Meditate gente , meditate!
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ll linguaggio “da scaricatore di porto”: segno evidente del degrado in cui viviamo –
di Carla D’Agostino Ungaretti
In una società caratterizzata da un grande pluralismo di sistemi valoriali come l’attuale, i valori della buona educazione, del rispetto reciproco e della proprietà del linguaggio non sono più facilmente percepibili, se non è più percepibile neppure quello (molto più importante a livello esistenziale) dell’unica Verità della fede
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Nel libro, bello ma poco noto, “La carrozza di tutti” pubblicato nel 1899, Edmondo De Amicis descrisse la commedia umana che si svolgeva ogni giorno davanti ai suoi occhi sui tram a cavalli che trasportavano lavoratori e varia umanità attraverso la Torino dell’epoca, che stava diventando la prima città industriale d’Italia. Avrebbe mai immaginato il buon De Amicis – lui, cantore entusiasta dell’Italia unita scaturita dal Risorgimento – che, più di cento anni dopo, due episodi verificatisi su pubblici mezzi di trasporto avrebbero pienamente rispecchiato il basso livello di civiltà ed educazione in cui sarebbero caduti tanti suoi connazionali? Lui, che in “Cuore” aveva tanto esaltato il valore dell’educazione dei giovani, dei sani principi da instillare nelle giovani menti in formazione, avrebbe mai immaginato che nei travagliati tempi che sarebbero sopravvenuti, l’argomento “educazione” si sarebbe trasformato, come è stato detto, nell’ “allarme educazione“?
Recentemente ho sperimentato di persona in due occasioni la fondatezza di quell’“allarme” e, per non dilungarmi troppo, oggi parlerò della prima, rimandando la seconda ad altra occasione. Qualche tempo fa ero appena salita su un autobus, quando ho sentito alle mie spalle due giovani voci femminili discutere di esami universitari, sostenuti e da sostenere, della loro difficoltà e della severità dei relativi professori. Ebbene: nei dieci minuti all’incirca in cui è durata quella conversazione prima che le due ragazze arrivassero a destinazione, esse hanno pronunciato almeno una decina di volgarissime parolacce, soprattutto all’indirizzo dei “crudeli” docenti (tacciati di epiteti degni della romana Cloaca Massima che non potrei mai ripetere) tanto che, incuriosita, non ho potuto fare a meno, io cattolica “bambina e parruccona” (mai definizione mi è sembrata più adatta a me, che nel caso specifico) di voltarmi con aria indifferente per capire che tipi fossero quelle due “campionesse” di signorilità e di grazia femminile. Mi ha stupito constatare che erano due belle ragazze, vestite con una certa eleganza e sicure di sé, il cui aspetto accurato e certamente non volgare contrastava inesplicabilmente con il linguaggio scurrile adoperato senza alcun riguardo per le altre persone che, viaggiando accanto a loro sullo stesso autobus, non potevano fare a meno di sentire. “Se due ragazze come queste parlano in questo modo” ho pensato “è evidente che ormai il linguaggio scurrile è entrato a far parte a pieno titolo della comunicazione interpersonale senza alcuna differenza tra persone colte e ignoranti, tra uomini e donne”.
Questo episodio mi ha dato molto da pensare perché mi è sembrato emblematico del clima culturale, umano e sociale che stiamo vivendo, senza tuttavia voler fare di ogni erba un fascio né, tanto meno, generalizzare. Non sono nonna, ma quelle due ragazze avrebbero potuto, per età, essere mie nipoti e allora mi sono domandata: come è possibile che si sia verificato un gap culturale, antropologico e sociale di simile portata tra la mia generazione e la loro? Un linguaggio simile in pubblico appena 40 anni fa sarebbe stato inconcepibile e difficilmente sarebbe stato accettato anche in privato.. Nonostante che le persone prepotenti e maleducate siano sempre esistite, come sono sempre esistite le parole volgari (basti pensare ai sonetti romaneschi di Giuseppe Gioacchino Belli, considerato il “cantore” della plebe romana del XIX secolo) fino a pochi decenni fa certe manifestazioni deteriori venivano risparmiate al prossimo da quel sensus di pudore e di buona creanza che successivamente è crollato. Allora chi o che cosa lo ha fatto crollare?
Sul CORRIERE DELLA SERA Riccardo Puglisi[1] ha parlato di “gerontocrazia sessantottina” per designare quella notevole parte dell’attuale classe dirigente politica e mediatica che, cresciuta nel clima sessantottino, è riuscita 30 anni dopo ad andare al potere uccidendo freudianamente il “padre”, ossia il principio di autorità precedentemente riconosciuto e accettato, comprendente il bagaglio educativo che quell’autorità era riuscita a trasmettere a chi era venuto dopo. Ma quell’autorità è stata sostituita con una diversa autorità, stavolta inneggiante alla “fantasia al potere“. Questa classe politica, ora anch’essa invecchiata come è legge di natura, ha però ottenuto diritti e tutele che in realtà oggi sono negati ai più giovani – come vediamo, per esempio, dalla disoccupazione che affligge l’Italia di questi anni – ma non può più invitare i giovani a ribellarsi al “padre” commettendo un “sano parricidio“, come a suo tempo fecero loro, perché farlo significherebbe obbedire a un ordine del “padre”, ripristinando il tanto esecrato principio di autorità.
Il risultato di questa nefasta contraddizione l’abbiamo sotto gli occhi ogni giorno ed io stessa ci sono incappata con l’episodio che ho riferito poc’anzi, sintomatico del clima che viviamo. I giovani da un lato, sono stati privati della speranza, quella terza, umanissima, virtù teologale che avrebbe permesso loro di guardare al futuro con fiducia e maggiore intraprendenza; dall’altro, hanno ricevuto dalla generazione che li ha preceduti esempi carenti quando non decisamente negativi. Chi ne ha fatto le spese è stato il principio educativo, perché la “fantasia al potere” ha fomentato in ogni ambito della vita l’egocentrismo, l’opportunismo, l’indifferenza per la sensibilità altrui, il perseguimento del proprio interesse qui e ora.
E come meravigliarcene se pensiamo che tutto ciò deriva esclusivamente da quella dittatura del relativismo, dilagata negli ultimi decenni del ‘900 e così puntualmente denunciata da Benedetto XVI quando molti di noi ancora non avevano ben chiaro in mente quello che stava succedendo? In una società caratterizzata da un grande pluralismo di sistemi valoriali come l’attuale, i valori della buona educazione, del rispetto reciproco e della proprietà del linguaggio non sono più facilmente percepibili, se non è più percepibile neppure quello (molto più importante a livello esistenziale) dell’unica Verità della fede. Va tutto male in questo nostro mondo? E allora sfoghiamo pure la nostra rabbia, la nostra scontentezza, la nostra delusione, tanto non esistono più principi assoluti e condivisi di buona creanza e di rispetto umano, a cominciare dai quotidiani rapporti interpersonali, cui uniformare ogni giorno il nostro comportamento. E allora chi ci impedisce di dare sfogo alle più segrete frustrazioni, amarezze, delusioni, di cui purtroppo è costellata la vita di tutti noi, nelle forme più immediate che spesso esorbitano dai loro argini e diventano violente e volgari?
Molti dicono che tutto questo è lecito, che esistono problemi più seri delle parolacce e che il contrario è ipocrisia. Ricordo che alcuni anni fa in TV Marco Pannella tenne una delle sue accese concioni radicali infarcendola di espressioni triviali. Accusato di usare davanti a milioni di telespettatori un linguaggio violento e volgare che poteva offendere l’uditorio, il buon Giacinto, detto Marco, reagì da par suo gridando con tribunizia veemenza: “L’unica violenza è la menzogna!” Non si può negare, in buona sostanza, che questo sia vero: la menzogna è la più subdola forma di violenza perché inganna il prossimo in buona fede, ma chi è sicuro delle proprie idee e vuole difenderle deve proprio servirsi del turpiloquio per convincere gli altri? Non è piuttosto segno di debolezza dei propri argomenti e delle proprie convinzioni voler ricorrere a quei meschini espedienti che hanno lo scopo di fare colpo sull’uditorio umiliando, per di più, la lingua italiana? Del resto l’uso del turpiloquio, così diffuso nel mondo giovanile, è un fenomeno inversamente proporzionale alla padronanza della buona lingua; è noto che anche nelle attuali scuole superiori si riscontra una povertà del lessico sconcertante, un abbandono della grammatica di base, della sintassi e persino molti test di ammissione a certe facoltà universitarie hanno rivelato, da parte degli studenti, l’incapacità di una corretta ortografia.
Quello che una volta era chiamato linguaggio da scaricatore di porto e si poteva spiegare con il basso livello di istruzione di quei poveri lavoratori costretti a una vita grama e faticosa, oggi è il disinvolto appannaggio di politici, professori, attori, giornalisti, divi TV. Basta pensare a Vittorio Sgarbi, intellettuale intelligente e spiritoso che però umilia le sue doti con espressioni indegne di lui; basta assistere ad alcuni dibattiti parlamentari tra forze politiche avversarie, o ad alcuni talk-show televisivi, nei quali i conduttori sembrano divertirsi un mondo nel tentativo di far cadere i freni inibitori nel linguaggio dei politici partecipanti, perché sanno che tutto ciò fa “audience“. Per non parlare di ciò che avviene in rete su Facebook. Negli spettacoli, poi, non si crede di riuscire a ottenere il progettato effetto comico se non si usano parolacce. I genitori non esitano a usare parolacce davanti ai loro figli, i quali le ripetono tranquillamente davanti a loro e davanti agli insegnanti, molti dei quali (ho sentito dire anche questo) ci passano sopra perché le ritengono espressione di fantasia immaginifica. L’esempio che viene elargito alle giovani generazioni è deleterio, come mi hanno dimostrato le due belle studentesse universitarie di cui parlavo, che hanno umiliato la loro grazia di “fanciulle in fiore” con un linguaggio che contraddiceva in pieno la loro bellezza e la loro eleganza. La volgarità del linguaggio è madre dell’ignoranza e la parolaccia è parente stretta della bestemmia e già ne abbiamo avuto la riprova in alcuni show televisivi nei quali si è arrivati anche a questo.
Si dice che l’obesità stia diventando in Italia una malattia sociale: gli italiani stanno diventando sempre più grassi con grave pericolo per la loro salute. Io aggiungerei anche che stanno diventando sempre più maleducati e violenti verbalmente con grave pericolo per i futuri rapporti interpersonali e anche per la democrazia. Ma non solo l’uso delle parole volgari è pericoloso: anche la violenza comportamentale di tanti giovani, il cosiddetto bullismo rappresentato dal secondo episodio cui ho accennato all’inizio deve preoccuparci. Ma di questo parlerò un’altra volta.