con gli altri e alla permanenza sulla terra. Il lavoro assicura la sopravvivenza non solo individuale, ma della specie umana, mentre la fabbricazione produce un mondo sulla terra. Mentre è possibile lavorare e produrre anche in solitudine, non è possibile agire se non in relazione almeno ad un'altra persona, ossia, in generale, ad una pluralità di individui. Questo vuol dire che lavoro e fabbricazione non realizzano qualità specificamente umane, dal momento che anche un animale può lavorare e una divinità artefice potrebbe produrre. Specificamente umano è, invece, l'agire insieme, che costituisce l'ambito della politica e presuppone il linguaggio come mezzo essenziale per il rapporto tra una pluralità di individui. Ciò stabilisce una distinzione tra la sfera pubblica, corrispondente alla polis dei greci, e la sfera privata, corrispondente a ll'oikos dei greci: quest'ultima è il regno della necessità, caratterizzato dalle attività economiche del lavoro e della produzione necessarie per sopravvivere, mentre la politica è il regno della libertà, dell'emergenza del nuovo. Tutte queste attività, infatti, sono radicate nella natalità, in quanto hanno il compito di preparare e conservare il mondo per i nuovi venuti, ma più di tutte lo è l'agire come capacità di dar luogo a qualcosa di integralmente nuovo. I rapporti tra queste attività, che sono le costanti dell'esperienza umana, variano storicamente. Nel mondo moderno, il lavoro ha assunto una posizione di primato rispetto all'agire, prioritario presso i greci, e al fabbricare, dominante nell'immagine cristiana di un Dio creatore. Questo mutamento ha indebolito la distinzione tra pubblico e privato e ha generato una nuova sfera, quella del sociale, che viene ad assumere le funzioni prima pertinenti all'oikos e alla polis. I risultati sono, da un lato, una nazione amministrata burocraticamente come se si trattasse di un'unica famiglia e un generale conformismo e, dall'altro, una riduzione della partecipazione politica attiva e la trasformazione della sfera privata in intimità puramente individuale. L'integrazione armonica delle varie attività, con l'attribuzione del primato all'agire e, quindi, alla politica, si è invece realizzata, ad avviso di Arendt, nella polis, ma già i filosofi greci avevano minato questo modello, nel momento in cui, a parti re da Platone, avevano spezzato la connessione tra la prassi e il discorso, che caratterizza la politica, e subordinato la politica alla loro attività, intesa come teoria, ossia attività contemplativa. In questa situazione, la politica veniva concepita come un ambito che deve essere disciplinato da regole che nascono nella sfera superiore della teoria e sono accessibili soltanto ad una saggezza superiore. Da questa impostazione sono nate, in età moderna, le filosofie della storia e le teorie, come quella hegeliana, che trasformano le nozioni di mezzo e di fine in categorie politiche e interpretano la storia come un processo necessario, finendo in tal modo per giustificare le pratiche totalitarie del XX secolo e sollevando dalla responsabilità di giudicare gli eventi storici. In opposizione a ciò occorre, secondo Arendt, una nuova scienza politica, che torni a porre al centro l'azione, interpretata come inizio di qualcosa di nuovo e di imprevedibile, non fabbricabile ne dall'uomo ne da Dio. Infatti, quando un'azione si perverte in una specie di fabbricazione, si può generare il male e la distruzione degli uomini, proprio come per fare una frittata occorre rompere le uova. In questa prospettiva, nello scritto " Sulla rivoluzione " (1963), la Arendt individua il conflitto essenziale dell'epoca moderna non tra diversi sistemi economici o tra classi, ma tra libertà e autoritarismo; da parte sua, ella si schiera dal lato delle associazioni che nascono spontaneamente, soprattutto nelle situazioni rivoluzionarie, ma rifiuta la definizione della politica come lotta per il potere e le giustificazioni della violenza, fornite da Marx, Sorel e Sartre, in quanto confondono tra loro azione, fabbricazione e processi naturali: ai suoi occhi, la non violenza è essenziale al movimento per la pace e la disobbedienza civile è lo strumento per la difesa dei diritti civili. L'ultima opera, rimasta incompiuta, " La vita della mente ", pubblicata postuma nel 1978, è presentata da Arendt come " un trattato del buon governo mentale ": essa descrive le attività dello spirito, ossia il pensare, il volere e il giudicare, cercando di mostrare la necessità di un controllo e di un equilibrio reciproco fra esse. Il pensare è diverso dal conoscere, che ha un oggetto e un fine: esso, invece, non ha un oggetto, ma si riferisce solo a sé e produce significati, non la verità, che è piuttosto prodotta dal consenso. Il pensare consente di affrontare i fenomeni direttamente, senza alcun sistema preconcetto, e quindi prepara il terreno al giudizio, che rappresenta la vera attività politica della mente. Anche il volere è costitutivo della sfera politica, in quanto mira a produrre un riconoscimento reciproco tra gli individui. In questo senso, la Arendt critica Heidegger per aver rifiutato il volere a favore del pensiero, concepito come forma di azione: ciò equivale, infatti, a rifiutare la politica. Condizione dell'armonia fra le tre attività è la libertà interna di ciascuna. Anche in Germania, nel dopoguerra, ridiventa essenziale il problema del tipo di sapere e di razionalità che deve sovrintendere all'agire individuale e collettivo. Presupposto diffuso è che il modello non possa essere offerto dalle scienze naturali, ne dalle scienze sociali che si costruiscono in conformità ad esse. In questo orizzonte ha luogo, dall'inizio degli anni Sessanta, quella che è stata denominata riabilitazione della filosofia pratica, ossia del diritto, dell'etica e della politica, alla quale hanno contribuito vari autori, tra i quali Gadamer e Joachim Ritter (1903-1974), allievo di Heidegger e di Cassirer.
 
Scritto da watson
.Bai bai Anitona!

Le tue facoltà immaginative ti portano a vedere grosse poppe ovunque, da cui "Anitona" (quella della fontana, per intenderci, ultimamente scimmiottata in una pubblicità). Ora deludo le tue aspettative: non sono quella Anitona là, ma quella di Giuseppe.
Del tipo: oltre alle poppe e compagnia bella, c'è altro.
:D
 
Scritto da Anita
Le tue facoltà immaginative ti portano a vedere grosse poppe ovunque, da cui "Anitona" (quella della fontana, per intenderci, ultimamente scimmiottata in una pubblicità). Ora deludo le tue aspettative: non sono quella Anitona là, ma quella di Giuseppe.
Del tipo: oltre alle poppe e compagnia bella, c'è altro.
:D


vabbe,l'importante è che ci siano anche le poppe e compagnia bella,oltre l'altro.Chi è,comunque,questo altro?Sono geloso!
E poi,Giuseppe chi?l'eroe dei due tondi?
 
Scritto da watson
vabbe,l'importante è che ci siano anche le poppe e compagnia bella........

Ottima una bambola gonfiabile, in tal senso.
Prova a crecare all'indirizzo www.bambole.com


:)
 
Indietro