euro a 1.20 dollari petrolio a 12 al barile

gaytrader

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questi sono gli obiettivi a cui mira l'amministrazione BUSH per rilanciare l'economia americana secondo l'editoriale di Milano finanza di Venerdì
ma se ciò dovesse accadere vorrebbe dire dollaro debole e non credo che ciò gioverà alla nostra borsa
ma, chiedo agli esperti del FOL, ci sono dei titoli nella nostra borsa che si possono avvantaggiare dal dollaro debole e dal petrolio a prezzi più bassi?
nel senso che è proprio il loro business che ne trae vantaggio
esempio : una azienda che compra la materia preima in dollari ma vende il prodotto finito in euro...non so ...esiste?
 
Scritto da gaytrader
questi sono gli obiettivi a cui mira l'amministrazione BUSH per rilanciare l'economia americana secondo l'editoriale di Milano finanza di Venerdì
ma se ciò dovesse accadere vorrebbe dire dollaro debole e non credo che ciò gioverà alla nostra borsa
ma, chiedo agli esperti del FOL, ci sono dei titoli nella nostra borsa che si possono avvantaggiare dal dollaro debole e dal petrolio a prezzi più bassi?
nel senso che è proprio il loro business che ne trae vantaggio
esempio : una azienda che compra la materia preima in dollari ma vende il prodotto finito in euro...non so ...esiste?

enel

i titoli che dipendono molto dal petrolio(cementiferi , compagnie aeree, ecc..)

cmq il petrolio a 12 dollari è impossibile che ci arrivi...
 
Re: Re: euro a 1.20 dollari petrolio a 12 al barile

Scritto da lucrezio
enel

i titoli che dipendono molto dal petrolio(cementiferi , compagnie aeree, ecc..)

cmq il petrolio a 12 dollari è impossibile che ci arrivi...

Dubito che il petrolio possa arrivare a 12 perche i costi di estrazione di un barile in Texas è di circa 15 dollari a barile tutto compreso. E se Bush dipende dalle companies (finanziato nella sua campagna elettorale) vedo un po dura la discesa fino al quel livello.

Per l'euro a 1,20 è un male per le nostre aziende. Significa deflazione per noi e quindi stagnazione investimenti calo domanda estera etc.
 
Io vedo una crescita inflazionistica prossima ventura negli states... ormai il bene delle aziende viene prima del bene dei debitori (moltissimi dei quali non americani)...

- Tasse
+ Stampa di US$

Inflazione a due cifre... mercato azionario in forte crescita... debitori con il cerino in mano....

Quindi o investiamo in oro... o investiamo in azioni... specialmente del comparto biotech visti i problemi di epidemie e di terrorismo bio (che è quello meno costoso)...
 
Scritto da bolzanoyoga
Io vedo una crescita inflazionistica prossima ventura negli states... ormai il bene delle aziende viene prima del bene dei debitori (moltissimi dei quali non americani)...

- Tasse
+ Stampa di US$

Inflazione a due cifre... mercato azionario in forte crescita... debitori con il cerino in mano....

Quindi o investiamo in oro... o investiamo in azioni... specialmente del comparto biotech visti i problemi di epidemie e di terrorismo bio (che è quello meno costoso)...

Dubito che nel caso di inflazione il mercato azionario cresca anche perchè nei periodi di forte inflazione non ci sono state forti crescite e durature perche non sono sorrette da utili aziendali (svalutati anche essi).
Per il debito può essere ma non per chi ha tassi variabili
 
Se non altro i treausury bond sono a tasso fisso.... (a quanto so) bisognerebbe capire il resto del debito USA come è composto....
 
La tentazione di lasciare i debitori con il classico cerino... troppo forte...

LE MONDE diplomatique - Maggio 2001
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LA FINE DELLA CRESCITA AMERICANA MINACCIA L'ECONOMIA MONDIALE
Il grande debitore alla resa dei conti


Il 19 aprile scorso la Federal Reserve Americana ha proceduto ad abbassare i tassi di interesse per la quarta volta dall'inizio dell'anno, facendo balenare la possibilità di un quinto taglio per la metà di maggio. Questo ha, per il momento, drogato ancora una volta i mercati finanziari, ma ha anche, nello stesso tempo, confermato le peggiori inquietudini sull'ampiezza della recessione. Impavida e ferma nella sua ortodossia monetaria, la Banca centrale europea si rifiuta di seguire il passo e mantiene il suo tasso di interesse di riferimento allo stesso livello. Come
se l'Europa potesse essere al riparo dalla tormenta che si preannuncia...

FRÉDÉRIC F. CLAIRMONT *
Della più grande «ubriacatura» di tutta la storia dei cicli economici
americani rimangono ormai soltanto i postumi di sbronza.
«L'economia-miracolo», osannata a suo tempo dal New York Times, si trova in difficoltà. E per ragioni evidenti. Infatti, in questi ultimi nove anni, è stato soprattutto l'afflusso di capitale estero a far da motore all'economia americana. Prova ne è il tasso di crescita delle quotazioni in borsa, che ha raggiunto picchi inusitati, passando dall'81% nel 1994 al 184% nel 1999,
superando dell'84% il prodotto interno lordo (Pil).
Una rapidità di accumulazione ancor più grande di quella verificatasi tra il 1925 e il 1929. Ma questa bolla finanziaria comincia a scoppiare.
Siamo lontani da ciò che gli ideologi del settore finanziario chiamano un
«atterraggio morbido» o una «correzione». Assistiamo alle prime crepe aperte dalla crisi economica più grave dalla fine della seconda guerra mondiale. Le sue conseguenze potrebbero essere infinitamente più gravi di quelle del crollo della borsa tailandese nel luglio 1997 o quelle della
sospensione dei pagamenti russi nel luglio 1998.
Stiamo raggiungendo i limiti di un sistema finanziario internazionale privo di norme e di principi. Immenso casinò dalle regole truccate, questo sistema non ha e non ha mai avuto come scopo «la distribuzione ottimale delle risorse», come asseriscono gli zeloti che l'hanno creato. La sua vocazione è arricchire una minoranza di azionisti di quelle multinazionali
che dominano l'economia mondiale.
Soltanto nel terzo mondo, il debito estero è passato da 1.300 miliardi di dollari nel 1992 a 2.100 miliardi di dollari alla fine del 2000, e il pagamento degli interessi da 167 miliardi di dollari a 343 miliardi di dollari. Gli stati debitori hanno già rimborsato più volte l'ammontare delle somme prese in prestito. E gli stati non esportatori di petrolio subiscono in pieno le conseguenze del rallentamento della crescita americana.
Negli Stati uniti l'industria comincia a conoscere la sovrapproduzione.
I titoli tecnologici, prediletti da Wall Street e che rappresentavano il 60% dei titoli quotati in borsa, si sono deprezzati. Il Nasdaq Composite Index, uno dei barometri chiave della cosiddetta «new economy», ha perso più del 50% dal 10 marzo 2000. Benché il 2000 sia stato, e di molto, il peggior anno della sua storia, il Nasdaq non ha ancora toccato il fondo. Il suo equivalente britannico, il Techmark 100, da parte sua, è crollato del
57%, il Nemax tedesco del 67%. Questi crolli a cascata rispecchiano il rallentamento della crescita e il pessimismo dei grandi investitori.
Tutti gli indicatori dell'economia americana, a eccezione dell'eccedenza di bilancio, sono in rosso: i mercati azionari cedono, le importazioni diminuiscono, la fiducia dei consumatori è in calo, come peraltro i consumi
stessi. L'edilizia è caduta al livello più basso da cinque anni. Anche il credito, che aveva attraversato un formidabile boom, tende a calare.
Infatti, gli investitori esitano a comprare valori industriali ad alto
rischio, il mercato delle azioni ordinarie si sta sgretolando e il bilancio delle banche commerciali peggiora rapidamente, come pure la qualità dei loro attivi finanziari.
Di fatto, il boom americano e la potenza del dollaro si sono fondati
sull'indebitamento, precario per definizione. Un giorno bisognerà pur rimborsare il debito, con interessi compositi. A meno che non lo si voglia rinnegare... E, in effetti, l'aumento dei crediti non rimborsati dalla metà degli anni '60 offre un'immagine avvincente delle mutazioni del capitalismo finanziario. Secondo le cifre della Federal reserve (Fed), l'ammontare
totale di questi importi non pagati è passato da oltre 1.027 miliardi di dollari nel 1964 a 25.678 miliardi di dollari nel 1999. Ovvero un aumento medio del 9,6% all'anno, il che supera di molto la crescita del Pil. Con il rallentamento netto della crescita, questo divario è destinato ad aumentare
ulteriormente.
Per rimborsare questi arretrati ci vorrebbe una cifra pari a tre volte il Pil attuale.
Un capitalismo drogato La situazione finanziaria delle imprese non è certo più edificante.
Il loro indebitamento ha superato i 7.000 miliardi di dollari nel 1999. È prevalentemente servito a finanziare le concentrazioni a tutto spiano, in atto soprattutto nel settore bancario. Tra il 1980 e il 1998, questo
settore ha subito uno dei maggiori cambiamenti strutturali di tutta la storia economica degli Stati uniti: 8.000 fusioni ed acquisizioni, nel corso delle quali son passati di mano attivi per oltre 2.000 miliardi di dollari.
Anche il maggior indebitamento delle famiglie è un fattore di rallentamento.
I prestiti rappresentano ormai il 34% del reddito individuale. Di
conseguenza il tasso di risparmio (1), che era dell'8% nel 1990, è calato al -0,8% nel 1999. In altre parole, le famiglie prendono a prestito più di quanto risparmino. S'indebitano pesantemente, ipotecando la casa, nella maggior parte dei casi, per coprire le spese di consumo corrente che oggi
superano gli aumenti di reddito disponibile di circa 247 miliardi di dollari. Un altro elemento chiave è la crescita esponenziale del disavanzo dei conti
correnti. Si tratta della bilancia degli scambi commerciali di beni,
servizi e pagamenti correnti. Dal 1992 questo disavanzo è aumentato in modo spettacolare fino ad arrivare a 420 miliardi di dollari alla fine del 2000,
ovvero oltre il 4% del Pil. Le importazioni superano in volume le
esportazioni del 35%. E il fenomeno continua.
Va ricordato che fino al 1981 gli Stati uniti erano tutto sommato un paese creditore. Il boom di questi ultimi anni s'è invece fondato
sull'indebitamento, e alla spinta della domanda interna si è fatto fronte con un volume di importazioni sempre maggiore. In altri termini, stampando denaro gli Stati uniti pagano i loro acquisti con riconoscimenti di debito,
privilegio imperiale di cui non gode nessun'altra nazione.
Ci sono poche speranze di ridurre il disavanzo commerciale in pochi mesi: la crescita è in calo, l'industria mondiale funziona solo al 66% della propria capacità (il livello più basso degli ultimi dieci anni) e la sopravvalutazione del dollaro nuoce alla competitività americana. La siderurgia illustra bene tutte le tendenze. I produttori d'acciaio erano ancora in festa a metà decennio, poi la congiuntura è cambiata radicalmente: accumulazione degli stock invenduti, crollo delle entrate, caduta dei prezzi aggravata da una concorrenza spietata.
La siderurgia americana ha la produttività più bassa, tra gli undici
principali produttori mondiali d'acciaio.
Altra conseguenza della crisi: l'intensificarsi della guerra commerciale.
Le autorità americane proclamano, ancora una volta, che la loro siderurgia è vittima delle importazioni a prezzi di dumping, causa di chiusure di fabbriche e di licenziamenti. Ma l'Unione europea accusa gli Stati uniti, non senza ragione, di violare le regole del libero scambio con le restrizioni imposte a certe importazioni. La Corea del Sud ha presentato un
ricorso per lo stesso motivo presso l'Organizzazione mondiale del commercio (Omc). La siderurgia illustra perfettamente l'incapacità del capitalismo americano di affrontare la forza effettiva della concorrenza mondiale, malgrado gli enormi aiuti all'esportazione.
Tossico impenitente, il capitalismo americano è «drogato» d'indebitamento. Quest'economia ammalata di debiti ha bisogno di iniezioni stimate sui 400-500 miliardi di dollari all'anno per esser tenuta in vita.
Il Tesoro americano, sostenuto da tutta la casta politica, ha come dogma quello di perpetuare un «dollaro forte» con il fine di attirare capitali esteri, sempre più indispensabili. La Fed stessa ammette che la differenza dei tassi di rendimento tra mercati europei e americani è uno dei motori
principali dell'accumulazione negli Stati uniti, poiché spinge i
capitalisti stranieri ad aumentarvi i propri investimenti.
Da qui deriva l'immensa ondata di fusioni, acquisizioni, scalate.
Attualmente gli Stati uniti si accaparrano l'80% del risparmio mondiale.
Secondo il Dipartimento del Commercio il ritmo annuo d'investimenti esteri nel primo trimestre del 1999 era due volte e mezza quello raggiunto nel corso dello stesso periodo del 1995. Si potrebbe pensare che il tasso di cambio del biglietto verde non calerà finché i finanziatori esteri avranno
quantità crescenti di dollari. Lo sgretolamento sempre più rapido dei mercati borsistici rischia di smentire questa fragile ipotesi. È il boom finanziario che ha attirato questi fondi verso gli Stati uniti: una congiuntura sfavorevole li farà ripartire con un solo click del mouse.
L'economia americana ha raggiunto un punto limite nell'appropriazione del risparmio mondiale. Così l'espansione di questi ultimi nove anni rischia di andare in fumo. Le fluttuazioni della bilancia commerciale continueranno in
un prossimo futuro ad aggravare l'instabilità endemica del dollaro. I debiti giganteschi degli Stati uniti non smetteranno di aumentare, resistendo alle cure classiche della politica monetaria.
Questo fenomeno d'indebitamento massiccio non riguarda solo gli Stati uniti. Ma, con il 30% del Pil mondiale, la loro economia occupa una posizione strategica: detiene tutti i posti di comando nel movimento dei capitali, nei mercati finanziari, nel commercio mondiale. L'incombente crollo della borsa americana potrebbe dunque avere ripercussioni devastanti
sull'economia mondiale. Non si tratta di sapere se il debito americano verrà rimborsato o no e secondo quali modalità.
Contrariamente a quanto pensava Keynes all'indomani del Trattato di Versailles, rimborsare o meno un debito non dipende dalle capacità dei governanti.
Il governo e il grande capitale degli Stati uniti non hanno né la volontà né i mezzi per saldare il loro debito. Lo stesso ragionamento vale per i paesi del terzo mondo. È senz'altro possibile che parti importanti di tale debito, tanto quello degli americani che di altri, rimangano in futuro
inesigibili. E non s'intravvede nessun fattore suscettibile di dar luogo a una ripresa durevole. Un boom delle spese nel campo degli armamenti non basterebbe. Gli Stati uniti stanziano per questo già oltre 300 miliardi di dollari all'anno e anche se il presidente George W. Bush aumenterà la posta
in gioco col suo scudo antimissili, ciò non basterà a modificare i dati economici.
Ridurre i tassi d'interesse per aumentare la domanda è una soluzione di ripiego, ma non risolve il problema di fondo. Per i banchieri e i responsabili delle grandi aziende, l'uscita di sicurezza resta quella di continuare le transazioni illegali nei paradisi fiscali, la speculazione monetaria, il riciclaggio del denaro sporco e altri espedienti. Un anno e mezzo dopo lo sfacelo di Seattle, le istituzioni dominanti dell'economia globale - il Tesoro americano, la Banca mondiale, Il Fondo monetario
internazionale e l'Omc - appaiono screditate.
I consueti ritornelli del liberalismo - libero scambio, liberalizzazione, deregolamentazione - non esercitano più lo stesso fascino. Anzi, cosa ancor più importante : il loro potere e le loro banalità cominciano ad essere profondamente contestati, come abbiamo visto al Forum sociale mondiale di
Porto Alegre nel gennaio scorso. Se, secondo i criteri di Wall Street, il boom è stato spettacolare, la manna non è certo caduta sulla maggior parte degli americani. Il divario tra i super ricchi e tutti gli altri si fa più profondo. Nel 1998 il 10% degli americani più opulenti accaparrava il 76% delle ricchezze nette della nazione. E oltre la metà di queste sono tra le mani dell'1% dei super ricchi.
Quanto poi al cosiddetto «pieno impiego» americano (mito anch'esso in crisi negli ultimi tempi), non tiene conto di una popolazione carceraria di 2,3
milioni di persone. Se si considerasse questa cifra nei calcoli, il tasso di disoccupazione del paese sarebbe paragonabile a quello degli altri stati membri dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Non vediamo come un presidente senza qualità, le cui capacità intellettuali suscitano più di una perplessità, possa frenare la spirale di una crisi che fa dire alla Conferenza delle nazioni unite per il commercio e lo sviluppo (Unctad) che «l'economia mondiale è sull'orlo del baratro» (2).
 
Usa: Greenspan, livello debito insostenibile nel 2010

Il livello del debito rispetto al Pil potrebbe essere "insostenibile" nel 2010, quando la generazione del baby boom inziera' ad andare in pensione. Lo ha detto il Presidente della Fed, Alan Greenpan, invitando il Congresso ad agire per frenare la spesa. Radiocor Washington, 12 feb -
 
Greenspan: rialzi petrolio e oro legati a rischio guerra

I recenti rialzi dei prezzi del petrolio e dell'euro "sono chiaramente legati alla possibilita' di una guerra contro l'Iraq e non ai fondamentali". Lo ha detto il Presidente della Fed, Alan Greenspan, spiegando che la Federal Reserve continua a monitorare da vicino gli sviluppi dell'inflazione che "e' molto bassa", ma ha negato il rischio di una deflazione come e' avvenuto negli anni '70. Radiocor Washington, 12 feb -

Ci credete? :D
 
Il SuperIndice USA vira in positivo


A cura di Andrea Baga il Monday, 25 February @ 19:02:03 CET
Da una parte il ”bad accounting”, dall’altra il “credit
crunch”: il mercato mostra di non gradire. Ma a ben guardare il SuperIndice va benino, e il ritracciamento in atto ha sorpreso forse solo alcuni guru,"ciclici", rialzisti ad oltranza fino a Marzo.

L’epidemia di Enronite che si sta diffondendo, fa passare in secondo piano sia la mucca pazza che le pustole apparse in questi giorni su volti glabri degli studenti di high-school americani. Il problema del "bad accounting", dello scorretto utilizzo delle regole contabili, è dunque serio.

Secondo alcuni dati, l’uso del ‘proforma accounting’, anziché del più conservativo GAAP, può aver portato a sovrastimare i profitti al Nasdaq di 100 miliardi di dollari, in aziende come Microsoft, Intel, Cisco.

L’altro aspetto importante è il "credit crunch": aziende troppo indebitate, banche troppe piene di sofferenze e il problema per molte aziende di accedere ancora al credito bancario, considerando che il mercato dei capitali è abbastanza provato dagli eventi degli ultimi mesi. Tutto questo ha effetti collaterali anche sulla politica monetaria della FED: secondo alcuni osservatori infatti la Fed non alzerà i tassi finche' il mercato dei titoli di credito non raggiungerà il fondo.

Mentre i mercati finanziari si sono concentrati sui tempi e le modalità con cui la Fed potrebbe rialzare i tassi d’interesse, la turbolenza nei mercati di titoli di credito potrebbe ritardare gli aumenti dei tassi. Valutazioni negative sul debito hanno obbligato le aziende a diminuire drasticamente la loro dipendenza dai crediti commerciali. L’assenza per ora di pressioni inflative nel sistema consente poi di mantenere i livelli attuali dei tassi abbastanza serenamente.

Nonostante un outlook macro più favorevole, lo spread sui T-bonds è ritornato ai livelli post 11 Settembre e si sta muovendo verso il picco decennale visto all’avvio dell’attuale fase recessiva.

Mentre i tassi di interesse USA rimangono storicamente bassi, l’elevato premio al rischio dei corporate bonds anche di compagnie con rating elevato, potrebbe ostacolare la ricerca di capitali e peggiorare le condizioni in generale del credito per gli investimenti futuri delle aziende, investimenti di cui l’economia a disperatamente bisogno.

Un binomio, quello tra "bad accounting e credit crunch", piuttosto pericoloso e che permette all'orso di graffiare con grande vigore. Dietro a questo anche l’ombra del Giappone, l’ Economist titolava “The sadness of Japan”, con un sistema bancario agonizzante: teniamo conto che le più grandi industrie a stelle e strisce sono finanziate da banche giapponesi, e che il Giappone detiene una buona fetta del debito pubblico USA.

Nonostante la recessione, nel 2001 molte aziende hanno richiesto prestiti a tassi elevati, vendendo più di 700$ bilioni in debito sul mercato USA. Secondo O'Sullivan di UBS Warburg “..probabilmente il livello di indebitamento pone serie restrizioni al recupero, ma non potrà impedirlo.” E il livello di indebitamento difficilmente migliorerà presto, a dispetto di un anno record per le bancarotte e di defaults di bonds per le aziende nel 2001.

Nell’articolo Il rally è sostenibile ? ..questo è il problema! , basta leggere il primo capoverso, non voglio annoiare nessuno, riflettevo sul fatto che il rally partito a settembre avesse prodotto degli eccessi, e questo lo scrissi a metà Gennaio, soprattutto per i titoli tecnologici, che avevano veramente corso molto. Avevo detto, questa era la mia ipotesi, che si era probabilmente sovrastimata la forza della crescita e il “momentum” degli earnings, incorporato nei multipli. Il P/E medio dello S&P500 era salito bruscamente a 32,5, da circa 24 di Settembre, e in ogni modo dopo tanto salire insomma bisognava anche tirare il fiato, non sussistevano certo le condizioni macro per un rally di lunga portata, inoltre c’erano anche ragioni intermarket legate ai rendimenti relativi di azioni e bonds e quindi ai flussi di liquidità tra strumenti finanziari in competizione.

Da un punto di vista macro, il Conference Board ha sottolineato come il suo Leading Economic Indicator sia cresciuto dello 0.6 % in Gennaio, battendo le attese degli analisti, dopo un + 1.3% in Dicembre, uno dei dati migliori in quasi sei anni.

“Potremmo essere già fuori dalla recessione” ha detto Ken Goldstein, il capo economista del CB,” e il recupero potrebbe essere più vigoroso di quanto precedentemente anticipato”. Sembra che la crescita USA dell’ultimo trimestre 2001, inizialmente stimata negativa, sia invece vicina all’1 %. In Germania la Bundesbank e’ moderatamente ottimista sulla ripresa: vedremo.

Il consumatore, soprattutto negli USA, continua a fare la sua parte. Ma sul timing, l’entità e la durata della ripresa non vi e’ convergenza di punti di vista e mi preoccuperei del contrario. Il rovescio della medaglia infatti sono i dati aziendali, soprattutto nei settori tecnologici, ancora negativi o deludenti rispetto alle attese (ma ogni tanto non saranno le stime stesse ad essere deludenti ?)

Diversi economisti interpellati in questi giorni sono più cauti, propendendo per un recupero più graduale. Anthony Chan, capo economista di Banc One Investment Advisers, dice: “ Penso che il primo quarto può sorprenderci in positivo per effetto delle scorte, ma è possibile un peggioramento già dal secondo quarto.”

Il problema e’ che, pian piano, le acquisizioni sovrapagate e gli investimenti sbagliati degli scorsi anni vengono al pettine e fanno vacillare i pilastri della crescita degli anni passati. Questa situazione sembra destinata a durare ancora qualche tempo e i titoli del settore tlc ne sono un esempio: secondo fonti di stampa vi sarebbero oltre 60 miliardi di dollari di potenziali svalutazioni da apportare in bilancio
 
AMERICA, L'ECONOMIA STENTA ANCHE DOPO LA VITTORIA

di Il Riformista per WSI


23 Aprile 2003 13:55 NEW YORK

George W. Bush non chiuderà i problemi interni con la stessa facilità con cui si è sbarazzato di Saddam. Le cose negli States sono decisamente più complicate. La guerra è vinta ma le difficoltà economiche restano. E la ripresa ancora lontana.

L'euro, ieri, è tornato a toccare la soglia di 1,10 dollari, il livello più alto da cinque settimane. E la rincorsa pare destinata a continuare perché il dollaro - ora investimento a rischio - sarà una delle vittime della fine del conflitto, anche a causa dell'enorme deficit (oltre 40 miliardi di dollari) da finanziare.

La moneta è lo specchio dello stato di salute di un'economia. Gli ultimi dati congiunturali (produzione industriale in calo dello 0,5%, sussidi di disoccupazione in crescita di 31 mila unità rispetto alle stime, superindice economico in discesa dello 0,2%) sono tutti negativi e in settimana arriveranno nuovi indicatori, previsti in chiaroscuro: domani sarà la volta degli ordini di beni durevoli di marzo, previsti in calo dello 0,8% dopo il meno 1,6% di febbraio; venerdì ci sarà la prima stima sulla dinamica del pil relativa al primo trimestre dell'anno, che dovrebbe segnare una crescita del 3% contro l'1,4% del trimestre precedente; sempre venerdì è atteso l'indice di fiducia del Michigan.

Oggi sarà pubblicato il Beige Book, il periodico rapporto della Federal Reserve sullo stato di salute dell'economia. Sarà il primo del dopoguerra e per questo di particolare rilievo per capire se Alan Greenspan, vorrà dare un ulteriore spinta all'economia ritoccando i tassi (già ai minimi da oltre 40 anni) nelle prossime riunioni del board previste per il 6 maggio e il 25 giugno. Lo stesso Greenspan (77 anni) è stato operato ieri per un tumore benigno alla prostata.

Hanno ripreso fiato, così, i rumours sulla sua successione, dopo 17 anni al timone della Fed. Il suo mandato scadrà a giugno del 2004 e per il dopo sono in lizza il sottosegretario al Tesoro John Taylor, il consigliere e professore ad Harvard Martin Feldstein, e l'attuale vicepresidente della Fed Roger Ferguson. Ma Bush ha gelato tutti: «Greenspan - ha detto - deve essere riconfermato». Facendo, tuttavia, aggiungere al suo portavoce di non conoscere la disponibilità dell'anziano presidente a un nuovo mandato.

Bush punta sul suo piano di tagli fiscali per rilanciare consumi, investimenti e occupazione. Piano contestato, a febbraio, dallo stesso Greenspan, che aveva invocato un maggiore rigore sul controllo del disavanzo; dai democratici che lo considerano a esclusivo vantaggio dei più ricchi; ma anche da un'agguerrita minoranza di repubblicani preoccupati anch'essi dal rischio di voragine nei conti pubblici.

Da qui l'ipotesi di una disponibilità del Tesoro di accettare un compromesso con il Congresso: riduzione da 726 miliardi di dollari a 550 miliardi, sempre in 10 anni, dei tagli che prevedono, tra l'altro, il superamento della doppia tassazione dei dividendi. Ma la determinazione con cui Bush ha difeso ieri il progetto di detassazione è stata letta come una presa di distanza dall'ipotesi di compromesso.

Sullo sfondo resta Greenspan: la Fed sta anche studiano un piano di emergenza che prevederebbe la compravendita di titoli di stato per immettere liquidità nel sistema bancario e abbassare i tassi a lungo termine. Bush dipende da Greenspan e Greenspan - il "Maestro" nominato da Reagan - ha fatto il successo di Clinton con otto anni ininterrotti di crescita. Bush lo sa, e alle elezioni manca solo un anno.

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Tra poco...solo un rimedio.....

.....BTP in dollari!!!!!!!!!!!!
 
bè non è che a 1,20 manchi molto
per il barile mi sembra più dura
 
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