Un differente punto di vista su cui riflettere
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Che (r)esistano i paradisi fiscali è la nostra fortuna
La crisi dà ai governi l'occasione per sferrare il colpo ferale, ma l'idea che a un paradiso fiscale vada preferito il suo contrario, riesce davvero curiosa
di Alberto Mingardi
Il direttore della Weltwoche, Roger Koppel, in un bell'articolo per il Wall Street Journal, ha scritto senza mezzi termini che la Confederazione Elvetica «ha capitolato a minacce e ricatti internazionali». La fortezza alpina vacilla: la grande crisi finanziaria sta dando ai governi di tutto il mondo l'occasione d'oro, per sferrare il colpo ferale ai cosiddetti "paradisi fiscali".
Se le parole hanno un peso, l'idea che a un paradiso fiscale vada preferito il suo contrario, cioè presumibilmente un inferno fiscale, riesce davvero curiosa. Il potentissimo cartello degli "inferni", Stati ad alta fiscalità e ad alta spesa pubblica, avrà però presumibilmente ragione dello sparuto drappello di "paradisi": sono di più, più grandi e più forti. Se per ora, navigando a vista e seguendo la Svizzera, i "paradisi" hanno tenuto duro, è anche perché sotto sotto persino il Satana francese e i diavoletti compagnucci suoi sapevano bene che un po' di capitali espatriati facevano loro più bene che male. La possibilità di fare "fuggire" almeno certe quote della ricchezza da loro prodotta, incentivava i maledetti detentori di capitale a non lesinare gli sforzi. In qualche maniera, i paradisi fiscali assicuravano una sorta di "sconto fiscale" detestato (per la "sottrazione" di denari all'erario) ma tollerato: perché l'alternativa era peggiore. Cioè, una tassazione ancora più confiscatoria avrebbe effetti tanto depressivi da sgonfiare ancora di più lo spirito imprenditoriale di chi trova la forza di portare avanti le proprie attività in Paesi come l'Italia. In cui non solo le tasse da pagare sono troppe: ma persino il pagarle è un atto assurdamente complicato.
Nel complesso, la concorrenza fiscale ha effetti dinamici virtuosi. Noi poveretti cittadini a basso reddito di un Paese fiscalmente esoso come l'Italia dobbiamo in realtà essere grati al Liechtenstein che spalanca le sue porte ai paperoni: perché se ciò non avvenisse, non vi sarebbero vie di fuga verso le quali chi può reindirizza i propri quattrini. Uno Stato dal quale non si può scappare è uno Stato dal quale non ci si può difendere. Il fatto che persone e imprese si spostino sulla base di ragionamenti di convenienza fiscale contribuisce a limitare la capacità predatoria dei governi. Se non ci fosse la Svizzera, noi pagheremmo ancora più tasse. Perché senza un altrove possibile e vicino nel quale è possibile trovare sollievo, da sudditi si diventa servi della gleba. Lo Stato è un bandito stanziale: il suo istinto è quello del ladro, cioè rubare, tassare il più possibile le sue vittime. Ma siccome le sue vittime non sono viandanti di passaggio, ma gente che facendosi rapinare anno dopo anno garantisce alla "casta" dei rapinatori pane e companatico, l'arte del ministro del Tesoro è dosare il furto in modo tale che il derubato non sviluppi una tale sfiducia e un tale disincanto dall'evitare, l'anno dopo, di riempire la borsa.
Solo in un mondo alla rovescia, fa scandalo il "segreto bancario" che fino a ieri gli svizzeri difendevano con i denti. Noi abbiamo un garante della privacy, preoccupatissimo delle foto dei nipotini che certi arzilli vecchietti mettono su Facebook. Indignato per le librerie on line che s'azzardano a proporci nuovi libri, sulla base della storia dei nostri acquisti. Preoccupatissimo per la miriade di dati personali che si riversano on line, rendendoci tutti potenzialmente conoscibili da tutti gli altri anche nei nostri segreti. Tutte cose importanti. Ma i nostri redditi, i nostri soldi, il modo in cui li investiamo e li spendiamo, non sono ambiti altrettanto meritevoli di tutela, dagli sguardi indiscreti di un privato o di un'agenzia pubblica? Il segreto bancario è un antico principio di riservatezza. Si dice: se ne avvalgono dei criminali. Anche a causa dell'habeas corpus, qualche malfattore con ottimi avvocati non è andato in galera. Di ogni garanzia si può abusare.
Koppel ritiene che la Svizzera non abbia né siglato un brillante armistizio, né messo i semi della propria rovina. Siamo in un mondo di chiaroscuri e, nota giustamente, dappertutto nel mondo lo Stato si prende strepitose libertà, senza neanche chiedere il permesso, come avrebbe fatto in altri tempi. In alcuni casi, c'è la spinta della necessità. In altri, la crisi è un pretesto. Nel caso della guerra ai paradisi fiscali, la crisi (e la contemporanea esplosizione dell'affare Madoff) non è che un pretesto. In una situazione nella quale tutti chiedono di riscrivere "regole globali", annullando la concorrenza fra diversi sistemi di norme e pertanto aggiogandoci tutti a un carro che potrebbe anche andare a tutta velocità verso un dirupo, tanto vale calcare la mano. Nel mezzo della guerra, le bombe atomiche esplodono con meno fragore.
I "paradisi" potrebbero essere paradossalmente aiutati da una delle poche proposte di buon senso che circolano in questo giorni: un nuovo "scudo fiscale", che consenta agli imprenditori che hanno espatriato capitali di reimportarli per investirli in azienda. Questo per due motivi. Lo "scudo fiscale" funziona se non s'esagera coi requisiti di trasparenza: "torchiando" i paradisi, ci si mette in una situazione per cui i quattrini non tornano, non volendosi fare schedare. In seconda battuta, esso rappresenta un'implicita ammissione. L'ammissione che le imposte in passato erano esageratamente alte. Che è poi la verità.
Da Il Riformista, 22 marzo 2009