Franco Basaglia non amava i matti, odiava il manicomio.
"Il 13 maggio non si è stabilito per legge che il disagio psichico non esiste più in Italia, ma si è stabilito che in Italia non si dovrà rispondere mai più al disagio psichico con l’internamento e con la segregazione. Il che non significa che basterà rispedire a casa le persone con la loro angoscia e la loro sofferenza". Franca Ongaro Basaglia, 19 settembre 1978.
“Mi no firmo”, diceva Franco Basaglia rifiutando di firmare il registro dei legati al letto in manicomio. Cos’è cambiato dall’introduzione della legge 180, o legge Basaglia.
La
malattia mentale non si è mai scrollata di dosso l’uniforme di vergogna e stigma che ci riporta in quei luoghi dove veniva chiusa e isolata, per essere nascosta ‘ai normali’: i
manicomi. Una divisa che rappresentava uno scandalo sociale e classificava chi la indossava come ‘matto’. Nonostante i grandi e legittimi passi in avanti, quella con la salute mentale non si può dire sia una questione risolta: parlarne al passato significherebbe rimuovere gli ostacoli moderni, le difficoltà contemporanee, le contraddizioni – e concezioni – che ancora oggi resistono alle leggi e alla cultura. Nel trattare l’argomento va rievocato quello che fu il punto di rottura tra la concezione di ‘malato’ e ‘malattia’: la legge di Riforma, conosciuta come legge n.180/1978 o
legge Basaglia.
45 anni fa la legge Basaglia e la chiusura dei manicomi
Entrata in vigore
45 anni fa, il 13 maggio 1978,
la legge Basaglia sancì la chiusura dei manicomi, riformando il sistema di cura per il disagio mentale, e segnando una svolta nel mondo dell’assistenza ai pazienti psichiatrici. Figlia degli anni ’70, periodo ricco di ricerche, dibattiti, e di importanti riforme socio-sanitarie, questa prende forma in un contesto dove la psichiatria aveva ancora un approccio strettamente organicistico:
più che curato, il malato veniva preso in custodia, allontanato dalle proprie relazioni personali. Nei manicomi si veniva rinchiusi perché ritenuti pericolosi per sé o per gli altri, perché si dava pubblico scandalo, perché improduttivi, poveri, affetti da dipendenze, perché malati di epilessia.
Madri, figlie, sorelle definite “spudorate”, “libertine”, donne che si ribellavano ai dettami del matrimonio o che commettevano adulterio, potevano essere internate.
In Italia la maggior parte dei manicomi venne costruita come
alternativa al carcere: edificati ai margini delle città, in periferia, in queste strutture i contatti con l’esterno erano ridotti all’osso, si veniva relegati all’isolamento, alla coercizione e alla contenzione fisica, e si veniva divisi non per solo ‘pericolosità’, ma anche per sesso.
Un annullamento fisico e psichico che culminava nelle cure e nei trattamenti: elettroshock, docce gelate, camicie di forza, lobotomie, insulino-terapia e letti di contenzione.
L’approccio rivoluzionario di Franco Basaglia
A mettere l’accento sui metodi e le logiche manicomiali fu
Franco Basaglia, che il 16 novembre 1961 arriva a Gorizia come nuovo
direttore dell’ospedale psichiatrico provinciale, dopo un’esperienza come docente all’Università di Padova. Non allineato al clima del periodo, criticato e
giudicato rivoluzionario per le sue tesi, la sua fu una ‘punizione’ mascherata da promozione: a Gorizia, a fronte di individui senza più volto, nome e storia, ‘matti’ costretti all’emarginazione e alla cattività, sottoposti alla violenza dell’oblio,
Basaglia decise di ‘aprire le porte’. Promuovendo un innovativo metodo di cura e ascolto che sosteneva il rispetto della persona umana,
poneva al centro l’individuo e non la malattia, e metteva tra parentesi la diagnosi, restituendo valore e dignità alla storia del singolo, Basaglia dà il via a un cammino rivoluzionario. Lo psichiatra sostiene che gli aspetti sociali siano essenziali per definire la malattia mentale, alla cui origine ci sarebbero delle cause biologiche non ancora conosciute. I
pazienti non sono più solo persone da riabilitare, ma soggetti che vivono e abitano la città: la terapia, quindi, deve partire dalla costruzione di un rapporto reale tra medico e paziente, che permetta e favorisca il dialogo e il confronto. Basaglia restituisce ai ‘malati’ le vesti di
esseri umani.
Nel
dopoguerra si contano decine di migliaia di pazienti
internati nei manicomi. Ne ‘I giardini di Abele’ di Sergio Zavoli, un reportage che il giornalista Rai gira nel 1967 a Gorizia, si parla di oltre
100mila persone. In un’intervista Zavoli chiede a Basaglia: “E’ interessato più al malato o alla malattia?”. La replica è secca: “Decisamente al malato”. Ai tempi era ancora in vigore la
legge Giolitti, la legge n.36 del 14 febbraio 1904: ‘Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati’. Secondo la normativa, il malato era tale per intrinseche caratteristiche genetiche, biologiche e fisiche, ed era per questo
ritenuto pericoloso: il soggetto veniva privato dei diritti civili, e iscritto al casellario giudiziale.
Tra il
1961 e il 1968, Basaglia si circonda di un nutrito gruppo di psichiatri affini alle sue tesi, che si approccia alla malattia mentale con nuovi presupposti: nella struttura gestita dallo psichiatra veneziano, i pazienti vengono lasciati liberi di passeggiare tra il giardino e i diversi edifici, di consumare i pasti all’aperto e di frequentare la società.
Un passo verso la riformazione dei manicomi avviene con la legge Mariotti, la n.431 del 18 marzo 1968 che, tra le tante modifiche, consente il ricovero volontario dei pazienti senza la perdita dei diritti civili, finanzia l’ampliamento del budget per il personale medico e psicologico a spese dello Stato e, col fine di rendere più dignitose le condizioni di vita all’interno degli ospedali psichiatrici, fissa un numero massimo di posti letto in ciascuna struttura per tentare di sopperire al sovraffollamento. Non da ultimo, Basaglia costituisce delle cooperative di lavoratori: ciò permette ai pazienti delle strutture non solo di ricevere uno stipendio, ma anche di conquistare una propria indipendenza e una rinnovata dignità. L’insieme di tutte queste posizioni, e dinamiche, porterà
nel 1973 alla creazione del movimento ‘Psichiatria democratica’.
A che punto siamo ora
La recente morte della psichiatra
Barbara Capovani, avvenuta per mano di uomo affetto da un disturbo mentale, ha riacceso il dibattito a un pugno di giorni dall’anniversario della 180. Oltre alle mancanze strutturali e le carenze note, è necessaria una
riflessione sul tema che tocchi l’aspetto culturale della legge: la trasmissione dei saperi. Secondo Vito D’Anza, direttore del dipartimento di salute mentale dell’ospedale di Pescia, in provincia di Pistoia, c’è un “nodo di fondo che si è posto nel momento in cui è stata fatta la riforma”.
Si è passati “da una psichiatria asilare e privata ambulatoriale, a una psichiatria territoriale dei pubblici servizi”. Ciò doveva presupporre una formazione degli operatori completamente nuova. “L’università ha continuato a insegnare come si usano i farmaci e come si fa una diagnosi: ci siamo trovati centinaia di operatori con una formazione esclusivamente medicalizzata, ma la salute mentale non è solo ‘parte sanitaria’,
perché il farmaco da solo non è la cura”, la soluzione. E non è “facile decostruire un modello pratico in testa ad un operatore quando arriva in un servizio con quella formazione”, ma la 180 insegna che la salute mentale è ben altro.
di Lavinia Nocelli -
La legge Basaglia chiuse i manicomi 45 anni fa. Cos'è cambiato da allora - LifeGate
Zavoli incontra Basaglia I giardini di Abele
I giardini di Abele
Il 30 dicembre 1968 è andato in onda per Tv7 il servizio di Sergio Zavoli sul manicomio di Gorizia diretto da Franco Basaglia. In quegli anni, era caldo il dibattito sulla prassi psichiatrica invalsa e l'esperimento goriziano di Basaglia mirava a restituire al malato la sua dimensione umana, occupandosi delle persone ancor più che del male da cui erano affette. Dieci anni dopo, il 13 maggio 1978, fu approvata la Legge Basaglia, che impose la chiusura dei manicomi ed istituì servizi pubblici di igiene mentale.
Zavoli incontra Basaglia 1968 - I giardini di Abele - Video - RaiPlay