Caso moro. Le br erano pedine usa ?

Lascia perdere, devi dirmi chi ha sparato.
«De Vuono, il legionario calabrese che (forse) uccise Aldo Moro». L'ipotesi in una relazione dell' Antimafia

IL DOCUMENTO

«De Vuono, il legionario calabrese che (forse) uccise Aldo Moro». L’ipotesi in una relazione dell’Antimafia​

Dagli atti della Commissione riemerge la figura del “pistolero” di Scigliano. La presunta presenza in via Fani e il ruolo nel rapimento

Pubblicato il: 20/01/2023 – 16:11
di Pablo Petrasso
Ascolta l’articolo
«De Vuono, il legionario calabrese che (forse) uccise Aldo Moro». L’ipotesi in una relazione dell’Antimafia


LAMEZIA TERME L’ipotesi, non nuova (la pubblicistica è più che ampia) riaffiora nell’ultima relazione depositata dalla commissione parlamentare antimafia della precedente legislatura: il rapimento di Aldo Moro e l’eccidio di via Fani non furono un’azione “solitaria” delle Brigate Rosse. Ad aiutarle fu la criminalità organizzata. Banda della Magliana e ‘Ndrangheta avrebbero avuto un ruolo nell’azione che segna una cesura nella storia d’Italia.
via-fani-e1620547838376.jpg

Lo si legge nel documento – “Risultanze di un supplemento di acquisizioni investigative sull’eventuale presenza di terze forze, riferibili ad organizzazioni criminali, nel compimento dell’eccidio di via Fani” – nel quale i commissari antimafia sottolineano che «si può legittimamente ritenere che nell’organizzazione di un’azione che comportava capacità strategiche elevate e una notevole preparazione militare di cui i brigatisti, per loro stessa ammissione, non disponevano, sia stato chiesto ed ottenuto l’apporto, con qualche contropartita, di uno o più soggetti che potevano assicurare la propria esperienza, tanto nell’uso delle armi da fuoco in condizioni difficili, quanto nella gestione dei sequestri di persona. Un apporto facilitato dal fatto che, se fosse verificato il contributo di De Vuono (figura legata alla criminalità organizzata e responsabile anche del rapimento dell’ingegner Carlo Saronio, ndr), potrebbe ipotizzarsi un saldo tramite tra la criminalità organizzata e la criminalità politica». Riemerge, dunque, dalla relazione, la figura di Giustino De Vuono: delinquente comune, arruolato nella Legione Straniera, infine individuato come killer al servizio della criminalità organizzata. Sfuggente, quasi una fantasma. Come la sua salma: considerata “irreperibile” prima che si scoprisse che è sepolto all’ombra dei monti del Savuto, nel cimitero di Scigliano, paese di origine. Il ruolo di De Vuono come possibile assassino di Moro emerge da alcuni volumi controversi (nel dibattito storico sul rapimento dello statista democristiano), da testimonianze e confronti sull’autopsia effettuata sul cadavere di Moro, che presenterebbe caratteristiche tipiche del modo di sparare del legionario (i fori a raggiera intorno al cuore).
De_Vuono_ritaglio_001-602x484.jpg

La foto di De Vuono nel “volantone” diffuso dal ministero dell’Interno​

«De Vuono – si legge nella relazione – è stato indicato, sin dalle prime ore successive all’avvenuto sequestro, come implicato nell’operazione del rapimento dell’Onorevole Moro, in veste di elemento di appoggio alle Brigate Rosse. In seguito, De Vuono è stato considerato anche come soggetto eventualmente coinvolto nella tragica conclusione della vicenda. Infatti, il “volantone” diffuso dal Ministero dell’Interno già nell’immediatezza del rapimento poneva in rilievo, quali possibili autori del rapimento, le immagini di un gruppo di brigatisti ricercati tra cui spiccava anche la fotografia di Giustino De Vuono». Continua il ragionamento dei commissari: «Certamente è di particolare interesse l’appunto esaminato con attenzione dalla seconda Commissione Moro, inviato dal Centro informativo della Guardia di Finanza di Roma al Ministero dell’Interno già la sera del 17 marzo 1978. Nell’appunto venivano riferite le notizie acquisite da “una fonte confidenziale degna di fede”. La fonte aveva riferito sulla presenza di De Vuono, insieme a Lauro Azzolini e Rocco Micaletto, in quei giorni nella capitale e rendeva nota la probabile detenzione del sequestrato in una prima prigione munita di un garage, collocata a breve distanza da via Fani».

L’articolo di Pecorelli: «Il legionario si chiama “De”»​

Inevitabile, poi, la citazione di un articolo di Mino Pecorelli che ritorna in tutte le teorie alternative sul delitto: «Vi è poi una evidente assonanza tra quanto riferito con tali appunti e quanto scritto il 16 gennaio 1979 dal giornalista Mino Pecorelli sul bollettino della sua agenzia Osservatorio Politico (O.P.). Infatti, l’articolo “Vergogna buffoni“, dedicato proprio al sequestro Moro, si conclude con la frase, enigmatica ma indicativa: “Non diremo che il legionario si chiama “De” e il macellaio Maurizio”. L’indicazione del “legionario” non può che riferirsi a De Vuono, che – lo si ribadisce – aveva militato in gioventù nella Legione straniera francese, mentre “Maurizio” era il nome di battaglia di Mario Moretti, poi condannato tra gli esecutori materiali dell’omicidio dello statista. Si deve sottolineare che l’articolo, pubblicato pochi mesi dopo il ritrovamento del corpo dell’onorevole Moro, quando ancora a livello investigativo non si sapeva praticamente nulla e poche settimane prima dell’omicidio per mano ignota dello stesso Pecorelli, contiene alcuni riferimenti molto significativi se letti con gli occhi di oggi».

La somiglianza con l’identikit del 24 marzo 1978​

Schermata-2023-01-20-alle-15.57.54-934x484.png
Nel riquadro a sinistra quello che si ipotizza possa essere Giustino De Vuono in via Fani il giorno del rapimento di Aldo Moro
De Vuono non sarebbe mai stato legato «ad una specifica cosca calabrese». Nel suo paese, si favoleggia ancora riguardo alla sua abilità come “pistolero”: sarebbe stato capace di colpire un cerino da 25 metri di distanza. Elemento questo, assieme ad altri, emerso nell’audizione di Luciana De Luca, consulente della Commissione e giornalista del Quotidiano del Sud che sulla figura del legionario ha condotto un lavoro d’inchiesta sul territorio. Proprio in virtù delle sue capacità come tiratore, De Vuono poteva «essere la persona adatta a dare appoggio al gruppo che doveva operare in via Fani». Non vi è, tuttavia, «evidenza certa» della sua presenza in via Fani; «vale però citare una somiglianza tra questi e l’identikit allegato al verbale di sommarie informazioni testimoniali di Lina De Andreis reso al Nucleo Investigativo Carabinieri di Roma in data 24 marzo 1978, che ritrae l’uomo che in via Fani l’aveva minacciata con lo sguardo».

La “soffiata” del boss Musolino e il vicebrigadiere ucciso per un cambio turno​

Altro incrocio con la ‘ndrangheta riguarda la tragica fine del vicebrigadiere Francesco Zizzi, ucciso per un cambio turno nella mattina del rapimento. «Appare opportuno ricordare – si legge nella relazione – quanto dichiarato nel corso dei lavori della seconda Commissione Moro da Filippo Barreca, appartenente alla ‘ndrangheta e importante collaboratore di giustizia. Questi infatti, dinanzi a consulenti della seconda Commissione Moro, ha narrato di aver appreso da Rocco Musolino, boss di Sant’Eufemia dell’Aspromonte, che egli avrebbe salvato un compaesano a lui legato che faceva parte della scorta di Moro avvisandolo di non recarsi al lavoro quel giorno. L’agente della scorta sfuggito così all’eccidio è stato identificato in Rocco Gentiluomo, originario appunto del luogo di cui ha parlato Filippo Barreca, che è stato improvvisamente cancellato il 16 marzo dal turno di servizio».
Il suo posto, dunque, «è stato preso da Francesco Zizzi, il quale, avendo prestato servizio il 15 marzo, non avrebbe dovuto la mattina dopo essere presente al seguito dell’onorevole Moro. Invece, fu lui ad integrare il servizio di scorta del presidente della Democrazia Cristiana ed è dunque caduto al suo primo giorno in cui prestava servizio di tutela di Aldo Moro».
moro-632x484.jpg
Aldo Moro, prigioniero delle Br, in una foto d’archivio. ANSA

La “trattativa” di Cazora con Salvatore “Rocco” Varone​

Ritornano le ombre dei clan calabresi nella rievocazione del ruolo del deputato democristiano Benito Cazora, entrato «in contatto, tramite intermediari, con l’elemento della ‘ndrangheta Salvatore “Rocco” Varone. Questi aveva garantito l’intervento della sua famiglia a patto di “regolarizzare” la propria posizione giudiziaria. Effettivamente, gli uomini di Varone avevano poi mostrato all’onorevole Cazora la zona di via Gradoli sulla via Cassia, ove si trovava una base delle Brigate Rosse». La polizia, tuttavia, «aveva risposto a Cazora che tale via era già stata battuta palmo a palmo, vanificando così i possibili effetti di svolta sulla vicenda dell’informazione ricevuta. Si ricordi anche la telefonata intercorsa il 1 maggio 1978, alle ore 20.14, tra l’onorevole Cazora e Sereno Freato; tale telefonata conferma i contatti che erano in corso tra quest’ultimo e i calabresi e fa riferimento ad una contropartita richiesta da tali esponenti della criminalità calabrese. Di seguito, il testo di questa telefonata intercettata:
Cazora: Mi servono le foto del 16 marzo….
Freato: quelle del posto lì ?
Cazora: Sì perché loro (nastro parzialmente cancellato) perché uno sta proprio lì, mi è stato comunicato da giù.
Freato: E che non ci sono… ah le foto di quelli di quelli, dei nove…
Cazora: No, no ! Dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertire che in una di quelle foto prese sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio noto a loro». (p.petrasso@corrierecal.it)

corriere_calabria_donazioni.jpg

L'offerta informativa del Corriere della Calabria rimarrà gratuita​

Senza le barriere digitali che impediscono la fruizione libera di notizie, inchieste e approfondimenti. Se approvi il giornalismo senza padroni, abituato a dire la verità, la tua donazione è un aiuto concreto per sostenere le nostre battaglie e quelle dei calabresi.
La tua è una donazione che farà notizia. Grazie



Conferma




Argomenti
‘ndrangheta
aldo moro
cronaca
giustino de vuono
rapimento aldo moro
via fani
Categorie collegate
catanzaro
cosenza
crotone
reggio calabria
ultime
vibo valentia
 
Non è questione dell'essere iscritti dal 2000, ma di conoscere le cose.
Che a sparare quel giorno alla scorta di Aldo Moro non ci fossero soltanto i brigatisti è ormai dato per certo.
Chi fossero queste altre pedine presenti sul luogo del misfatto è ancora un mistero.
 
I libri va bene leggerli, ma quelli giusti però..
 
Dovete trovarli da soli. Non sponsorizzo nessuno..
 
I libri va bene leggerli, ma quelli giusti però..
Tal ecitazione di Pecorelli,come la interpreti?
Il povero Mino, sapeva parecchie cose su tale vicenda!
Nel libro che non vuoi sponsorizzare,ne parla eventualmente?

'' la citazione di un articolo di Mino Pecorelli che ritorna in tutte le teorie alternative sul delitto: «Vi è poi una evidente assonanza tra quanto riferito con tali appunti e quanto scritto il 16 gennaio 1979 dal giornalista Mino Pecorelli sul bollettino della sua agenzia Osservatorio Politico (O.P.). Infatti, l’articolo “Vergogna buffoni“, dedicato proprio al sequestro Moro, si conclude con la frase, enigmatica ma indicativa: “Non diremo che il legionario si chiama “De” e il macellaio Maurizio”
Maurizio era il nome di battaglia di quello noto...
 
Tal ecitazione di Pecorelli,come la interpreti?
Il povero Mino, sapeva parecchie cose su tale vicenda!
Nel libro che non vuoi sponsorizzare,ne parla eventualmente?

'' la citazione di un articolo di Mino Pecorelli che ritorna in tutte le teorie alternative sul delitto: «Vi è poi una evidente assonanza tra quanto riferito con tali appunti e quanto scritto il 16 gennaio 1979 dal giornalista Mino Pecorelli sul bollettino della sua agenzia Osservatorio Politico (O.P.). Infatti, l’articolo “Vergogna buffoni“, dedicato proprio al sequestro Moro, si conclude con la frase, enigmatica ma indicativa: “Non diremo che il legionario si chiama “De” e il macellaio Maurizio”
Maurizio era il nome di battaglia di quello noto...
:censored:
 
Aldo Giannuli
LIT EDIZIONI - 384 pagine
Il «Divo Giulio», pur senza esserne mai stato il capo, se ne è ripetutamente servito nella costruzione del proprio sistema di potere: questa è la storia, sconosciuta ai più, del «Noto servizio», un apparato clandestino nato sul finire della Seconda Guerra Mondiale e sopravvissuto sino agli anni Ottanta. Il Noto servizio (detto anche «Anello») è presente in quasi tutti i tentativi eversivi della legalità repubblicana. Dal colpo di Stato di Junio Valerio Borghese alle principali vicende della Strategia della tensione, al caso Moro (di cui questa edizione, rivisitata e arricchita, offre una nuova lettura). Giannuli documenta la presenza puntuale del Noto servizio in tutti gli affari che, lungo un quarantennio, hanno riguardato il petrolio, le armi e la finanza. Nel tempo la centrale di intelligence ha cambiato spesso pelle e componenti, perché «nel mondo degli spioni nulla è per sempre». Due costanti fisse però ci sono: il rapporto con Confindustria e i servizi segreti americani da una parte, il collegamento strettissimo con Giulio Andreotti dall’altra. Ad Andreotti e alla sua concezione della politica l’autore ha dedicato un nuovo capitolo del libro. Con una conclusione inedita: Silvio Berlusconi non è, come la vulgata vuole, l’erede di Bettino Craxi, con il quale in realtà si incrociò solo negli anni Ottanta. Il rapporto più duraturo e profondo per il leader di Forza Italia è stato proprio quello con l’enigmatico «zio Giulio».

Il noto servizio: Le spie di Giulio Andreotti​

 
Indietro