Vladimir Milov, consigliere di Navalny: "Le sanzioni contro Mosca funzionano" - HuffPost Italia
Secondo il braccio destro di Navalny, le sanzioni contro la Russia stanno funzionando - Linkiesta.it
Secondo il braccio destro del principale oppositore di Putin, una rivolta contro il regime è "inevitabile", anche se "non sarà una transizione lineare e immediata". L'intervista al Corriere
07 Giugno 2022
Le sanzioni contro la Russia funzionano "più di quanto sembri. Stanno degradando il tenore di vita e il futuro dell'industria in Russia. Basta vedere sui motori di ricerca russi le ricerche su voci come 'parti di ricambio'. Manca capacità di server per le infrastrutture digitali, mancano sementi. Le sanzioni stanno fondamentalmente trasformando l'economia russa". Così Vladimir Milov, ex viceministro russo dell'Energia nel 2002 e consigliere economico di Aleksej Navalny in un'intervista al Corriere della Sera.
"L'industria russa dei beni di consumo, anche alimentari, ha una dipendenza di fondo dai beni importati", afferma Milov. "E suoi chip ce l'ha da Taiwan, che ha bloccato le vendite. Siamo tra Scilla e Cariddi: da una parte le sanzioni, dall'altra le aziende estere che disdicono contratti nelle tencologie, nelle assicurazioni, nella logistica". Gli effetti di questo isolamento - aggiunge - "sono difficili da misurare. Ma di fatto la Russia non ha più un'industria dell'auto e la gente nota il degrado della qualità del cibo, per esempio. Il tenore di vita sta andando giù, alla lunga gli effetti si sentono".
Secondo il consigliere di Navalny, è "inevitabile" che prima o poi le persone si rivolteranno contro il regime, "ma non sarà una transizione lineare e immediata".
Intanto però il rublo si è rivalutato. «Anche perché», spiega, «c’è un incredibile restringersi delle importazioni, più che dimezzate da Italia e Germania. L’industria russa dei beni di consumo, anche alimentari, ha una dipendenza di fondo dai beni importati. E sui chip ce l’ha da Taiwan, che ha bloccato le vendite. Siamo fra Scilla e Cariddi: da una parte le sanzioni, dall’altra le aziende estere che disdettano contratti nelle tecnologie, nelle assicurazioni, nella logistica».
Certo, «gli effetti di questo isolamento sono difficili da misurare. Ma di fatto la Russia non ha più un’industria dell’auto e la gente nota il degrado della qualità del cibo, per esempio. Il tenore di vita sta andando giù, alla lunga gli effetti si sentono».
«Inevitabilmente», secondo Milov, la gente si rivolterà contro il regime. «Ma non sarà una transizione lineare e immediata. Il degrado dell’economia proseguirà, anche per la perdita di accesso delle imprese e delle banche al mercato dei capitali occidentali. Siamo tagliati fuori da questa fondamentale fonte di sviluppo e in fondo proprio la crescita dei primi anni Duemila era un pilastro della popolarità di Putin. Lui in qualche modo deve tenere conto dell’opinione pubblica, non può riportare il Paese al totalitarismo. Per esempio, non ha osato dichiarare la mobilitazione generale: aveva paura delle reazione della gente».
E di certo le potenze asiatiche non possono rappresentare l’ancora di salvezza. Perché, dice Milov, «il mercato dei capitali cinese è tre volte più piccolo di quello europeo, quattro volte più piccolo di quello americano. E non è fatto per finanziare imprese all’estero. Non voglio offendere nessuno, ma i Paesi asiatici producono beni da vendere in Occidente. Più di metà del prodotto lordo del mondo è nel mondo libero, lì è l’innovazione».
In più la cooperazione tra Cina e Russia «non sta funzionando. Già dopo la guerra del 2014 furono annunciati piani comuni su energia o infrastrutture, ma è partito appena il 20% dei progetti e sono tutti abbastanza primitivi». Intanto Pechino compra petrolio e gas russi. «I cinesi sono pragmatici. Vedono che siamo nei guai e stanno comprando petrolio russo imponendo sconti persino superiori a quelli a cui si vende in Europa», conclude Milov. «Comprano il gas russo a prezzi del 30% inferiori a quelli che riconoscono al Turkmenistan. Dettano le condizioni». Ma «per ridirigere davvero l’export di idrocarburi a Oriente servirebbero investimenti per centinaia di miliardi».