Bond Argentina: discussione unificata - Cap 14

Oriente | Occidente - Argentina, storia di un disastro: dall’opulenza alla bancarotta


Argentina, storia di un disastro: dall’opulenza alla bancarotta​

Federico Rampini | 21 novembre 2023
Fu uno dei Paesi più ricchi al mondo, con un reddito pro capite superiore a quello della Francia. Oggi la vittoria di Milei è l’inevitabile conseguenza dei disastri economici del peronismo che hanno lasciato l’Argentina con le casse vuote


«Sono illusioni, non sono le soluzioni che promettevano di essere…»


Così recita uno dei versi della canzone “Don’t Cry For Me, Argentina”, dal celebre musical Evita di Andrew Lloyd Webber che fu un successo mondiale da Londra a Broadway. Ciascuno è libero di applicare quelle parole alle promesse che di volta in volta i populismi di sinistra (peronisti) o i neoliberismi hanno lanciato all’Argentina. La nazione che è diventata il simbolo di un malgoverno economico all’ennesima potenza.
È la tragedia di un paese che fu tra i più ricchi del mondo. Tra l’ultimo quarto dell’Ottocento, e la grande crisi del 1929, l’Argentina era arrivata a essere una delle dieci nazioni più opulente, con un reddito pro capite superiore alla Francia. Ancora nel 1970 aveva un’economia due volte più ricca del Cile, che oggi la supera nettamente.
Laboratorio politico “d’avanguardia” lo divenne fin dal 1946, quando Juan Peròn diede vita al movimento che mescolava ingredienti del socialismo e del fascismo; un’ideologia “giustizialista”, un consenso di massa fondato sui sindacati, la spesa pubblica clientelare, l’assistenzialismo, il protezionismo. Il peronismo disprezzato dai neoliberisti, che si sono rivelati incapaci però di superarlo. Prima di questa tornata elettorale che ha portato alla presidenza il libertario-capitalista Javier Milei, un esperimento di liberismo più classico o “normale” c’era stato con il presidente Mauricio Macri dal 2015 al 2019.
Macri era il beniamino del Fondo monetario internazionale eppure non ha modernizzato il paese, né ha tentato un vero risanamento dei conti pubblici. Dopo di lui è stata la volta della coppia Alberto Fernandez-Cristina Kirchner, il ritorno del peronismo con le sue eterne promesse assistenziali: l’impegno a proteggere i più deboli, la guerra dichiarata alla miseria e alla disoccupazione. Sullo sfondo, il solito “paesaggio” argentino: montagne di debiti esteri da ripagare, prestiti d’emergenza del Fondo monetario internazionale. Le contraddizioni stridenti tra iperinflazione, finanza pubblica sfasciata, e la ricchezza di risorse: non più solo agricole ma anche energetiche come lo “shale gas”, e poi il litio concupito dal resto del mondo per le batterie elettriche. In questo senso, proprio come cent’anni fa, l’Argentina rimane una sorta di Eldorado, una terra con dotazioni inesauribili. A differenza di cent’anni fa, però, pochi argentini ne traggono prosperità.
Riprendo i miei appunti di viaggio del dicembre 2019: ero a Buenos Aires all’epoca dell’alternanza precedente. Da destra a sinistra, allora. Accadeva in un’America latina ancora più instabile di oggi, percorsa da proteste, con governi abbattuti dalla piazza o vacillanti, violenze dei narcos in aumento, esodi di migranti. Anche allora l’Argentina era un modello positivo almeno per un aspetto: la sua democrazia dell’alternanza funziona, il ricordo delle feroci dittature è ormai confinato nei luoghi rituali, come il Parco della Memoria in omaggio ai desaparecidos. In quel dicembre di quattro anni fa, pre-pandemia, Buenos Aires celebrava l’avvicendamento al vertice da Macri al duo peronista Fernandez-Kirchner. Non una vera novità: lei, Cristina, era già stata due volte alla guida del paese. Il passaggio dei poteri si svolgeva in modo ordinato. Anche se Buenos Aires è «la capitale mondiale delle manifestazioni» – è rara una giornata senza cortei che sfilino davanti alla Casa Rosada in Plaza de Mayo – la caduta di Macri era avvenuta nel modo più ordinato possibile, alla scadenza del mandato e col suffragio universale. Lo stesso si può dire finora con la vittoria di Milei.
Tolto questo aspetto importante che è l’alternanza ordinata e pacifica, nessuno si sognerebbe di prendere per modello l’Argentina: in quel dicembre 2019 era giunta alla sua ottava bancarotta sovrana, e nella sua storia turbolenta aveva già “consumato” 30 salvataggi del Fondo monetario internazionale. Uno dei suoi tanti default del debito estero, nel 2001, ha lasciato tracce pesanti e ricordi amari anche nei portafogli di tanti risparmiatori italiani. Lotta alla povertà e alle diseguaglianze: un obiettivo comune univa papa Francesco (che ebbe un’influenza favorevole per il ritorno dei peronisti al potere nel 2019) e il primo dei ministri dell’Economia nominati dalla coppia Fernandez-Kirchner: Martìn Guzmàn, già docente alla Columbia University di New York e allievo del premio Nobel Joseph Stiglitz. Il peronismo tornava al governo nel 2019 con ricette approvate dai populisti di sinistra del mondo intero: allora Stiglitz era uno dei pensatori di riferimento del Movimento 5 Stelle in Italia.
Nei miei appunti di viaggio del 2019 l’Argentina mi accoglieva «come una Repubblica di Weimar, ma senza le ombre del totalitarismo in agguato». In comune con la Germania dei primi anni Trenta – oltre ai tanti ebrei tedeschi immigrati – ha il fascino decadente, la vitalità culturale, l’alta istruzione media, librerie musei gallerie d’arte e centri culturali ovunque. In comune con Weimar anche l’iperinflazione, la svalutazione galoppante. Il governo per frenare le fughe di capitali aveva dovuto imporre restrizioni valutarie drastiche: massimo duecento dollari a persona al mese. Il mercato dei cambi mi offriva un piccolo squarcio sulla realtà argentina.
Il centro direzionale di Buenos Aires, proprio attorno alla Casa Rosada presidenziale, ospita i quartieri generali di tutte le grandi banche. Palazzi monumentali, mausolei all’inefficienza, con personale pletorico e inutile, dove si rifiutano di cambiarti dollari se non sei cliente, proprio mentre dovrebbero facilitare quei turisti che portano valuta pregiata; invece loro stessi ti dirottano verso piccole agenzie di strada dove si pratica il cambio nero. Ma non puoi percepire la vera durezza di questa crisi se rimani nel centro di Buenos Aires: i ricchi che abitano nei bei quartieri come Recoleta, La Isla Norte e Palermo con i loro palazzi Art Déco, o nei nuovi grattacieli di Puerto Madero, hanno tecniche ben collaudate di evasione fiscale, nei conti bancari del paradiso fiscale uruguaiano. I ricchi latifondisti delle Pampa, che esportano nel mondo più grano dell’Australia e hanno conquistato anche il mercato cinese della carne suina, sanno come parcheggiare all’estero gli incassi in dollari, euro o renminbi. Perfino il ceto mediobasso ha espedienti antichi: compra gli appartamenti pagando in contanti, o investe i risparmi in auto straniere che si rivendono usate a un prezzo più alto del nuovo, “miracoli” dell’iperinflazione alla Weimar.
La dollarizzazione dell’economia argentina non è una ricetta inventata da Milei, è già una pratica quotidiana: chi può usa una valuta forte per proteggersi dalla distruzione del potere d’acquisto e dei risparmi. Quattro anni fa la vera povertà cominciava ad apparire nel centro di Buenos Aires in forme discrete: qualche homeless, immigrati boliviani e venezuelani, bambini che chiedevano l’emeosina. Ma è la “grande” Buenos Aires (12 milioni dell’area metropolitana esterna, contro i 3 milioni della città) quella che contiene tanta miseria; peggio ancora le campagne. Nulla di tutto ciò è migliorato nel quadriennio del populismo di sinistra. Se nel 2019 un terzo degli argentini viveva sotto la soglia della povertà, oggi gli indigenti sono quasi la metà (stando alle statistiche ufficiali, per quel che valgono). L’inflazione allora era al 55% annuo, oggi è del 143%.
Il fallimento dell’ennesimo esperimento peronista si è accompagnato con un’altra bancarotta sovrana, divenuta ufficiale nel maggio 2020 quando il governo del presidente Fernandez non ha onorato una tranche di pagamento degli interessi in scadenza, su un debito totale (allora) di 65 miliardi. Se avete perso il conteggio delle bancarotte argentine, siete in buona compagnia.
Questo disastro finanziario non ha impedito ai peronisti di unirsi ad altre forze della sinistra populista latinoamericana per lanciare un improbabile «attacco al dollaro». Accadeva nel gennaio di quest’anno. Il vertice dei paesi latinoamericani e caraibici si teneva proprio a Buenos Aires dieci mesi fa. Segnava il culmine di una nuova egemonia della sinistra populista, al governo nei tre paesi più grossi (Brasile Messico Argentina) e in molti altri.
Il summit rilanciava con enfasi l’obiettivo di emancipazione dagli Stati Uniti. In quel contesto veniva resuscitato un antico progetto di moneta unica tra Brasile e Argentina: un modo per ridurre la dipendenza dal dollaro. Anche se ilnuovo padrone del continente ormai è la Cina. Il summit di Buenos Aires a gennaio riuniva i paesi del Celac, che sta per Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caraibenos. A dominare la scena al summit Celac furono il Brasile di Lula da Silva e l’Argentina di Fernandez. L’idea della moneta unica venne presentata come un esperimento da iniziare a due, per poi eventualmente proporla come la valuta di tutto il Mercosur, la comunità economica dei paesi sudamericani. Le motivazioni di questo progetto – non nuovo – rievocano quelle che ispirarono l’euro: facilitare gli scambi commerciali tra paesi vicini e affini; ridurre i costi; infine e soprattutto eliminare la dipendenza da una moneta terza come il dollaro. Le critiche contro quel progetto a gennaio vennero soprattutto da parte brasiliana. Fabio Ostermann, un politico centrista vicino al mondo delle imprese brasiliane, definì il progetto «insensato, l’equivalente di aprire un conto in banca congiunto con un amico disoccupato e indebitato con tutti» (un’allusione non proprio amichevole all’Argentina). Come minimo il progetto di moneta unica poteva essere considerato un diversivo. Non affrontava le radici di un dissesto economico che non ha nulla a che vedere con l’influenza degli Stati Uniti o del dollaro. L’inflazione argentina, ad esempio, deriva da politiche populiste di ispirazione peronista: spesa pubblica facile, elargizioni assistenzialiste, finanziate da una banca centrale che stampa moneta.
L’idea di ridurre la dipendenza dal dollaro però piaceva molto a Pechino – che persegue la “sdollarizzazione” ad esempio nell’interscambio con la Russia – e in questo senso il progetto Lula-Fernandez era in sintonia con gli interessi della nuova superpotenza dominante in questa parte del mondo. Perciò ci fu un seguito: in Sudafrica ad agosto al vertice dei Brics l’Argentina fu accolta tra i sei paesi candidati all’allargamento. In Sudafrica si tornò a parlare di “sdollarizzazione”.
Ora il pendolo dell’alternanza oscilla nell’altra direzione. La vittoria di Milei è l’inevitabile conseguenza dei disastri economici compiuti dal peronismo. Il dietrofront è spettacolare: l’Argentina imbocca la strada opposta a quella di Messico e Brasile, torna a sognare un esperimento liberista, stavolta in forme più radicali rispetto a quello di Macrì. I paragoni con Donald Trump su questo terreno sono azzardati. Trump è stato un liberista nei proclami, ma la sua politica economica è stata segnata dal protezionismo (dazi) e da massicci aiuti a famiglie e imprese durante la pandemia. Il deficit e il debito federali degli Stati Uniti sono aumentati sotto Trump, non diminuiti. Milei ha un linguaggio che sembra ispirato più dal padre teorico del neoliberismo, il Premio Nobel (scomparso) Milton Friedman, che non a Trump. La sua ascesa al potere viene accolta con cautela all’estero, ivi compreso dal grande vicino del Nord, gli Stati Uniti. Nell’immediato (Papa Francesco ha chiamato Milei per congratularsi della vittoria al ballottaggio) i mercati finanziari hanno salutato con favore la sua vittoria e alcuni titoli argentini si sono apprezzati. La sua proposta di “dollarizzare” l’Argentina, abolendo il peso e la banca centrale per adottare la valuta Usa, si scontra con un ostacolo notevole: come comprare i dollari necessari? Poiché le casse dello Stato sono vuote – o peggio, in rosso – Milei dovrebbe convincere il resto del mondo a prestargli altri 30 miliardi di dollari, secondo alcune stime.
Lo scetticismo è comprensibile, tanto più che Milei non ha una maggioranza parlamentare. Gli argentini che lo hanno votato sembrano mossi dalla disperazione: dopo tanti esperimenti falliti, una parte di loro vorrebbero davvero un leader capace di «rivoltare il paese come un calzino». È dai tempi di Evita, quella vera, che l’Argentina ha perso il contatto con la realtà economica, le regole del mercato, i vincoli del bilancio pubblico.
21 novembre 2023, 19:03 - modifica il 21 novembre 2023 | 21:48
© RIPRODUZIONE RISERVATA
 
Il pagliaccio diceva pure che non parlava con i cinesi.... vedremo.
 

Oriente | Occidente - Argentina, storia di un disastro: dall’opulenza alla bancarotta


Argentina, storia di un disastro: dall’opulenza alla bancarotta​

Federico Rampini | 21 novembre 2023
Fu uno dei Paesi più ricchi al mondo, con un reddito pro capite superiore a quello della Francia. Oggi la vittoria di Milei è l’inevitabile conseguenza dei disastri economici del peronismo che hanno lasciato l’Argentina con le casse vuote


«Sono illusioni, non sono le soluzioni che promettevano di essere…»


Così recita uno dei versi della canzone “Don’t Cry For Me, Argentina”, dal celebre musical Evita di Andrew Lloyd Webber che fu un successo mondiale da Londra a Broadway. Ciascuno è libero di applicare quelle parole alle promesse che di volta in volta i populismi di sinistra (peronisti) o i neoliberismi hanno lanciato all’Argentina. La nazione che è diventata il simbolo di un malgoverno economico all’ennesima potenza.
È la tragedia di un paese che fu tra i più ricchi del mondo. Tra l’ultimo quarto dell’Ottocento, e la grande crisi del 1929, l’Argentina era arrivata a essere una delle dieci nazioni più opulente, con un reddito pro capite superiore alla Francia. Ancora nel 1970 aveva un’economia due volte più ricca del Cile, che oggi la supera nettamente.
Laboratorio politico “d’avanguardia” lo divenne fin dal 1946, quando Juan Peròn diede vita al movimento che mescolava ingredienti del socialismo e del fascismo; un’ideologia “giustizialista”, un consenso di massa fondato sui sindacati, la spesa pubblica clientelare, l’assistenzialismo, il protezionismo. Il peronismo disprezzato dai neoliberisti, che si sono rivelati incapaci però di superarlo. Prima di questa tornata elettorale che ha portato alla presidenza il libertario-capitalista Javier Milei, un esperimento di liberismo più classico o “normale” c’era stato con il presidente Mauricio Macri dal 2015 al 2019.
Macri era il beniamino del Fondo monetario internazionale eppure non ha modernizzato il paese, né ha tentato un vero risanamento dei conti pubblici. Dopo di lui è stata la volta della coppia Alberto Fernandez-Cristina Kirchner, il ritorno del peronismo con le sue eterne promesse assistenziali: l’impegno a proteggere i più deboli, la guerra dichiarata alla miseria e alla disoccupazione. Sullo sfondo, il solito “paesaggio” argentino: montagne di debiti esteri da ripagare, prestiti d’emergenza del Fondo monetario internazionale. Le contraddizioni stridenti tra iperinflazione, finanza pubblica sfasciata, e la ricchezza di risorse: non più solo agricole ma anche energetiche come lo “shale gas”, e poi il litio concupito dal resto del mondo per le batterie elettriche. In questo senso, proprio come cent’anni fa, l’Argentina rimane una sorta di Eldorado, una terra con dotazioni inesauribili. A differenza di cent’anni fa, però, pochi argentini ne traggono prosperità.
Riprendo i miei appunti di viaggio del dicembre 2019: ero a Buenos Aires all’epoca dell’alternanza precedente. Da destra a sinistra, allora. Accadeva in un’America latina ancora più instabile di oggi, percorsa da proteste, con governi abbattuti dalla piazza o vacillanti, violenze dei narcos in aumento, esodi di migranti. Anche allora l’Argentina era un modello positivo almeno per un aspetto: la sua democrazia dell’alternanza funziona, il ricordo delle feroci dittature è ormai confinato nei luoghi rituali, come il Parco della Memoria in omaggio ai desaparecidos. In quel dicembre di quattro anni fa, pre-pandemia, Buenos Aires celebrava l’avvicendamento al vertice da Macri al duo peronista Fernandez-Kirchner. Non una vera novità: lei, Cristina, era già stata due volte alla guida del paese. Il passaggio dei poteri si svolgeva in modo ordinato. Anche se Buenos Aires è «la capitale mondiale delle manifestazioni» – è rara una giornata senza cortei che sfilino davanti alla Casa Rosada in Plaza de Mayo – la caduta di Macri era avvenuta nel modo più ordinato possibile, alla scadenza del mandato e col suffragio universale. Lo stesso si può dire finora con la vittoria di Milei.
Tolto questo aspetto importante che è l’alternanza ordinata e pacifica, nessuno si sognerebbe di prendere per modello l’Argentina: in quel dicembre 2019 era giunta alla sua ottava bancarotta sovrana, e nella sua storia turbolenta aveva già “consumato” 30 salvataggi del Fondo monetario internazionale. Uno dei suoi tanti default del debito estero, nel 2001, ha lasciato tracce pesanti e ricordi amari anche nei portafogli di tanti risparmiatori italiani. Lotta alla povertà e alle diseguaglianze: un obiettivo comune univa papa Francesco (che ebbe un’influenza favorevole per il ritorno dei peronisti al potere nel 2019) e il primo dei ministri dell’Economia nominati dalla coppia Fernandez-Kirchner: Martìn Guzmàn, già docente alla Columbia University di New York e allievo del premio Nobel Joseph Stiglitz. Il peronismo tornava al governo nel 2019 con ricette approvate dai populisti di sinistra del mondo intero: allora Stiglitz era uno dei pensatori di riferimento del Movimento 5 Stelle in Italia.
Nei miei appunti di viaggio del 2019 l’Argentina mi accoglieva «come una Repubblica di Weimar, ma senza le ombre del totalitarismo in agguato». In comune con la Germania dei primi anni Trenta – oltre ai tanti ebrei tedeschi immigrati – ha il fascino decadente, la vitalità culturale, l’alta istruzione media, librerie musei gallerie d’arte e centri culturali ovunque. In comune con Weimar anche l’iperinflazione, la svalutazione galoppante. Il governo per frenare le fughe di capitali aveva dovuto imporre restrizioni valutarie drastiche: massimo duecento dollari a persona al mese. Il mercato dei cambi mi offriva un piccolo squarcio sulla realtà argentina.
Il centro direzionale di Buenos Aires, proprio attorno alla Casa Rosada presidenziale, ospita i quartieri generali di tutte le grandi banche. Palazzi monumentali, mausolei all’inefficienza, con personale pletorico e inutile, dove si rifiutano di cambiarti dollari se non sei cliente, proprio mentre dovrebbero facilitare quei turisti che portano valuta pregiata; invece loro stessi ti dirottano verso piccole agenzie di strada dove si pratica il cambio nero. Ma non puoi percepire la vera durezza di questa crisi se rimani nel centro di Buenos Aires: i ricchi che abitano nei bei quartieri come Recoleta, La Isla Norte e Palermo con i loro palazzi Art Déco, o nei nuovi grattacieli di Puerto Madero, hanno tecniche ben collaudate di evasione fiscale, nei conti bancari del paradiso fiscale uruguaiano. I ricchi latifondisti delle Pampa, che esportano nel mondo più grano dell’Australia e hanno conquistato anche il mercato cinese della carne suina, sanno come parcheggiare all’estero gli incassi in dollari, euro o renminbi. Perfino il ceto mediobasso ha espedienti antichi: compra gli appartamenti pagando in contanti, o investe i risparmi in auto straniere che si rivendono usate a un prezzo più alto del nuovo, “miracoli” dell’iperinflazione alla Weimar.
La dollarizzazione dell’economia argentina non è una ricetta inventata da Milei, è già una pratica quotidiana: chi può usa una valuta forte per proteggersi dalla distruzione del potere d’acquisto e dei risparmi. Quattro anni fa la vera povertà cominciava ad apparire nel centro di Buenos Aires in forme discrete: qualche homeless, immigrati boliviani e venezuelani, bambini che chiedevano l’emeosina. Ma è la “grande” Buenos Aires (12 milioni dell’area metropolitana esterna, contro i 3 milioni della città) quella che contiene tanta miseria; peggio ancora le campagne. Nulla di tutto ciò è migliorato nel quadriennio del populismo di sinistra. Se nel 2019 un terzo degli argentini viveva sotto la soglia della povertà, oggi gli indigenti sono quasi la metà (stando alle statistiche ufficiali, per quel che valgono). L’inflazione allora era al 55% annuo, oggi è del 143%.
Il fallimento dell’ennesimo esperimento peronista si è accompagnato con un’altra bancarotta sovrana, divenuta ufficiale nel maggio 2020 quando il governo del presidente Fernandez non ha onorato una tranche di pagamento degli interessi in scadenza, su un debito totale (allora) di 65 miliardi. Se avete perso il conteggio delle bancarotte argentine, siete in buona compagnia.
Questo disastro finanziario non ha impedito ai peronisti di unirsi ad altre forze della sinistra populista latinoamericana per lanciare un improbabile «attacco al dollaro». Accadeva nel gennaio di quest’anno. Il vertice dei paesi latinoamericani e caraibici si teneva proprio a Buenos Aires dieci mesi fa. Segnava il culmine di una nuova egemonia della sinistra populista, al governo nei tre paesi più grossi (Brasile Messico Argentina) e in molti altri.
Il summit rilanciava con enfasi l’obiettivo di emancipazione dagli Stati Uniti. In quel contesto veniva resuscitato un antico progetto di moneta unica tra Brasile e Argentina: un modo per ridurre la dipendenza dal dollaro. Anche se ilnuovo padrone del continente ormai è la Cina. Il summit di Buenos Aires a gennaio riuniva i paesi del Celac, che sta per Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caraibenos. A dominare la scena al summit Celac furono il Brasile di Lula da Silva e l’Argentina di Fernandez. L’idea della moneta unica venne presentata come un esperimento da iniziare a due, per poi eventualmente proporla come la valuta di tutto il Mercosur, la comunità economica dei paesi sudamericani. Le motivazioni di questo progetto – non nuovo – rievocano quelle che ispirarono l’euro: facilitare gli scambi commerciali tra paesi vicini e affini; ridurre i costi; infine e soprattutto eliminare la dipendenza da una moneta terza come il dollaro. Le critiche contro quel progetto a gennaio vennero soprattutto da parte brasiliana. Fabio Ostermann, un politico centrista vicino al mondo delle imprese brasiliane, definì il progetto «insensato, l’equivalente di aprire un conto in banca congiunto con un amico disoccupato e indebitato con tutti» (un’allusione non proprio amichevole all’Argentina). Come minimo il progetto di moneta unica poteva essere considerato un diversivo. Non affrontava le radici di un dissesto economico che non ha nulla a che vedere con l’influenza degli Stati Uniti o del dollaro. L’inflazione argentina, ad esempio, deriva da politiche populiste di ispirazione peronista: spesa pubblica facile, elargizioni assistenzialiste, finanziate da una banca centrale che stampa moneta.
L’idea di ridurre la dipendenza dal dollaro però piaceva molto a Pechino – che persegue la “sdollarizzazione” ad esempio nell’interscambio con la Russia – e in questo senso il progetto Lula-Fernandez era in sintonia con gli interessi della nuova superpotenza dominante in questa parte del mondo. Perciò ci fu un seguito: in Sudafrica ad agosto al vertice dei Brics l’Argentina fu accolta tra i sei paesi candidati all’allargamento. In Sudafrica si tornò a parlare di “sdollarizzazione”.
Ora il pendolo dell’alternanza oscilla nell’altra direzione. La vittoria di Milei è l’inevitabile conseguenza dei disastri economici compiuti dal peronismo. Il dietrofront è spettacolare: l’Argentina imbocca la strada opposta a quella di Messico e Brasile, torna a sognare un esperimento liberista, stavolta in forme più radicali rispetto a quello di Macrì. I paragoni con Donald Trump su questo terreno sono azzardati. Trump è stato un liberista nei proclami, ma la sua politica economica è stata segnata dal protezionismo (dazi) e da massicci aiuti a famiglie e imprese durante la pandemia. Il deficit e il debito federali degli Stati Uniti sono aumentati sotto Trump, non diminuiti. Milei ha un linguaggio che sembra ispirato più dal padre teorico del neoliberismo, il Premio Nobel (scomparso) Milton Friedman, che non a Trump. La sua ascesa al potere viene accolta con cautela all’estero, ivi compreso dal grande vicino del Nord, gli Stati Uniti. Nell’immediato (Papa Francesco ha chiamato Milei per congratularsi della vittoria al ballottaggio) i mercati finanziari hanno salutato con favore la sua vittoria e alcuni titoli argentini si sono apprezzati. La sua proposta di “dollarizzare” l’Argentina, abolendo il peso e la banca centrale per adottare la valuta Usa, si scontra con un ostacolo notevole: come comprare i dollari necessari? Poiché le casse dello Stato sono vuote – o peggio, in rosso – Milei dovrebbe convincere il resto del mondo a prestargli altri 30 miliardi di dollari, secondo alcune stime.
Lo scetticismo è comprensibile, tanto più che Milei non ha una maggioranza parlamentare. Gli argentini che lo hanno votato sembrano mossi dalla disperazione: dopo tanti esperimenti falliti, una parte di loro vorrebbero davvero un leader capace di «rivoltare il paese come un calzino». È dai tempi di Evita, quella vera, che l’Argentina ha perso il contatto con la realtà economica, le regole del mercato, i vincoli del bilancio pubblico.
21 novembre 2023, 19:03 - modifica il 21 novembre 2023 | 21:48
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Glielo prestano gli americani pur di far capire al Sud America che la sinistra è il male assoluto! Il resto lo faranno le banche d affari . Già molti investitori guardano all opportunità Argentina!
 
L'idea che sia un'altra pedina nella sfida sulla de-dollarizzazione non è così sciocca.
Già l'Ecuador se non sbaglio ha percorso l'adozione del dollaro con risultati negativi.

Riflessioni sul funzionamento della democrazia quando il popolo è troppo debole culturalmente ed economicamente sono importanti. Immagino la totale sfiducia degli Argentini nella spesa pubblica, vedendo solo risultati fallimentari. Praticamente ripiegano sull' "ognuno per se", non pensando troppo al fatto che chi ha il potere e soprattutto i soldi sia ben più capace di loro a girare le cose a proprio favore.

Per rimanere in topic, è possibile che i Bond argentini vengano supportati da decisioni "amichevoli" del FMI visto che sembra un candidato simpatico ad un loro vicino molto influente?
 
L'idea che sia un'altra pedina nella sfida sulla de-dollarizzazione non è così sciocca.
Già l'Ecuador se non sbaglio ha percorso l'adozione del dollaro con risultati negativi.

Riflessioni sul funzionamento della democrazia quando il popolo è troppo debole culturalmente ed economicamente sono importanti. Immagino la totale sfiducia degli Argentini nella spesa pubblica, vedendo solo risultati fallimentari. Praticamente ripiegano sull' "ognuno per se", non pensando troppo al fatto che chi ha il potere e soprattutto i soldi sia ben più capace di loro a girare le cose a proprio favore.

Per rimanere in topic, è possibile che i Bond argentini vengano supportati da decisioni "amichevoli" del FMI visto che sembra un candidato simpatico ad un loro vicino molto influente?
Argentina e' la piu' grande potenz.. o l seconda, del SudAmerica.E' un fllimento del socialismo.. che va in bancarott non appena finiscono i soldi deli altri.Non solo l'Argentina ha dilapidato miliardi prestati dagli acquirenti dei Bonds. i quali fose non verrnno mi ripagati..ma ha anche dilapidato 50 milardi del FMI. e il FMI di solito i soldini li riuole.Certo che il pricolo e' la cubanizzione dell'Argentin.. Ma non creco che gli USA la vogliano.Certo che sara' dura per l'Argentina tornare ai mercti pe nuovi prestiti
 
Argentina e' la piu' grande potenz.. o l seconda, del SudAmerica.E' un fllimento del socialismo.. che va in bancarott non appena finiscono i soldi deli altri.Non solo l'Argentina ha dilapidato miliardi prestati dagli acquirenti dei Bonds. i quali fose non verrnno mi ripagati..ma ha anche dilapidato 50 milardi del FMI. e il FMI di solito i soldini li riuole.Certo che il pricolo e' la cubanizzione dell'Argentin.. Ma non creco che gli USA la vogliano.Certo che sara' dura per l'Argentina tornare ai mercti pe nuovi prestiti
 
Argentina e' la piu' grande potenz.. o l seconda, del SudAmerica.E' un fllimento del socialismo.. che va in bancarott non appena finiscono i soldi deli altri.Non solo l'Argentina ha dilapidato miliardi prestati dagli acquirenti dei Bonds. i quali fose non verrnno mi ripagati..ma ha anche dilapidato 50 milardi del FMI. e il FMI di solito i soldini li riuole.Certo che il pricolo e' la cubanizzione dell'Argentin.. Ma non creco che gli USA la vogliano.Certo che sara' dura per l'Argentina tornare ai mercti pe nuovi prestiti
certo, perchè vorrei vedere dove sarebbe il capitalismo di noantri se la fed (e lo stesso vale per la bce) non stampasse soldi senza fine e si alzasse continuamente il tetto del debito federale. La differenza fra sudamerica e usa è che nessuno chiederà mai i soldi agli americani e nessuno imporrà mai loro un default, come hanno fatto, ad esempio, con il venezuela, bloccandogli il pagamento dei bond (ma maduro glielo ha messo...). Frattanto gli staindebitati usa (e loro cittadini, con 5 carte di credito, che in realtà sono tutte di debito) prestano soldi attraverso il loro braccio armato (FMI), per poi prendersi pezzi di Stati sovrani. Ti consiglio la lettura di "Confessioni di un sicario dell'economia, e poi ne riparliamo.
E se non ce la fanno coi soldi, ti piazzano qualche loro pupazzo, come nel caso di milei che, sempre per caso, fa parte del world economic forum.
Se neppure questa opzione va bene, ci scappa un colpettino di stato.
 
certo, perchè vorrei vedere dove sarebbe il capitalismo di noantri se la fed (e lo stesso vale per la bce) non stampasse soldi senza fine e si alzasse continuamente il tetto del debito federale. La differenza fra sudamerica e usa è che nessuno chiederà mai i soldi agli americani e nessuno imporrà mai loro un default, come hanno fatto, ad esempio, con il venezuela, bloccandogli il pagamento dei bond (ma maduro glielo ha messo...). Frattanto gli staindebitati usa (e loro cittadini, con 5 carte di credito, che in realtà sono tutte di debito) prestano soldi attraverso il loro braccio armato (FMI), per poi prendersi pezzi di Stati sovrani. Ti consiglio la lettura di "Confessioni di un sicario dell'economia, e poi ne riparliamo.
E se non ce la fanno coi soldi, ti piazzano qualche loro pupazzo, come nel caso di milei che, sempre per caso, fa parte del world economic forum.
Se neppure questa opzione va bene, ci scappa un colpettino di stato.
Neorealismo puro, ottimo direi :clap:
 
che voi sappiate, è possibile chiedere una manleva a fineco per poter tradare questi titoli pur rimanendo retail?
 
lo postate in chiaro :bow:

Argentina, con Milei inizia l’asta: via il Peso, dentro il Dollaro. La sfida sul litio tra Usa e Cina​

di Milena Gabanelli e Giuseppe Sarcina



Il prossimo 10 dicembre, in Argentina, comincia la presidenza di Javier Milei. Chi è Milei? Suo padre era un autista di autobus, sua madre casalinga. Dopo un’infanzia difficile, si laurea in economia, consegue due master e inizia a lavorare in società finanziarie, ma diventa noto per le sue rissose apparizioni in tv. Riesce a farsi eleggere deputato nel 2021 con la lista Libertad avanza, con le sue teorie «anarco-capitaliste» ispirate dal liberista Milton Friedman e da un altro economista americano meno noto, Murray Rothbard. Il 19 novembre scorso ha convinto gli elettori offrendo un drastico ridimensionamento dello Stato «il male assoluto», guidato «da una casta di parassiti».
01_Programma_DESK.svg

Ecco il suo programma: cancellazione di 11 ministeri; abolizione della Banca Centrale; vendita delle principali aziende di Stato, come la società petrolifera Ypg o l’istituto di credito Grupo Financiero Galicia; privatizzazione della sanità e della scuola; nessuna misura per contrastare il climate change; via i vincoli al possesso di armi; abolizione della legge sull’aborto; liberalizzazione delle adozioni e del «mercato degli organi umani», visto che «uomini e donne sono proprietari innanzitutto del proprio corpo». Infine la riforma bandiera: sostituzione del peso con il dollaro americano.
02_Ministeri_DESK.svg

Pur lavorando si diventa poveri​

Nel ballottaggio, Milei ha conquistato il 55% dei consensi, battendo l’ex ministro dell’economia, il peronista Sergio Massa. Tuttavia potrà contare solo su 39 seggi sui 257 totali della Camera e sette sui 72 del Senato. Sarà, dunque, un presidente senza maggioranza parlamentare. Potrà fare solo alcune cose per decreto, come ridurre il numero dei ministeri, ma per il resto dovrà trattare con i moderati di Insieme per il cambiamento, guidato dall’ex presidente Mauricio Macri e dalla candidata alle elezioni Patricia Bullrich. Certo, il presidente, soprannominato «el loco» (il matto) fin da ragazzo, potrebbe procedere a colpi di referendum. Ma non è detto che riesca a spuntarla su temi sensibili come l’aborto, la vendita di organi, o il climate change
000_346K3CL-k8jB-U34501149532416H5E-2824x1883@Corriere-Web-Nazionale.jpg

Il Paese sembra incamminato verso il decimo default finanziario della sua storia. Soffocato dalla stagflazione, cioè la diminuzione della ricchezza prodotta (-2,5% la stima per la fine del 2023), combinata con una furiosa inflazione, oggi al 143% e che, secondo le previsioni, potrebbe toccare il 200% alla fine dell’anno. Il tasso di disoccupazione è alto (6,6%), ma non drammatico. Ciò significa che una larga fascia di argentini si impoverisce, pur lavorando. Circa il 40% della popolazione, 18,3 milioni su 45, vive sotto la soglia della povertà, l’equivalente di 750 euro per una coppia con due figli minorenni; il 9,3% degli abitanti non ha neanche i soldi per mangiare. L’altro tema chiave è il dissesto delle finanze statali. Il debito pubblico ammonta a 419 miliardi di dollari, pari all’85% sul prodotto interno lordo, un peso sostenibile se non fosse che oltre la metà è in mani straniere. Vanno conteggiati i 44 miliardi di dollari prestati dal Fondo monetario internazionale e altre decine di miliardi in titoli e obbligazioni sottoscritte dai grandi fondi americani, da BlackRock a Gramercy Funds Management. Il tasso di interesse è arrivato alla strabiliante percentuale del 145%, nel tentativo di raffreddare l’inflazione e attirare altri sottoscrittori per i titoli di Stato. Non sta funzionando. La vittoria di Milei è maturata in questo sfacelo.
03_Paese_DESK.svg

Sostituzione del Peso col Dollaro​

Per il neopresidente la via d’uscita è in una soluzione shock: buttare via la moneta locale, chiudere la Banca centrale e ricominciare usando solo dollari. Molti economisti, in Argentina e altrove, hanno subito avvertito: attenzione, ciò significa rinunciare alla politica monetaria, appaltandola alla Federal Reserve americana. Per cominciare sarebbe Washington a fissare il tasso di interesse anche per Buenos Aires. Le autorità argentine, inoltre, non potrebbero più manovrare il tasso di cambio con le altre monete: per esempio non sarebbe più possibile svalutare per favorire le esportazioni. Infine perderebbero l’opportunità di stampare altre banconote, immettendo liquidità nel sistema per alimentare la domanda di beni e servizi. Sono tutte obiezioni convincenti per uno Stato con i conti in ordine: valgono anche per l’Argentina di oggi? Le imprese, di fatto, già esportano e importano con altre valute: dollaro, ma anche yuan cinese. La moneta americana è scambiata in nero a un valore 3-4 volte superiore rispetto a quello ufficiale. Se la «dollarizzazione» riuscisse a mettere in sicurezza stipendi e pensioni, a rilanciare i consumi, a riportare un po’ di ordine nei conti pubblici, allora in pochi rimpiangerebbero il peso, la moneta locale.
04_Dollaro_DESK.svg

I precedenti di Panama, Equador, Salvador​

Ci sono alcuni precedenti: Panama ha adottato il biglietto verde già nel 1904, l’Ecuador nel 2000 ed El Salvador nel 2001. A Panama è andata bene: lo Stato del Canale ha beneficiato di una crescita economica costante, integrandosi nel circuito americano. Le economie delle altre due nazioni, invece, sono rimaste fragili e i loro bilanci pubblici oggi rischiano la bancarotta. L’Ecuador per salvarsi ha addirittura chiesto e ottenuto prestiti dalla Cina. In cambio, nel maggio scorso, ha stretto un accordo di libero scambio con Pechino. Curioso no? Mi affido al dollaro, ma ho bisogno del salvataggio cinese.

Circa il 40% della popolazione, 18,3 milioni su 45, vive sotto la soglia della povertà, (...) il 9,3% degli abitanti non ha neanche i soldi per mangiare.

Alla corte di Joe Biden​

Il primo problema dell’Argentina è che lo Stato non ha abbastanza dollari per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici e le pensioni. La Banca centrale non possiede valuta americana nelle sue riserve. Da dove potrebbero arrivare i dollari necessari per trasformare l’economia argentina? Un canale potrebbe essere il commercio con gli Stati Uniti. Ma per gli argentini la bilancia dei pagamenti con gli Usa (export meno import di beni e servizi) è in deficit di 9,9 miliardi. Escono molti più dollari di quanto ne entrino nel Paese.
06_Commercio_DESK.svg

Milei ha già bussato alla porta del Fondo monetario internazionale, ma prima di erogare altre risorse vorrà verificare se davvero ci saranno le riforme, in particolare il taglio del 15% della spesa pubblica. E comunque i dollari del Fmi non basteranno. E allora? Milei spera di contare sull’appoggio politico ed economico della Casa Bianca: nei giorni scorsi è volato a Washington per incontrare alcuni funzionari del Tesoro e soprattutto il capo della sicurezza nazionale Jake Sullivan, stretto collaboratore di Joe Biden. I due hanno discusso di come rafforzare il rapporto tra i rispettivi Paesi. Tutto ciò si tradurrà in una specie di Piano Marshall per l’Argentina? È difficile immaginare che Joe Biden, alle prese con Ucraina e Gaza, possa chiedere al Congresso di stanziare fondi per Buenos Aires. Nel caso di un ritorno di Donald Trump ci sarà certamente una buona intesa (i due simpatizzano), ma gli aiuti finanziari ad altri Stati non fanno parte della dottrina trumpiana. È più probabile invece che la finanza e l’industria statunitensi decidano di acquistare (magari facendo pure il prezzo) le aziende di Stato che Milei vuole privatizzare. I settori sono quelli strategici: telecomunicazioni, energia, banche, media e, come vedremo, c’è dentro la partita cruciale delle grandi miniere di litio.

(…) uno degli obiettivi dei Brics è proprio quello di contrastare il primato del dollaro a livello mondiale (…) Xi Jinping spinge per lo yuan. Milei (…) vuole aggrapparsi al dollaro (…)

Saltano i piani del Brasile​

In campagna elettorale ha ripetuto che il primo gennaio 2024 l’Argentina non entrerà, insieme con altri cinque Paesi, nel gruppo dei Brics formato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Il motivo è che uno degli obiettivi dei Brics è proprio quello di contrastare il primato del dollaro a livello mondiale, usando altre monete per i commerci e per le riserve delle banche centrali. Xi Jinping spinge per lo yuan. Milei che vuole aggrapparsi al dollaro e agli Usa scombina i piani di almeno due Paesi: quelli del presidente brasiliano, Ignacio Lula da Silva, che suggerisce di utilizzare le proprie valute almeno negli scambi tra i Paesi del Brics. E di scambi fra Brasile a Argentina ne corrono parecchi: il Brasile assorbe il 14,3% delle esportazioni argentine (dati Comtrade 2022). Si può prevedere un forte contrasto tra i due leader anche nel quadro del Mercosur, il patto di libero scambio tra Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. Il presidente brasiliano vorrebbe ridurre anche qui l’uso del dollaro e, nello stesso tempo, concludere un accordo con la Ue (che ora sembra vicino); Milei potrebbe spingere per un avvicinamento verso Washington. Lula, per altro, presiederà il G20 nel 2024 e il Gruppo dei Brics nel 2025. Due occasioni per guidare l’affrancamento del «grande Sud» dall’influenza americana. Forse Milei non sarà a bordo, ma lo vedremo alla prova dei fatti.
05_Brics_DESK.svg

Un freno alle mire cinesi sul Sud America​

La mossa del «loco» è indigesta anche per la Cina, che punta ad estendere la sua influenza sul Sudamerica. Pechino è un cliente vitale per l’economia argentina. Nel 2022 ha acquistato il 92% della produzione di soia e il 57% della carne. Inoltre il governo cinese ha già concesso all’Argentina prestiti per 18 miliardi di dollari. Ma la partita più importante è quella sul litio, la materia prima fondamentale per le batterie delle auto elettriche, di accumulo delle energie rinnovabili, e per tutti gli apparecchi elettronici. L’Argentina, con Cile e Bolivia, detiene immense riserve del minerale e finora non del tutto sfruttate. Proprio il candidato sconfitto alle elezioni, l’ex ministro Massa, aveva appena concluso un accordo con il gruppo cinese Tibet Summit Resources: investimenti per 1,7 miliardi di dollari, in cambio di 10 mila posti di lavoro nelle miniere e nell’indotto.
07_Cina_DESK.svg

Nell’area argentina dell’altopiano andino sono già attive diverse aziende cinesi, fra cui la Ganfeng Lithium e la Tsingshan Holding Group. Una collaborazione chiaramente sgradita agli Stati Uniti, che pure sono presenti nei campi minerari argentini con la società Livent Corporation. Ora è lecito chiedersi fino a che punto Milei frenerà i cinesi e favorirà gli americani nella corsa al litio. La partita, dove la Ue non tocca palla, è solo all’inizio.

dataroom@corriere.it

ARGENTINADOLLAROJAVIER MILEI
4 dicembre 2023 | 06:47
© RIPRODUZIONE RISERVATA
 
Posto quanto riproducibile.
Mancano i grafici.
 
Posto quanto riproducibile.
Mancano i grafici.
Sei stato molto gentile grazie lo stesso ma nulla di nuovo... secondo me dopo un feeling iniziale il loco farà la fine del governo Italiota, servitù illimitata agli USA che come fanno di solito compreranno a prezzi stracciati lo Stato argentino... lo aspetto al varco... dovrà prima o poi parlare con la Cina, in caso contrario vorrà dire che il popolo si è rivoltato contro chi ha votato... è proprio vero più pagliaccio sei più ti votano caratteristica dei popoli latini (escluso la spagna per ora :asd:)
 
Ultima modifica:
Sei stato molto gentile grazie lo stesso ma nulla di nuovo... secondo me dopo un feeling iniziale il loco farà la fine del governo Italiota, servitù illimitata agli USA che come fanno di solito compreranno a prezzi stracciati lo Stato argentino... lo aspetto al varco... dovrà prima o poi parlare con la Cina, in caso contrario vorrà dire che il popolo si è rivoltato contro chi ha votato... è proprio vero più pagliaccio sei più ti votano caratteristica dei popoli latini (escluso la spagna per ora :asd:)
Non direi, anche in Spagna non scherzano!
 
Indietro