La tentazione di lasciare i debitori con il classico cerino... troppo forte...
LE MONDE diplomatique - Maggio 2001
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LA FINE DELLA CRESCITA AMERICANA MINACCIA L'ECONOMIA MONDIALE
Il grande debitore alla resa dei conti
Il 19 aprile scorso la Federal Reserve Americana ha proceduto ad abbassare i tassi di interesse per la quarta volta dall'inizio dell'anno, facendo balenare la possibilità di un quinto taglio per la metà di maggio. Questo ha, per il momento, drogato ancora una volta i mercati finanziari, ma ha anche, nello stesso tempo, confermato le peggiori inquietudini sull'ampiezza della recessione. Impavida e ferma nella sua ortodossia monetaria, la Banca centrale europea si rifiuta di seguire il passo e mantiene il suo tasso di interesse di riferimento allo stesso livello. Come
se l'Europa potesse essere al riparo dalla tormenta che si preannuncia...
FRÉDÉRIC F. CLAIRMONT *
Della più grande «ubriacatura» di tutta la storia dei cicli economici
americani rimangono ormai soltanto i postumi di sbronza.
«L'economia-miracolo», osannata a suo tempo dal New York Times, si trova in difficoltà. E per ragioni evidenti. Infatti, in questi ultimi nove anni, è stato soprattutto l'afflusso di capitale estero a far da motore all'economia americana. Prova ne è il tasso di crescita delle quotazioni in borsa, che ha raggiunto picchi inusitati, passando dall'81% nel 1994 al 184% nel 1999,
superando dell'84% il prodotto interno lordo (Pil).
Una rapidità di accumulazione ancor più grande di quella verificatasi tra il 1925 e il 1929. Ma questa bolla finanziaria comincia a scoppiare.
Siamo lontani da ciò che gli ideologi del settore finanziario chiamano un
«atterraggio morbido» o una «correzione». Assistiamo alle prime crepe aperte dalla crisi economica più grave dalla fine della seconda guerra mondiale. Le sue conseguenze potrebbero essere infinitamente più gravi di quelle del crollo della borsa tailandese nel luglio 1997 o quelle della
sospensione dei pagamenti russi nel luglio 1998.
Stiamo raggiungendo i limiti di un sistema finanziario internazionale privo di norme e di principi. Immenso casinò dalle regole truccate, questo sistema non ha e non ha mai avuto come scopo «la distribuzione ottimale delle risorse», come asseriscono gli zeloti che l'hanno creato. La sua vocazione è arricchire una minoranza di azionisti di quelle multinazionali
che dominano l'economia mondiale.
Soltanto nel terzo mondo, il debito estero è passato da 1.300 miliardi di dollari nel 1992 a 2.100 miliardi di dollari alla fine del 2000, e il pagamento degli interessi da 167 miliardi di dollari a 343 miliardi di dollari. Gli stati debitori hanno già rimborsato più volte l'ammontare delle somme prese in prestito. E gli stati non esportatori di petrolio subiscono in pieno le conseguenze del rallentamento della crescita americana.
Negli Stati uniti l'industria comincia a conoscere la sovrapproduzione.
I titoli tecnologici, prediletti da Wall Street e che rappresentavano il 60% dei titoli quotati in borsa, si sono deprezzati. Il Nasdaq Composite Index, uno dei barometri chiave della cosiddetta «new economy», ha perso più del 50% dal 10 marzo 2000. Benché il 2000 sia stato, e di molto, il peggior anno della sua storia, il Nasdaq non ha ancora toccato il fondo. Il suo equivalente britannico, il Techmark 100, da parte sua, è crollato del
57%, il Nemax tedesco del 67%. Questi crolli a cascata rispecchiano il rallentamento della crescita e il pessimismo dei grandi investitori.
Tutti gli indicatori dell'economia americana, a eccezione dell'eccedenza di bilancio, sono in rosso: i mercati azionari cedono, le importazioni diminuiscono, la fiducia dei consumatori è in calo, come peraltro i consumi
stessi. L'edilizia è caduta al livello più basso da cinque anni. Anche il credito, che aveva attraversato un formidabile boom, tende a calare.
Infatti, gli investitori esitano a comprare valori industriali ad alto
rischio, il mercato delle azioni ordinarie si sta sgretolando e il bilancio delle banche commerciali peggiora rapidamente, come pure la qualità dei loro attivi finanziari.
Di fatto, il boom americano e la potenza del dollaro si sono fondati
sull'indebitamento, precario per definizione. Un giorno bisognerà pur rimborsare il debito, con interessi compositi. A meno che non lo si voglia rinnegare... E, in effetti, l'aumento dei crediti non rimborsati dalla metà degli anni '60 offre un'immagine avvincente delle mutazioni del capitalismo finanziario. Secondo le cifre della Federal reserve (Fed), l'ammontare
totale di questi importi non pagati è passato da oltre 1.027 miliardi di dollari nel 1964 a 25.678 miliardi di dollari nel 1999. Ovvero un aumento medio del 9,6% all'anno, il che supera di molto la crescita del Pil. Con il rallentamento netto della crescita, questo divario è destinato ad aumentare
ulteriormente.
Per rimborsare questi arretrati ci vorrebbe una cifra pari a tre volte il Pil attuale.
Un capitalismo drogato La situazione finanziaria delle imprese non è certo più edificante.
Il loro indebitamento ha superato i 7.000 miliardi di dollari nel 1999. È prevalentemente servito a finanziare le concentrazioni a tutto spiano, in atto soprattutto nel settore bancario. Tra il 1980 e il 1998, questo
settore ha subito uno dei maggiori cambiamenti strutturali di tutta la storia economica degli Stati uniti: 8.000 fusioni ed acquisizioni, nel corso delle quali son passati di mano attivi per oltre 2.000 miliardi di dollari.
Anche il maggior indebitamento delle famiglie è un fattore di rallentamento.
I prestiti rappresentano ormai il 34% del reddito individuale. Di
conseguenza il tasso di risparmio (1), che era dell'8% nel 1990, è calato al -0,8% nel 1999. In altre parole, le famiglie prendono a prestito più di quanto risparmino. S'indebitano pesantemente, ipotecando la casa, nella maggior parte dei casi, per coprire le spese di consumo corrente che oggi
superano gli aumenti di reddito disponibile di circa 247 miliardi di dollari. Un altro elemento chiave è la crescita esponenziale del disavanzo dei conti
correnti. Si tratta della bilancia degli scambi commerciali di beni,
servizi e pagamenti correnti. Dal 1992 questo disavanzo è aumentato in modo spettacolare fino ad arrivare a 420 miliardi di dollari alla fine del 2000,
ovvero oltre il 4% del Pil. Le importazioni superano in volume le
esportazioni del 35%. E il fenomeno continua.
Va ricordato che fino al 1981 gli Stati uniti erano tutto sommato un paese creditore. Il boom di questi ultimi anni s'è invece fondato
sull'indebitamento, e alla spinta della domanda interna si è fatto fronte con un volume di importazioni sempre maggiore. In altri termini, stampando denaro gli Stati uniti pagano i loro acquisti con riconoscimenti di debito,
privilegio imperiale di cui non gode nessun'altra nazione.
Ci sono poche speranze di ridurre il disavanzo commerciale in pochi mesi: la crescita è in calo, l'industria mondiale funziona solo al 66% della propria capacità (il livello più basso degli ultimi dieci anni) e la sopravvalutazione del dollaro nuoce alla competitività americana. La siderurgia illustra bene tutte le tendenze. I produttori d'acciaio erano ancora in festa a metà decennio, poi la congiuntura è cambiata radicalmente: accumulazione degli stock invenduti, crollo delle entrate, caduta dei prezzi aggravata da una concorrenza spietata.
La siderurgia americana ha la produttività più bassa, tra gli undici
principali produttori mondiali d'acciaio.
Altra conseguenza della crisi: l'intensificarsi della guerra commerciale.
Le autorità americane proclamano, ancora una volta, che la loro siderurgia è vittima delle importazioni a prezzi di dumping, causa di chiusure di fabbriche e di licenziamenti. Ma l'Unione europea accusa gli Stati uniti, non senza ragione, di violare le regole del libero scambio con le restrizioni imposte a certe importazioni. La Corea del Sud ha presentato un
ricorso per lo stesso motivo presso l'Organizzazione mondiale del commercio (Omc). La siderurgia illustra perfettamente l'incapacità del capitalismo americano di affrontare la forza effettiva della concorrenza mondiale, malgrado gli enormi aiuti all'esportazione.
Tossico impenitente, il capitalismo americano è «drogato» d'indebitamento. Quest'economia ammalata di debiti ha bisogno di iniezioni stimate sui 400-500 miliardi di dollari all'anno per esser tenuta in vita.
Il Tesoro americano, sostenuto da tutta la casta politica, ha come dogma quello di perpetuare un «dollaro forte» con il fine di attirare capitali esteri, sempre più indispensabili. La Fed stessa ammette che la differenza dei tassi di rendimento tra mercati europei e americani è uno dei motori
principali dell'accumulazione negli Stati uniti, poiché spinge i
capitalisti stranieri ad aumentarvi i propri investimenti.
Da qui deriva l'immensa ondata di fusioni, acquisizioni, scalate.
Attualmente gli Stati uniti si accaparrano l'80% del risparmio mondiale.
Secondo il Dipartimento del Commercio il ritmo annuo d'investimenti esteri nel primo trimestre del 1999 era due volte e mezza quello raggiunto nel corso dello stesso periodo del 1995. Si potrebbe pensare che il tasso di cambio del biglietto verde non calerà finché i finanziatori esteri avranno
quantità crescenti di dollari. Lo sgretolamento sempre più rapido dei mercati borsistici rischia di smentire questa fragile ipotesi. È il boom finanziario che ha attirato questi fondi verso gli Stati uniti: una congiuntura sfavorevole li farà ripartire con un solo click del mouse.
L'economia americana ha raggiunto un punto limite nell'appropriazione del risparmio mondiale. Così l'espansione di questi ultimi nove anni rischia di andare in fumo. Le fluttuazioni della bilancia commerciale continueranno in
un prossimo futuro ad aggravare l'instabilità endemica del dollaro. I debiti giganteschi degli Stati uniti non smetteranno di aumentare, resistendo alle cure classiche della politica monetaria.
Questo fenomeno d'indebitamento massiccio non riguarda solo gli Stati uniti. Ma, con il 30% del Pil mondiale, la loro economia occupa una posizione strategica: detiene tutti i posti di comando nel movimento dei capitali, nei mercati finanziari, nel commercio mondiale. L'incombente crollo della borsa americana potrebbe dunque avere ripercussioni devastanti
sull'economia mondiale. Non si tratta di sapere se il debito americano verrà rimborsato o no e secondo quali modalità.
Contrariamente a quanto pensava Keynes all'indomani del Trattato di Versailles, rimborsare o meno un debito non dipende dalle capacità dei governanti.
Il governo e il grande capitale degli Stati uniti non hanno né la volontà né i mezzi per saldare il loro debito. Lo stesso ragionamento vale per i paesi del terzo mondo. È senz'altro possibile che parti importanti di tale debito, tanto quello degli americani che di altri, rimangano in futuro
inesigibili. E non s'intravvede nessun fattore suscettibile di dar luogo a una ripresa durevole. Un boom delle spese nel campo degli armamenti non basterebbe. Gli Stati uniti stanziano per questo già oltre 300 miliardi di dollari all'anno e anche se il presidente George W. Bush aumenterà la posta
in gioco col suo scudo antimissili, ciò non basterà a modificare i dati economici.
Ridurre i tassi d'interesse per aumentare la domanda è una soluzione di ripiego, ma non risolve il problema di fondo. Per i banchieri e i responsabili delle grandi aziende, l'uscita di sicurezza resta quella di continuare le transazioni illegali nei paradisi fiscali, la speculazione monetaria, il riciclaggio del denaro sporco e altri espedienti. Un anno e mezzo dopo lo sfacelo di Seattle, le istituzioni dominanti dell'economia globale - il Tesoro americano, la Banca mondiale, Il Fondo monetario
internazionale e l'Omc - appaiono screditate.
I consueti ritornelli del liberalismo - libero scambio, liberalizzazione, deregolamentazione - non esercitano più lo stesso fascino. Anzi, cosa ancor più importante : il loro potere e le loro banalità cominciano ad essere profondamente contestati, come abbiamo visto al Forum sociale mondiale di
Porto Alegre nel gennaio scorso. Se, secondo i criteri di Wall Street, il boom è stato spettacolare, la manna non è certo caduta sulla maggior parte degli americani. Il divario tra i super ricchi e tutti gli altri si fa più profondo. Nel 1998 il 10% degli americani più opulenti accaparrava il 76% delle ricchezze nette della nazione. E oltre la metà di queste sono tra le mani dell'1% dei super ricchi.
Quanto poi al cosiddetto «pieno impiego» americano (mito anch'esso in crisi negli ultimi tempi), non tiene conto di una popolazione carceraria di 2,3
milioni di persone. Se si considerasse questa cifra nei calcoli, il tasso di disoccupazione del paese sarebbe paragonabile a quello degli altri stati membri dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Non vediamo come un presidente senza qualità, le cui capacità intellettuali suscitano più di una perplessità, possa frenare la spirale di una crisi che fa dire alla Conferenza delle nazioni unite per il commercio e lo sviluppo (Unctad) che «l'economia mondiale è sull'orlo del baratro» (2).