Storia

Agli appassionati o semplicemente a chi fosse interessato a qualche approfondimento, consiglio queste letture:
"Da Weimar a Hitler" libro del 1984 di Martin Broszat, storico tedesco deceduto nel 1989. In maniera lucida viene rappresentato il contesto socio, politico ed economico, che portò' il Nazismo a guadagnare quel forte appoggio di massa che culmino' con la "democratica" conquista del potere.
"La notte dei lunghi coltelli" libro di inizio anni 70 dello storico francese Max Gallo. Ricostruzione del "regolamento di conti" tra nazisti, che tra il 30 Giugno e i primi di Luglio del 1934 vide l'eliminazione fisica di numerosi gerarchi delle SA -potente milizia che aveva contribuito all'ascesa di Hitler ma i cui capi, Ernst Rhom in particolare, erano divenuti scomodi - da parte delle SS e su disposizioni dello stesso Hitler.
Il tono di Gallo non è' proprio quello dello storico rigoroso: avvince, a volte, ma a mio avviso talvolta indugia invece po' troppo nella ricerca del sensazionalismo. Ma il libro si legge d'un fiato.
 
Sempre in linea col periodo storico tra le due guerre mondiali e la seconda,
ho avuto modo di leggere "La notte" romanzo autobiografico di Elie Wiesel (scampato ad Auschwitz e Nobel 1986). E' Storia: terribile, ma purtroppo è Storia.
Cordialità e Felice nuovo anno a tutti
 
Ultima modifica:
Rimanendo nel periodo Seconda guerra
Ho avuto modo di leggere “Operazione Anthropoid” di Callum Mac Donald (ex insegnante inglese di storia moderna deceduto a fine anni 90). Il libro narra la preparazione e l’esecuzione dell’uccisione di Reinhard Heydrich, alto gerarca della Germania nazista diventato nel 41 Reichsprotektor di Boemia e Moravia. Recentemente hanno anche fatto un film sulla vicenda.
Ho scoperto alcune "particolarità" che non conoscevo e sulle quali non mi ero mai soffermato.

L’operazione “militare” venne compiuta nella primavera del 1942 da due paracadutisti cechi addestrati in Inghilterra ove erano esuli e aggregati a una sorta di governo in esilio. Particolarmente interessane è la ricostruzione delle implicazioni che ci furono prima e lungamente dopo l’attuazione dell’attentato. L’autore esplora i contesti e i “giochi” diplomatici di governi e “servizi” vari, dei sotterfugi e delle rivalità in ogni campo, delle difficoltà logistiche, dell’eroismo, della tenacia e del fanatismo di vari protagonisti, talvolta in una sorta di tutti contro tutti

Sintetiche premesse e quadro:
nel 1939 col patto di Monaco una parte della Cecoslovacchia (i Sudeti), venivano giuridicamente ceduti alla Germania; non pago Hitler impose un “protettorato” al governo ufficiale della restante Cecoslovacchia (giovane nazione costituitasi dopo la prima guerra). Alcuni cechi (tra i quali importanti politici fondatori della Patria), andarono quindi esuli in Inghilterra e allo scoppio delle ostilità costituirono una sorta di governo parallelo in esilio che sgomitava per farsi riconoscere.

Lo scoppio della guerra NON fece peraltro decadere i patti di Monaco e gli esuli cechi temeva che un’eventuale pace separata tra Inglesi e tedeschi, avrebbe lasciato il loro Paese in balia della Germania; necessitavano quindi di qualche colpo “eclatante” che accreditasse il loro governo/Paese al pari di quello Polacco o Francese, parimenti in esilio, ma maggiormente considerati.
La diplomazia si giocava su più fronti: i cechi a volte minacciando di favorire i rapporti coi russi, piuttosto che con gli inglesi.

Nel mentre nel “Protettorato” il governo ceco fantoccio era in balia dei tedeschi; questi erano a loro volta divisi da forti rivalità: tra i servizi dell’esercito e delle SS; tra il primo Reichsporotektor Neurath (ex diplomatico inizialmente nominato da Hitler per fornire una “faccia presentabile”) e le SS (Heydrich in testa con Himler suo superiore a spingere), che miravano a sostituirlo; e tra i vertici stessi delle SS, dove diversi nomi si contendevano la “corona” di Neurath.

In questo contesto, anche le azioni della resistenza ceca in patria (tra l’altro divisa tra quelli che facevano riferimento al governo in esilio in Inghilterra e quelli che facevano riferimento ad esuli in Unione Sovietica) venivano strumentalizzate.
Il risultato dei sabotaggi veniva ampliato dagli esuli in Inghilterra, per dire quanto era importante la resistenza ceca e dalle stesse SS per far cadere Neurath. Per contro erano minimizzati dall’esercito tedesco e da Neurath per dire che in Boemia/Moravia era tutto sotto controllo.

Anche dopo l’attentato, i “giochi” continuarono a lungo.
Più o meno tutti sapevano che era stato effettuato da paracadutisti addestrati in Inghilterra… ma nessuno lo ammise mai apertamente anche decenni dopo la fine della guerra.
Doveva apparire un’azione “ceca organizzata all’interno”
, sempre per magnificare l’impegno della resistenza ceca; lo stesso Foreign Office ne prese in qualche modo le distanze (il governo di S.M. non poteva approvare un omicidio politico); inoltre dopo le immediate rappresaglie tedesche, gli stessi dominus del governo ceco in esilio (che dopo la guerra avrebbero sostituito quello fantoccio), non voleva assumersi l’onere di ammettere la paternità e le conseguenze. Senza contare, infine, che dopo la guerra essendo la Cecoslovacchia finita in orbita sovietica, anche i Russi non volevano accreditare all’Inghilterra l’onore di aver addestrato paracadutisti per quella missione.

Insomma, dietro una vicenda bellica apparentemente “banale” (se commisurata all’insieme degli eventi), vi sono implicazioni di ben altra portata
Cordialità a tutti
 
In una bancarella dell'usato o preso alcuni libri storici; tra questi “Montecassino” di David Hapgood-David Richardson. Libro del 1985 (collana storica Rizzoli).

Il testo ripercorre le vicende che ruotarono intorno alla citata abazia nella prima metà del 1944, quanto la V armata di Clark cercava di perforare la linea difensiva tedesca “Gustav”.
Dopo gli sbarchi in Sicilia e a Salerno
(dove gli alleati avevano corso il rischio di essere ributtati a mare), la risalita dell’Italia da parte della V armata andava molto a rilento; in sostanza l’avanzata dell’eterogenea armata alleata sembrava più dipendere dalle scelte di ripiegamento tedesche che dall’effettiva capacità di penetrare le loro difese.
Nell’inverno 44 gli alleati arrivano in prossimità della valle del Liri, sbocco obbligatorio per la direzione Roma. Su un rilievo della valle svettava la famosa abazia. I tentativi di scardinare la Gustav in quelle zone furono rovinosi per la Quinta. Poco effetto fece lo sbarco di Anzio del 22 gennaio 44 (anche qui gli alleati rimasero impantanati), che intendeva distogliere l’attenzione tedesca dalla difesa della valle.
In tale contesto montò quindi un certo scoramento negli alti comandi alleati, che subivano le pressioni dei rispettivi governi per i costi in termini di uomini e mezzi.
Il libro, più che le vicende belliche, tratta in particolare i passi diplomatici e non che le varie parti in causa batterono – nelle mura vaticane, nelle ambasciate dei Paesi neutrali, nella politica dei rispettivi Paesi in guerra, nella propaganda, negli articoli e nei vari reportage - per scongiurare o al contrario per sollecitare, la distruzione dell’antico monastero.
La domanda di fondo era: i tedeschi usano o no l’abazia come forte militare?
Gli alleati sostenevano di si; i tedeschi negavano; i sacerdoti si mantenevano neutrali per non inimicarsi nessuno.
A metà febbraio 44 l’abazia venne bombardata e distrutta
dagli alleati. Che le difficoltà dell’arte della guerra non dipendessero, in quel contesto, dall’abazia, gli stessi lo appresero a loro spese nei tre mesi successivi, impiegati in ulteriori sterili e sanguinosi tentativi di scardinare le difese tedesche.
Alla fine i paracadutisti germanici che dopo il bombardamento avevano occupato le rovine dell’abazia, furono costretti a lasciarle e ripiegare, ma non per via di un attacco diretto, bensì per un difficile aggiramento montano effettuato da reparti marocchini/francesi, che militari alleati lungimiranti avevano già prospettato (non vedendoselo accettato), diversi mesi prima.
Sulla domanda se i tedeschi avessero in precedenza occupato l’abazia o se la usassero come punto di osservazione, il libro non fornisce una risposta assolutamente certa, ma da molti elementi fa intendere che probabilmente i tedeschi, prima della distruzione, si limitarono a fortificare i dintorni.
 
"Il giorno dell'aquila - La battaglia d'Inghilterra" di Richard Collier. L'autore è stato pilota RAF e corrispondente.
Come noto "Il giorno dell'aquila" fu il nome in codice che il comando della Luftwaffe diede alle incursioni sull'Inghilterra dell'agosto del 40.
Il libro, della seconda metà degli anni 60, oltre che a un'ovvia cronistoria di quei giorni (si focalizza tra gli inizi di agosto e la metà di settembre), ripercorre le vicende giornaliere di diversi piloti inglesi e tedeschi. Data l'epoca in cui è stato scritto, si deduce che Collier abbia potuto raccogliere parecchie testimonianze di prima mano.
In sintesi:
l'avvio della c.d. "battaglia d'Inghilterra era propedeuitico all'invasione della GB ("Operazione leone marino");
le 2 forze aeree avevano obiettivi e relative strategie differenti, dettate dal fatto che i tedeschi inizialmente miravano soprattutto a eliminare i caccia Inglesi. Per farlo intendevano sia bombardare gli aeroporti, sia "stanare" i caccia per abbatterli (ovvero obbligarli a decollare per intercettare i bombardieri ed essere a loro volta intercettati).
Ma così i loro caccia (ME 109) avevano una sorta di impegno doppio: scortare i bombardieri (cosa non facile vista la differenza di velocità) e ingaggiare i caccia inglesi. Ma anche in questo caso... senza allontanarsi troppo dai bombardieri.
A conti fatti cosa più facile a dire che a farsi.
In aria dovevano vedersela con Hurricane e Spitfire, aerei veloci e maneggevoli (in particolare i secondi), che soprattutto miravano a decimare i più lenti bombardieri ME 110 (mi pare fosse questa la sigla) e le ancor più vittime sacrificali Stukas.
Quello che infine emerge dal libro (e in sostanza comunque noto), è che la battaglia si esaurì "per stanchezza" più dei tedeschi che degli inglesi. Le perdite all'incirca si equivalsero ma a un certo punto Hitler non fu più interessato all'invasione dell'Inghilterra essendo "rapito" dall'idea dell'Operazione Barbarossa.
Una particolarità citata nel libro
(che se la dice un ex pilota inglese ritengo si possa credere). All'inizio della battaglia d'Inghilterra i bombardieri tedeschi avevano l'assoluta consegna di non bombardare le città. Era noto che Hitler aveva tentato a più riprese di fare una pace separata con gli inglesi e probabilmente non voleva esacerbare ulteriormente la situazione. Un banale errore nel mese di agosto era quasi costato la corte marziale ad alcuni uffciali tedeschi.
Ma si sa che quando si è in aria, gli errori si possono ripetere. I sobborghi di Londra vennero ancora colpiti si pensa per errore. Questo fece scattare la reazione inglese... e in sostanza diede il via a un'escalation su obiettivi civili
 
Di Alessandro Barbero ho avuto occasione di leggere "Caporetto", di Alessandro Barbero, uscito se non erro nel 2017 in occasione del centenario dell'evento.
Vicenda arcinota nei suoi contorni generali. Vale la pena anche di sentire il video di Barbero in tema
Per quanto attiene il libro, l'ho trovato ben scritto oltre che parco di considerazioni personali. Vengono prevalentemente ripercorsi i contesti che precedettero e seguirono l'attacco portato il 24 Ottobre 17 (come d'altro canto Barbero fa anche nella lezione a video)'; marginale il resoconto della battaglia in sé, per la semplice ragione che a conti fatti una vera e propria battaglia non venne combattuta ( per quanto da parte nostra ci furono reparti, soprattutto alpini, che la loro parte la fecero)
Gli austro-tedeschi (questi in particolare), penetrarono con una tale facilità il nostro sistema difensivo che al dunque Caporetto divenne - ed è passata alla storia - per quello che in termini nudi e crudi è sostanzialmente stata: una rotta disastrosa con connotati di farsa e tragedia. Il nostro esercito, mi par di capire, dal punto di vista numerico e dell'armamento (artiglieria in testa), non era del tutto male in arnese. Di certo pari, se non superiore, a quello imperiale austro-ungarico.
Di profondamente stantio c'era invece la classe "comandante"
, con le numerose ripercussioni sugli aspetti tecnico-logistici e a pregiudizio del loro buon funzionamento,
Un totale scollamento tra gli alti comandi e la truppa, considerata poco più che carne da macello da menare col pugno di ferro e senza alcuna empatia umana e attenzione per le dure condizioni di trincea.
A pesante corollario, inoltre, l'assoluta assenza di iniziativa individuale: in quanto la stessa era implicitamente scoraggiata e castrata da "circolari" superiori, redatte da fanatici alti ufficiali che davano per scontato che i problemi si risolvessero con la sola forza di volontà.
A parte quanto sopra, che in parte mi era noto (come pellicole consiglio "Uomini contro" e "Orizzonti di gloria", anche se non prettamente incentrati sulla vicenda di Caporetto) ho invece appreso:
a) i tedeschi non stimavano gli austriaci ed erano nettamente superiori a loro in tecnica e armamenti (possiamo dire che Caporetto ci fù perchè i tedeschi parteciparono per la prima volta sul nostro fronte coi loro uomini)
b) noi sapevamo dell'offensiva da settimane. Persino il giorno esatto e le modalità della stessa. Anche chi avrebba partecipato. Largo circa anche dove (e comunque avevamo truppe e artiglieria in abbondanza ovunque ce la si aspettasse).
c) la prima linea venne annichilita (non ci si aspettava in quel modo, ma che fosse sopraffatta era nel computo delle ipotesi), ma il tracollo fu determinato anche dal disastroso uso e comportamento delle seconde e terze linee, che avrebbero dovuto contrattaccare, e delle nostre pur forti artiglierie, a lungo e in molti casi restate inattive e abbandonate nella fuga.
d) lo sfondamento ai danni della II Armata, rese necessario il "ripiegamento" di oltre 120 km, coinvolgendo anche le altre armate; per cui non solo abbandonammo quei 20/30 km di terreno conquistati nei due anni precedenti al prezzo di centinaia di migliaia di morti, ma dovemmo lasciare la almeno 100km di territorio italiano
d) i fanti che ripiegavano, non erano per nulla demoralizzati. Ne avevano talmente piene le scatole della guerra, che cullavano l'idea che quella sarebbe stata la fine.
 
Ogni volta che nel mondo ci sono situazioni "pericolose" (... praticamente un mese si e uno no), faccio mente locale di libri letti.
Un paio di anni fa mi capitò di leggere "La Grande Guerra nuovi confini". L'avevo comperato alla Fiera del libro di Torino al padiglione della Difesa.
In sintesi, narra di come avvenne la ridefinizione dei confini e la redistribuzione dei territori alla fine della Grande Guerra.
A leggerlo c'è da mettersi le mani nei capelli di fronte alla montagna di rivendicazioni, richieste, pretese, sotterfugi, interessi e via discorrendo, avallate da ragioni storiche, economiche, politiche .... e avanzate dai vincitori (anche alla luce di accordi talvolta bilaterali presi tra loro prima e durante la guerra), dagli stessi sconfitti e dalle diverse nazioni che si formarono soprattutto alla dissoluzione degli imperi Austro-Ungarico e Ottomano.
Non poche furono le guerricciole di confine che contrapposero cechi, polacchi, bulgari, greci, turchi, ungheresi, austriaci, romeni ecc
.... senza contare che le cose erano complicate anche dalla guerra "Rossi e Bianchi" in Unione Sovietica.
Il tutto nell'ambito di una mentalità ancora pienamente ottocentesca e colonizzatrice.

Di fronte ai nodi irrisolti e alla montagna di recriminazioni che lasciarono le decisioni poi prese, viene proprio da considerare che la Seconda Guerra Mondiale fu tale solo per mero svolgimento cronologico, perché in verità fu semplicemente la ripresa della prima, che nel frattempo era stata combattuta sul piano politico.
P.S.
Il libro è edito da Edistampa Sud, che credo curi alcune edizioni per l'esercito. Contenuti a parte, devo dire che mi è parso non molto curato e con qualche neo:
in primo luogo sembra difettare di un adeguato editing, perchè ci sono errori di battitura (voglio ritenerli tali), in parecchie pagine;
diverse cartine, soprattutto quelle nelle pagine finali, sono sfuocate e praticamente illeggibili;
infine a mio avviso c'è un errore nella definizione dei dati delle numerose tabelle che riportano gli abitanti per etnie: ovvero, se si legge ad esempio 186.087 Ladini... 1.045.098 ungheresi e via discorrendo, il dato è senza dubbio all'unità; è quindi un errore che nelle colonne venga detto che sono "dati in migliaia".
L'autore, Rodolfo Bastianelli, a quanto ho appreso scrive articoli di politica/storia estera; il libro - forse per la vastità dell'argomento - appare quindi più un sunto didascalico, ma offre uno spaccato utile per capire chi siamo (e siamo stati) noi europei.
 
La Russia di questi tempi accentra le attenzioni mondiali.
Un annetto fa ebbi modo di leggere "Invasori, non vittime - La campagna italiana di Russia 1941-1943" di tal Thomas Schlemmer, ricercatore tedesco focalizzato sulla storia dell'epoca e con la collaborazione di tal Amedeo Osti Guerrazzi (storico italiano).
Titolo di per sé esplicativo dei contenuti del libro, che mette in discussione non tanto il mito degli "italiani brava gente", quanto quello lungamente coltivato nella memoria collettiva (e probabilmente tutt'ora in gran parte presente), di una sostanziale "estraneità ideologica" della guerra degli italiani rispetto a a quella condotta dai tedeschi in Russia.
Il libro di 340 pagine, ha un approccio storico/narrativo solo nelle prime 156; a seguire ci sono 100 pagine circa di Documenti e Rapporti ufficiali italo/tedeschi sui contesti, avvenimenti e battaglie che portarono tra il dicembre 42 e il gennaio 43, alla disfatta dell'Ottava Armata italiana e delle truppe tedesche aggregate, sul fronte di pertinenza. Infine una 70ina di pagine di note ulteriori e ampia storiografia. Nel complesso non facilissimo da digerire ma interessante nel contenuto.
Difficile non trovare spunti di riflessione in quello che è ben lungi dall'essere un banale esercizio di revisionismo. Non fosse altro una riflessione sul fatto che da sempre i fatti sono narrati come quelle del "Corpo italiano in Russia" e raramente capita di sentire l'aggettivo di invasore.
Di fatto le vicende italiane dopo il settembre 1943 e le dinamiche europee del dopoguerra - con la volontà e necessità politica di liberarsi del gravoso peso dell'alleanza fascio/nazista - hanno portato a forgiare una narrazione degli eventi tragica (e a tratti eroica), ma focalizzata sul "sacrificio" dei soldati/alpini italiani, schiacciati dal generale inverno, dall'inadeguatezza dei materiali, da un regime che li aveva condotti a una guerra impreparati, da un alleato indifferente e sordo alle richieste (e sul quale scaricare la responsabilità della guerra e di tutti i crimini commessi nei territori occupati... da entrambi)
Elementi in parte veri ma che non rappresentano la verità nella sua interezza. Stralci di lettere di fanti e alpini riportati dal libro lo dimostrano (piena adesione alla campagna intrapresa in Russia). Come pure rapporti italo/tedeschi sul morale, comportamento, effettivi armamenti/materiali e via discorrendo. L'approccio postumo ha in qualche modo sgravano le coscienze di chi, armi alla mano e convinzione di superiorità nella testa, era parte di un corpo di invasione
In sintesi le conclusioni dell'autore le si trova condensate a pagina 155, nella parte che conclude la narrazione storica: ".... una forma di memoria selettiva che aveva numerose lacune e in pratica riduceva l’intera campagna di Russia al solo episodio della ritirata dal Don, sancendo ufficialmente la nuova immagine del nemico - cioè il tedesco - che gli italiani si erano già creati al fronte orientale».
Va sottolineato che in un certo senso un'analogo atteggiamento ci fu nella Germania del dopoguerra, con la narrazione post bellica che (comodamente verrebbe da dire) attribuì tutte le colpe alle SS e ai nazisti in generale, assolvendo - in parte e impropriamente - le grandi masse armate della Wermacht che composero l'esercito tedesco.
P.S. Sulle complicità dell'intero popolo tedesco, leggasi quel caso letterario di metà anni 90 dal titolo "I volenterosi carnefici di Hitler"
 
Di recente mi è capitato di leggere "Il grande gioco del Sahel - dalle carovane ai boeing di cocaina", di Marco Aime, antropologo e Andrea de Georgio, giornalista
Sahel (sponda in arabo).... una striscia di terra in lotta col deserto lunga 8.500 kilometri, che partendo dalle coste atlantiche del Senegal e della Mauritania, si snoda attraverso una dozzina di stati sino alle coste Eritree del Mar Rosso.
Libro a cavallo tra la narrazione storico/geografica e la più recente cronaca socio/politica post coloniale e degli anni correnti. Deserto e carovane, agricoltori e allevatori, siccità e inondazioni (il Niger onnipresente e sofferente), traffici di uomini e droga (ove un tempo si trafficavano invece uomini e merci), crocevia di capipopolo e interessi internazionali, di governi avidi e poco capaci, di neo jihadismo furbo ancor prima che fanatico e di speranze (vane?) coltivate dai soliti coraggiosi.
Libro interessante. Fastidioso a tratti. Ma non mi ha fatto amare questa Africa né provare particolare empatia per i suoi problemi.
 
Saltando qualche secolo: qualche anno fa ebbi occasione di leggere un libro sul Saladino, titolato "Saladino. Il condottiero che sconfisse i crociati" di tal John Man, storico inglese che in particolare si interessa di Cina e Mongolia. Nel libro, del 2015, ci sono infatti alcuni accenni ai mongoli quale popolo che mise fortemente in pericolo il mondo arabo dell'epoca.
Personaggio, il Saladino, con un mix di astuzia, pragmatismo, volontà e obiettivi chiari (diciamo anche un tantino dettati da un insieme di calcolo politico con sottofondo di fanatismo religioso); a volte spietato ma più di sovente generoso. Di sicuro opportunista (ma apparentemente non per calcoli malevoli) e attento scrutatore della società dell'epoca (sua e dei suoi nemici in zona).
A tutti è noto che la sua presa di Gerusalemme non terminò in un bagno di sangue per le popolazioni cristiane (al contrario di quello che accadde decenni prima in occasione della riconquista da parte dei crociati).
Vero è, accenna Man, che gli arabi avevano opposto una più feroce resistenza, ma resta il fatto che Saladino era solito muoversi con un certo tatto nelle questioni belliche.
Sunnita con l'idea del califfato dalla Spagna al centro Africa ( cosa se ci si pensa, ripresa da quelli dell'ISIS); nemico tanto dei "Franchi" (così venivano chiamati i crociati dell'epoca), che delle dinastie fatimide (gli sciiti, per dirla tutta).
Interessante quindi apprendere che nelle more della "Jihad contro gli infedeli", il predetto si spese in almeno 10 anni di guerre contro altri musulmani... creandosi tra i correligionari (di certo tra gli sciiti... ma anche tra gli abbasidi/sunniti) quasi quanti nemici annoverò tra i crociati.
 
In altro 3d avevo parlato di "Invasori non vittime" che analizzava in una "luce" non usuale le vicende della nostra armata in Russia ai tempi del secondo conflitto. Corretto dire che le posizioni sono variegate.
In libreria ho ad esempio un "Sacrificio nella steppa - La tragedia degli alpini italiani in Russia" del 2012, scritto da Hamilton Hope (si legge che sia nipote di 2 alpini che parteciparono alla spedizione).

In questo caso le tematiche sono quelle più narrate: nostra impreparazione bellica (in Invasori non vittime l'aspetto "impreparazione" attiene più le catene di comando che il materiale inviato); coraggio e spirito di abnegazione ( in gran parte obbligati dagli eventi); assurdità della ns guerra (lettura postuma veritiera... ma che forse all'epoca contava su differenti opinioni); italiani brava gente (nell'altro libro, non del tutto... visto il tono di alcune lettere rinvenute negli archivi); russi povera gente; tedeschi, militari dell'epoca almeno, piuttosto arroganti; diecina di migliaia di ns morti inutili (qui sono tutti d'accordo).

Si ha comunque consapevolezza di cose che tendono a sfuggire: dei 225mila italiani in Russia "solo" 65mila erano alpini (Cuneense, Julia e Tridentina), mentre gli altri erano inquadrati in 7 divisioni di fanteria. Ma si sente parlare soprattutto degli alpini in Russia dimenticando forse un po' troppo gli altri.

Si ha la certezza di altre cose poco note: a migliaia sono morti nelle c.d. marce del "davai" ("davai bistrà..." "avanti", gridavano le guardie russe ai ns soldati presi prigionieri) e nei campi di prigionia sovietici. Unica attenuante per i vincitori è che anche la popolazione Russa era all'epoca ridotta alla fame e di trippa per i prigionieri ce n'era davvero poca. Di assurde chiacchiere propagandistiche da parte dei commissari politici, invece, a bizzeffe.
 
L'Europa ribolle ora come ha ribollito nei secoli e secoli precedenti.
Qualche settimana fa erano balzate alla cronaca nuove tensioni tra Serbi e Kosovari (penso ci siano ancora ma al momento non fa abbastanza notizia).
Del "disastro Jugoslavo", a dispetto dei lunghi anni di narrazione televisiva, ritengo di sapere poco.
Al proposito cito peraltro un interessante, a mio avviso, libro del giornalista triestino Paolo Rumiz: "Maschere per un massacro".
Il libro -credo del 96 - tratta, a cavallo tra il reportage e l'approfondimento, le "ragioni" delle guerre balcaniche. Mette a nudo i piedi d'argilla dello storico regime comunista e venuti a galla dopo la scomparsa di Tito.
Negli anni successivi i boiardi, con Milosevich in testa, questa è una delle tesi del libro, fecero e disfecero sino alle estreme conseguenze per perseguire il gattopardesco intento di cambiare tutto per non cambiare.
Interessante la rappresentazione di alcune dinamiche sociali che, a detta dell'autore, dietro la maschera della guerra etnica nascondevano anche profonde rivalità tra mondi rurali/montanari e la gente di città.
 
La passione per la storia in generale, fa sovente saltare di palo infrasca.
Complice poi alcune sistemazioni che ho iniziato in casa in queste settimane, tra le mani mi passano un mucchio di libri, fumetti e DVD che mi richiamano qualche cosa alla memoria.
Tra questi mi è capitato un libro su Cromwell scritto dal giornalista/storico Richard Newbury.
L'avevo preso a Torino un 7,8 anni fa alla fiera del libro, nello stand della Claudiana Editrice (specializzata nella pubblicazione di autori "Protestanti"... da non confondersi con i no TAV).
Il libro (non un tomo particolarmente corposo), si sofferma in particolare sugli attriti di carattere "religioso" (anzi direi sui "formalismi" insiti nelle manifestazioni religiose), che portarono alle due guerre civili tra l'esercito parlamentare, il c.d. New Model Army creato proprio da Cromwell e i lealisti di Carlo I.
Libretto interessante che si può leggere senza particolare sforzo, ma forse poco esaustivo della figura storica, del contesto e dei fatti dell'epoca.
 
"Caterina de Medici. Un'italiana alla conquista della Francia" (2019).
L'autrice, Alessandra Necci, ha all'attivo diverse biografie e non poche su personaggi femminili. Nello specifico (prima volta che la leggo), la sua opera, mi è risultata quasi più orientata verso un'agiografia del personaggio che a un resoconto storico.
La Medici, fiorentina ovviamente, nel 1533 a 14 anni per intercessione del sovrano Francesco I (innamorato di tutto ciò che era italiano e fiorentino) diventa sposa del figlio, Delfino di Francia e da allora, per un motivo o l'altro, vive in "subordine" sino ai 40 anni, nonostante a 28 diventi regina.
Al dunque comunque, donna di "potere" per 55 anni circa: una dozzina come Regina a fianco di Enrico II e gli altri - alla morte del predetto - come regina madre di tre figli succedutisi al trono l'uno dopo l'altro.
A dispetto dei tentativi di ricostruirne positivamente la figura, in contrasto con una più generalizzata storiografia che pare ne tracci un quadro affatto lusinghiero, il percorso narrativo della Necci non è che mi abbia molto convinto.
Della Medici ho ricavato l'impressione di una figura con una lunga latitanza della personalità che ha scarsamente brillato di luce propria, trovandosi probabilmente sulla scena internazionale più per circostanze che per capacità insite.
A dispetto di un racconto infiocchettato da quelle che a volte sembrano più piccole arringhe difensive che cronistorie accertate (l'autrice ha una laurea in giurisprundenza) la Medici, vuoi per indole, vuoi per scelte più o meno obbligate, vuoi per le circostanze mi è apparsa un "politico" incapace di essere peggiore dei peggiori o migliore dei migliori, senza neppure al contempo distinguersi particolarmente tra quelli moderati.
Ha vissuto sicuramente in un'epoca difficile (ma quali non lo sono), che ha visto prendere il via la secolare stagione delle guerre di religione; eppure seguendone la vita non si capisce quanto veramente avesse presente la situazione del regno. Sintomatici alcuni annuali viaggi per "promuovere" i figli Re del momento, che a dispetto dell'impressione positiva riportata dalla corte itinerante, videro far seguito, nel giro di pochi mesi, lo scoppio di torbidi di esagerata violenza.
 
Robespierre” di Mario Mazzucchelli, storico specializzato nel periodo e che fu uno dei primi italiani a cimentarsi con la complessità di personaggi ed eventi del periodo rivoluzionario francese.
La prima edizione di questo libro fu edita nel 1929; ve ne fu una del 1940, via via fino alla settima edita dalla dell’Oglio in occasione del bicentenario della Rivoluzione Francese. Ma penso fosse una ristampa di quella del 1959 che conteneva delle note a piè pagina che per via dei richiami storici (Hitler, Stalin), non potevano ovviamente essere presenti nelle prime.
Comunque opera eccellente, puramente di stampo storico/politico e con approfondimenti squisitamente in tema.
Che all’evidenza il libro sia stato scritto da uno storico lo dimostra anche il fatto che rifugge un mero percorso cronologico, frammisto da qualche commento, cui sono più avvezzi i giornalisti quando si approcciano alle biografie.
Unica concessione in tema, la narrazione delle giornate tra l’8 e il 9 Termidoro (fine luglio 1794), che portarono all’incriminazione, cattura ed esecuzione di colui - Robespierre - che per 4 anni aveva tenuto in pugno/scacco, la Convenzione e i due Comitati (quello di Salute Pubblica e quello di Sicurezza Nazionale).
 
" La strage di Teutoburgo: 9 d.c. La più grave sconfitta romana della storia" Autore Jason Abdale.
Libro interessante, dal quale si apprende, tra l'altro, che sulla vicenda in oggetto da fine anni 80 (anni in cui si sono identificati con maggiore precisione i siti) vi è un accresciuto interesse.

In estrema sintesi la vicenda: nel 9 d.c., in piena età "Augustea", tre legioni romane di stanza in Germania, al comando del Generale Varo, vennero distrutte da popolazioni del luogo, sollevate da tal "Arminio", che era un comandante della cavalleria ausiliaria in supporto ai romani.

I punti di forza del libro a mio avviso sono:

1) Riporta notizie sulle più recenti scoperte o supposizioni, circa gli eventi dell'epoca.
2) Fa una buona ricostruzione di quelli che erano i rapporti tra Roma e le popolazioni germaniche.
3) Confrontando varie fonti (compresi ruolini di servizio in vari forti romani), fornisce dati abbastanza plausibili sulle "forze in campo" in occasione dell'evento descritto (ne escono un po' ridimensionate quelle romane)
3) alla luce di vari antefatti (politiche di Roma e dei predecessori di Varo nella zona; figura di "Arminio" e delle varie tribù) e della posizione di comodo assunta successivamente dagli storici romani sulla vicenda, rivede, seppur parzialmente, la figura e la politica di Quintilio Varo.

Punti deboli.
Qualche carenza invece, in parte comprensibile, nella descrizione degli scontri; che, si apprende, durarono 4 giorni e costarono anche diversi prigionieri romani, alcuni dei quali liberati decine di anni dopo sotto l'imperatore Claudio.
In particolare non si evince nella narrazione se e in quanti km fossero allungate le truppe romane, dal momento che erano in marcia in mezzo a foreste per arrivare al luogo di una supposta sollevazione (pare creata ad arte per organizzare l'imboscata).
P.S.
Per quanto ovvio, l'autore in qualche modo smorza il termine di "più grave sconfitta", osservando che di fatto Roma, in termini assoluti, in precedenza aveva già subito altre pesanti e molto più sanguinose sconfitte anche per mano dei germani... ma sino ad allora - precisa - in epoche in cui la sua potenza era ancora in "crescita", mentre nel frangente di Teutoburgo la sconfitta arrivava ad un impero consolidato. Impero che negli anni successivi fece poi scattare pesanti rappresaglie.
 
"La Bomba".
La bomba
In verità si tratta di una graphic novel, ma ho deciso di parlarne perché sono oltre 500 pagine ottimamente illustrate in bianco e nero da Denis Rodier, nelle quali gli sceneggiatori Alcante e Bollée narrano la nascita della prima bomba atomica.
L'Uranio è un io narrante che di tanto in tanto fa capolino; per il resto protagonisti sono i vari scienziati e militari che girarono intorno al progetto Los Alamos e marginalmente a quelli falliti tedesche e nipponici (Oppenheimer, Fermi, Szilard, Heisemberg e altri).
Vasta la bibliografia alla quale si sono ispirati gli autori, per un opera che pur non avendo le possibilità di analisi di un saggio vero e proprio sull'argomento, compensa ampiamente con un riuscito effetto visivo che non indugia in inutili sensazionalismi.
 
Indietro