Ormai ci siamo. Domani sarà il giorno della verità per le sorti del prezzo del petrolio. E potremo capire anche se esiste ancora oppure no quell'organizzazione chiamata OPEC. Siamo a quasi due anni esatti da quel 27 novembre 2014, data nella quale l'OPEC (o meglio l'Arabia Saudita) prese la decisione di non tagliare la propria produzione e quindi non intervenire a sostegno dei prezzi. Quel che è accaduto dopo è storia nota: la guerra dei prezzi bassi scatenata dai sauditi nei confronti dei produttori non OPEC, all'inizio apparentemente efficace, ha condotto infine a una vittoria di Pirro. I produttori americani, in un primo tempo in difficoltà, hanno poi saputo adattarsi alle nuove condizioni di mercato facendo enormi passi avanti sul piano dell'efficienza e, in alcune zone del paese, sono oggi in grado di operare in modo profittevole anche con prezzi sotto i $50. Ne è prova il computo dei rig attivi (le grandi torri di trivellazione utilizzate per perforare il terreno e raggiungere i giacimenti) che da diversi mesi, dopo aver toccato il minimo a 316, sta facendo registrare una ripresa delle attività, con l'ultimo report settimanale che è arrivato a contare 474 rig in attività negli USA. Questo dimostra che la guerra dei sauditi, che ha comportato e continua a comportare uno sforzo economico insostenibile per loro e per tutti i membri OPEC (e non solo), è stata sostanzialmente fallimentare. Se per salvaguardare quote di mercato si devono bruciare le riserve in valuta estera accumulate nei decenni passati allora il gioco non vale la candela. Molto meglio tagliare la produzione del 5% e determinare un'aumento dei prezzi del 20%. Dopo due anni i sauditi l'anno capito. Con la politica del tener duro e con il prezzo del petrolio sotto i $50 hanno già perso oltre $200 miliardi, circa un terzo delle loro riserve, e ormai si sono resi conto che così non possono andare avanti ancora per molto. La battaglia con i produttori americani non può essere vinta, era persa in partenza, come già detto in altre occasioni, e ora si è visto che, nonostante i prezzi bassi, hanno trovato il modo di restare a galla. Gli arabi hanno dunque due scelte davanti: lasciare tutto come sta nella speranza che il mercato vada verso un naturale (ma lento) riequilibrio tra domanda e offerta oppure tagliare la produzione per spingere in alto i prezzi e rassegnarsi a dividere la torta con altri produttori. Scegliere la prima soluzione risulterebbe per loro molto doloroso, perchè significherebbe dover perdere un sacco di soldi ancora per parecchi mesi a venire. A questo bisogna poi aggiungere la questione dell'IPO di un quota di Saudi Aramco, prevista per il prossimo anno e che, se effettuata con il petrolio a questi prezzi, comporterebbe la svendita di un asset di vitale importanza per il paese (o meglio, per i Saʿūd) a cifre molto inferiori rispetto a quelle che si vorrebbero e si potrebbero ottenere. E' chiaro quindi come oggi i Sauditi, al contrario di quanto accaduto inpassato, vogliano disperatamente che si arrivi ad un accordo in sede OPEC per abbassare il tetto produttivo complessivo a 32,5 milioni BOPD, oltre 1 milione BOPD in meno rispetto alla produzione fatta registrare ad ottobre. Un taglio del genere genererebbe immediatamente un deficit produttivo su base globale, dando il via a una rapida diminuzione delle scorte accumulate negli ultimi anni e conseguente forte risalita del prezzo del petrolio. Resta solo da stabilire come andranno ripartiti i tagli tra i vari membri dell'organizzazione, e qui ci sono resistenze da parte di alcuni paesi che non sarà per niente facile superare. Io però sono ottimista perchè l'alternativa al raggiungimento di un accordo in tal senso (e questo lo sanno anche loro) è rappresentata da uno scenario in cui tutti perdono e nessuno vince.