Piazza Affari, i cinque anni che sconvolsero il listino

FaGal

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Piazza Affari, i cinque anni che sconvolsero il listino


VITTORIA PULEDDA

A guardare il listino, il pezzo di listino più importante di Piazza Affari, sembra passato un secolo. Invece, sono trascorsi solo cinque anni dal picco delle quotazioni, nel marzo 2000, ai nostri giorni. Da allora, molte società tra le superbig sono scomparse dall’indice, perché si sono aggregate tra di loro; altre hanno duramente pagato la sbornia della bolla Internet (anche se non erano solo o principalmente tecnologiche) altre ancora sono tornate alla ribalta, crescendo davvero per via organica, come Autostrade (vedi altro pezzo in pagina) e non solo.
L’equivoco di Internet. Erano anni in cui parlare di capannoni, fabbriche e vecchie industrie non andava di moda; anni in cui Bipop valeva una volta e mezza la Fiat e poco meno di Banca Intesa. Oggi, Bipop ribattezzata Fineco, vale due miliardi di euro contro i 16 di allora mentre Fiat, negli stessi anni, ha "solo" dimezzato la sua capitalizzazione. La parte Internet, estesa al risparmio gestito, ha fatto a sua volta danni cui non si è ancora nemmeno lontanamente rimediato; per esempio, basti pensare a Mediolanum, che è passata dai valori stellari di 13,4 fin giù a 3,6 miliardi di euro di capitalizzazione, o alla stessa Fideuram, il cui prezzo per azione è un terzo rispetto a quello di quattro anni fa.
Il processo di fusione. Ma una parte di società, una parte significativa, non esiste più perché si è fusa, in un processo di semplificazione e di rafforzamento della catena (societaria, ma anche industriale) che si è dimostrato quasi sempre positivo. Basti pensare al mondo EdisonMontedisonCompart. E’ difficile raffrontare questo gruppo di società con quella che è oggi al listino: il nome, Edison, trae in inganno, perché la vecchia holding Compart, non esiste più, la chimica della Montedison è stata venduta (insieme ad altri asset, sempre del celebre marchio di Foro Bonaparte) mentre la Edison attuale è una società elettrica nemmeno lontanamente paragonabile a quella precedente, e non solo come proprietà azionaria.
Stesso discorso, di riorganizzazione industriale e di accorciamento della catena, vale per Pirellina e Pirellona, prima ancora per Olivetti e Tecnost e, in tempi invece molto più recenti, Tim e Telecom (quest’ultima, non ancora avvenuta ma già decisa). Una nuova struttura azionaria e operativa molto più agile, che ha interessato quasi un terzo del listino del 2000, in termini di capitalizzazione. Di sicuro, oggi c’è una riorganizzazione del mondo delle tlc molto più ragionevole rispetto al passato.
Il mondo finanziario. Infine, il settore della finanza. In questo comparto, rispetto al 2000, ci sono state un paio di grandi operazioni esogene, di offerte pubbliche che hanno profondamente ristrutturato il listino (quasi in contemporanea): l’Opa Generali sull’Ina, che ha portato peraltro ai cascami su Bnl che tuttora tengono banco (la quota di competenza del Leone di Trieste è un’eredità della compagnia di assicurazioni romana che ha acquisito all’epoca) e nello stesso periodo l’offerta pubblica di scambio (e successivamente la fusione) di IntesaComit. Allora, nel marzo di cinque anni fa, non era ancora stata varata la fusione, ma il controllo era già intorno al 70 per cento. E il prezzo rettificato dice che il megagruppo Piazza della Scala, più Ca’ de Sass e il Nuovo Ambrosiano vale tanto quanto valevano all’epoca, quando erano ancora parzialmente separate.
Un risultato deludente? Fino ad un certo punto: basti pensare che nello stesso arco di tempo il Sanpaolo che pure è cresciuto con acquisizioni importanti anche se non quotate in Borsa ha ancora il passo del gambero e la capitalizzazione è scesa da 20 a 17 miliardi di euro.
Tutta in famiglia, invece, la semplificazione della catena societaria di Unicredit. La banca guidata da Alessandro Profumo e da Carlo Salvatori, ha proceduto in tempi recenti alla fusione tra il Rolo e Unicredit. E unendo le forze, il nuovo gruppo vale oggi in Borsa 28 miliardi di euro, grosso modo la somma di 21 miliardi più 7, quanto valevano i due istituti di credito messi insieme. Non a caso, il prezzo rettificato di Unicredit è solo marginalmente in rialzo rispetto ad allora (4,23 euro contro i 4,42 di oggi).
Chi cresce davvero. Sono poche, in realtà, le società che crescono davvero, in termini reali. Tra queste, c’è sicuramente l’Eni. Con una capitalizzazione di 78 miliardi di euro rispetto ai 42 di cinque anni fa, il cane a sei zampe ha dimostrato che la forza di persuasione dei risultati, alla fine, è più forte di tutto. Non basta nemmeno il prezzo del petrolio in forte rialzo a spiegare tutto questo: l’unica conclusione possibile, anzi doverosa, è che l’Eni è stata ben gestita da Vittorio Mincato.
Così come, e i prezzi in Borsa stanno lì a dimostrarlo, è stata ben gestita in questi anni la Ras, che è passata da otto a più di sedici euro per azione.


http://www.repubblica.it/supplementi/af/2005/05/16/finanza/036plasaffer.html
 
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