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10 ottobre , 2016
... un interessante testo di Wolfgang Streeck capitatoci per le mani. Come si legge nell’introduzione, “Tempo guadagnato” è la versione ampliata delle lezioni tenute dall’autore [ in occasione delle Adorno-Vorlesungen ] a Francoforte nel giugno del 2012 presso l’Istituto di ricerche sociali di Francoforte. Il libro ha il merito di mettere a tema, anche se da un punto di vista non rigidamente marxista, la questione del rapporto tra capitalismo e democrazia alla luce della rivoluzione neoliberista e le trasformazioni dello Stato che ne sono conseguite.
La tesi iniziale da cui l’autore muove, e che ci sentiamo di condividere, è che sia possibile comprendere la crisi in cui si dibatte il capitalismo del XXI secolo solo se la si interpreta come il culmine provvisorio di un processo più ampio, un processo che ha avuto inizio alla fine degli anni 60 del Novecento con la fine dei cosiddetti Trente Glorieuses.
Prima di aggredire il tema cardine del suo lavoro Streeck fa però i conti con i limiti mostrati dalla “teoria della crisi” elaborata dalla cosiddetta “Scuola di Francoforte” sottolineandone soprattutto l’incapacità di prevedere la finanziarizzazione. Le ragioni di tale incapacità analitica, stando all’autore, sono da ricercare nel modo con cui anche a sinistra venne di fatto accettata l’autodescrizione che l’economia capitalista dava di sé come di un sistema capace di realizzare una crescita stabile e superare definitivamente le sue criticità interne. Nelle teorie di quegli anni le contraddizioni del modo di produzione capitalistico vennero così progressivamente relegate a residuo ideologico di un certo marxismo ortodosso. L’idea condivisa con il pensiero mainstream era che l’economia capitalistica si fosse trasformata in una macchina che produceva benessere e che fosse una questione ormai puramente tecnica.
Il punto di rottura del capitalismo, dunque, non stava più nella sua struttura economica, ma nei suoi modelli politici e sociali. Il problema non riguardava più la produzione di plusvalore quanto piuttosto quello della “legittimazione” del sistema da parte dei salariati.
Nella realtà, come ci ricorda lo stesso Streeck, avvenne esattamente l’opposto. Non furono le masse a negare il consenso al capitalismo del dopoguerra decretandone la fine, bensì il Capitale. Nel sottolineare questo passaggio cruciale l’autore mostra però di maneggiare una concezione dello Stato che non fa i conti con l’analisi marxista, immaginandone una sorta di terzietà rispetto a “coloro che dipendono dal capitale” e a “coloro che dipendono dal salario”, e finendo così per rimanere ostaggio di quegli stessi limiti teorici da lui stesso rimproverati alla Scuola di Francoforte. In realtà dopo il 1945 il capitalismo si era trovato sulla difensiva in ogni parte del mondo e doveva puntare ad ottenere in tutti i paesi dello schieramento occidentale una proroga della sua legittimazione, un rinnovo della sua licenza sociale a fronte di una classe operaia rafforzatasi in seguito alla guerra, al fordismo e alla concorrenza tra i sistemi. Ciò si ottenne solo attraverso le notevoli concessioni previste e rese possibili dalla teoria keynesiana.
Come sostiene l’autore il regime postbellico del capitalismo “democratico” andò però inevitabilmente in crisi di fronte al progressivo esaurimento del ciclo di accumulazione fordista-keynesiano e, per reazione, il Capitale iniziò a preparare la sua uscita dal contratto sociale che aveva sottoscritto nel dopoguerra. A partire dai primi anni Ottanta nelle società occidentali vennero sempre più rifiutati, o comunque messi in discussione, alcuni elementi centrali del keynesismo mentre, in parallelo, tornò a crescere con estrema rapidità la diseguaglianza economica.
Ciononostante, come sottolinea Streeck, nelle ricche società occidentali la lunga transizione al neoliberismo trovò una resistenza decisamente debole e venne anzi accompagnata e favorita da una “rivoluzione culturale” di segno ideologicamente opposto a quello prospettato sul finire degli anni Sessanta. Sempre stando a Streeck in questa “transizione” un ruolo decisivo venne assunto dalla politica statale che, in cambio di denaro, fece guadagnare tempo al sistema capitalistico assicurando in tal modo una lealtà di massa al progetto sociale neoliberista.
All’interno di una società dei consumi che si stava rapidamente sviluppando la politica inflazionistica degli anni Settanta assicurò la pace sociale sostituendosi ad una crescita che non bastava più e provvedendo surrettiziamente al mantenimento della piena occupazione. L’espediente consisteva nel disinnescare il conflitto redistributivo tra Capitale e Lavoro tramite il ricorso a risorse aggiuntive che erano disponibili solo in forma di denaro, ma che non erano, o almeno non erano ancora, reali.
Nella seconda metà degli anni Settanta, con l’inizio della stagflazione, si ruppe l’incantesimo incentrato sulla sostituzione della crescita reale con quella nominale. Sotto la guida degli Stati Uniti e della Federal Reserve venne avviata una drastica stabilizzazione monetaria che portò a un duro scontro e alla sconfitta del movimento sindacale. La deflazione delle economie capitalistiche, favorite da una persistente disoccupazione strutturale e dalle “riforme” di segno neoliberista del mercato del lavoro e del diritto del lavoro si portarono dietro una consistente diminuzione del tasso di sindacalizzazione e delle ore scioperate.
[...]
Parallelamente crebbero esponenzialmente le richieste nei confronti dei sistemi di sicurezza sociale. Questo perché, nonostante l’intero sistema del welfare fosse sotto attacco, il patto implicito che era alla base del contratto sociale corrente non poteva essere smantellato tutto in una volta. Per la seconda volta si fece ricorso al sistema finanziario, non più stampando moneta, ma facendo ricorso al credito privato. Fu l’inizio dell’era dell’indebitamento pubblico. Negli anni Novanta i governi iniziarono a preoccuparsi della porzione dl loro bilancio destinata al servizio del debito mentre i creditori iniziarono a dubitare della solvibilità dei paesi indebitati. Furono di nuovo gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Clinton, a percorrere per primi la strada del risanamento del bilancio attraverso i tagli della spesa sociale. Il consolidamento del bilancio statale minacciava però di produrre una pericolosa flessione della domanda e una perdita di reddito in ambito privato, la risposta fu un’ulteriore iniezione di solvibilità anticipata, realizzata attraverso una seconda ondata di liberalizzazioni dei mercati finanziari che permise un rapido aumento dell’indebitamento privato. E’ quello che Colin Crouch definisce “keynesismo privatizzato”.
Riassumendo: secondo Streeck il tempo guadagnato dal capitalismo a caro prezzo si è manifestato in 3 forme e in 3 fasi successive. In questo senso l’evoluzione compiuta dal paese leader del capitalismo moderno, gli Stati Uniti, assume un valore assolutamente paradigmatico.
continua
...
Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: Tempo guadagnato, di Wolfgang Streeck <<
Wolfgang Streeck - Wikipedia
... un interessante testo di Wolfgang Streeck capitatoci per le mani. Come si legge nell’introduzione, “Tempo guadagnato” è la versione ampliata delle lezioni tenute dall’autore [ in occasione delle Adorno-Vorlesungen ] a Francoforte nel giugno del 2012 presso l’Istituto di ricerche sociali di Francoforte. Il libro ha il merito di mettere a tema, anche se da un punto di vista non rigidamente marxista, la questione del rapporto tra capitalismo e democrazia alla luce della rivoluzione neoliberista e le trasformazioni dello Stato che ne sono conseguite.
La tesi iniziale da cui l’autore muove, e che ci sentiamo di condividere, è che sia possibile comprendere la crisi in cui si dibatte il capitalismo del XXI secolo solo se la si interpreta come il culmine provvisorio di un processo più ampio, un processo che ha avuto inizio alla fine degli anni 60 del Novecento con la fine dei cosiddetti Trente Glorieuses.
Prima di aggredire il tema cardine del suo lavoro Streeck fa però i conti con i limiti mostrati dalla “teoria della crisi” elaborata dalla cosiddetta “Scuola di Francoforte” sottolineandone soprattutto l’incapacità di prevedere la finanziarizzazione. Le ragioni di tale incapacità analitica, stando all’autore, sono da ricercare nel modo con cui anche a sinistra venne di fatto accettata l’autodescrizione che l’economia capitalista dava di sé come di un sistema capace di realizzare una crescita stabile e superare definitivamente le sue criticità interne. Nelle teorie di quegli anni le contraddizioni del modo di produzione capitalistico vennero così progressivamente relegate a residuo ideologico di un certo marxismo ortodosso. L’idea condivisa con il pensiero mainstream era che l’economia capitalistica si fosse trasformata in una macchina che produceva benessere e che fosse una questione ormai puramente tecnica.
Il punto di rottura del capitalismo, dunque, non stava più nella sua struttura economica, ma nei suoi modelli politici e sociali. Il problema non riguardava più la produzione di plusvalore quanto piuttosto quello della “legittimazione” del sistema da parte dei salariati.
Nella realtà, come ci ricorda lo stesso Streeck, avvenne esattamente l’opposto. Non furono le masse a negare il consenso al capitalismo del dopoguerra decretandone la fine, bensì il Capitale. Nel sottolineare questo passaggio cruciale l’autore mostra però di maneggiare una concezione dello Stato che non fa i conti con l’analisi marxista, immaginandone una sorta di terzietà rispetto a “coloro che dipendono dal capitale” e a “coloro che dipendono dal salario”, e finendo così per rimanere ostaggio di quegli stessi limiti teorici da lui stesso rimproverati alla Scuola di Francoforte. In realtà dopo il 1945 il capitalismo si era trovato sulla difensiva in ogni parte del mondo e doveva puntare ad ottenere in tutti i paesi dello schieramento occidentale una proroga della sua legittimazione, un rinnovo della sua licenza sociale a fronte di una classe operaia rafforzatasi in seguito alla guerra, al fordismo e alla concorrenza tra i sistemi. Ciò si ottenne solo attraverso le notevoli concessioni previste e rese possibili dalla teoria keynesiana.
Come sostiene l’autore il regime postbellico del capitalismo “democratico” andò però inevitabilmente in crisi di fronte al progressivo esaurimento del ciclo di accumulazione fordista-keynesiano e, per reazione, il Capitale iniziò a preparare la sua uscita dal contratto sociale che aveva sottoscritto nel dopoguerra. A partire dai primi anni Ottanta nelle società occidentali vennero sempre più rifiutati, o comunque messi in discussione, alcuni elementi centrali del keynesismo mentre, in parallelo, tornò a crescere con estrema rapidità la diseguaglianza economica.
Ciononostante, come sottolinea Streeck, nelle ricche società occidentali la lunga transizione al neoliberismo trovò una resistenza decisamente debole e venne anzi accompagnata e favorita da una “rivoluzione culturale” di segno ideologicamente opposto a quello prospettato sul finire degli anni Sessanta. Sempre stando a Streeck in questa “transizione” un ruolo decisivo venne assunto dalla politica statale che, in cambio di denaro, fece guadagnare tempo al sistema capitalistico assicurando in tal modo una lealtà di massa al progetto sociale neoliberista.
All’interno di una società dei consumi che si stava rapidamente sviluppando la politica inflazionistica degli anni Settanta assicurò la pace sociale sostituendosi ad una crescita che non bastava più e provvedendo surrettiziamente al mantenimento della piena occupazione. L’espediente consisteva nel disinnescare il conflitto redistributivo tra Capitale e Lavoro tramite il ricorso a risorse aggiuntive che erano disponibili solo in forma di denaro, ma che non erano, o almeno non erano ancora, reali.
Nella seconda metà degli anni Settanta, con l’inizio della stagflazione, si ruppe l’incantesimo incentrato sulla sostituzione della crescita reale con quella nominale. Sotto la guida degli Stati Uniti e della Federal Reserve venne avviata una drastica stabilizzazione monetaria che portò a un duro scontro e alla sconfitta del movimento sindacale. La deflazione delle economie capitalistiche, favorite da una persistente disoccupazione strutturale e dalle “riforme” di segno neoliberista del mercato del lavoro e del diritto del lavoro si portarono dietro una consistente diminuzione del tasso di sindacalizzazione e delle ore scioperate.
[...]
Parallelamente crebbero esponenzialmente le richieste nei confronti dei sistemi di sicurezza sociale. Questo perché, nonostante l’intero sistema del welfare fosse sotto attacco, il patto implicito che era alla base del contratto sociale corrente non poteva essere smantellato tutto in una volta. Per la seconda volta si fece ricorso al sistema finanziario, non più stampando moneta, ma facendo ricorso al credito privato. Fu l’inizio dell’era dell’indebitamento pubblico. Negli anni Novanta i governi iniziarono a preoccuparsi della porzione dl loro bilancio destinata al servizio del debito mentre i creditori iniziarono a dubitare della solvibilità dei paesi indebitati. Furono di nuovo gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Clinton, a percorrere per primi la strada del risanamento del bilancio attraverso i tagli della spesa sociale. Il consolidamento del bilancio statale minacciava però di produrre una pericolosa flessione della domanda e una perdita di reddito in ambito privato, la risposta fu un’ulteriore iniezione di solvibilità anticipata, realizzata attraverso una seconda ondata di liberalizzazioni dei mercati finanziari che permise un rapido aumento dell’indebitamento privato. E’ quello che Colin Crouch definisce “keynesismo privatizzato”.
Riassumendo: secondo Streeck il tempo guadagnato dal capitalismo a caro prezzo si è manifestato in 3 forme e in 3 fasi successive. In questo senso l’evoluzione compiuta dal paese leader del capitalismo moderno, gli Stati Uniti, assume un valore assolutamente paradigmatico.
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Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: Tempo guadagnato, di Wolfgang Streeck <<
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